COLLEZIONE DI CLASSICI ITALIANI CON NOTE FONDATA DA PIETRO TOMMASINI-MATTIUCCI diretta da GUSTAVO BALSAMO-CRIVELLI Volume II TORINO UNIONE TIPOGRAFICO -EDITRICE TORINESE (fU trattni romtt LUroj In PHnelpk^ itttt OortraU H H • ITM) VITTORIO ALFIERI LA VITA INTRODUZIONE E NOTE di LUIGI NEGRI C»i due tavole. TORINO UNIONE TIPOGRAFICO -EDITRICE TORINESE itU fnuU Pemta Utral (a PHmtrt» ifU» Cvmlrmda ti ft ■ J796) PCI- H8I /la I3ZI PROPRIETÀ LEITERARIA E ARTISTICA Torino — Tipografia A. Biamino — 1926. CLASSICI ITALIANI Voi. Il, Tav. I. (Qnailro ili /-". .s". hiihn VITTORIO ALFIERI CLASSICI ITALIANI Voi. II, Tav. II. (Quadro di F. S. Fabre). ' Anderson ). LA CONTESSA D'ALBANY PREFAZIONE a. ~ aastlrl UatiaiU. N. ì Ha scritto Descartes nella prima parte del Discours de la Méthode che < la lettura di tutti i buoni libri è come una conversazione cogli uomini migliori dei secoli scorsi, i quali ne sono gli autori ; una conversazione studiata anzi, in cui essi non ci rivelano che i loro migliori pensieri. » Questa affermazione sembra non potersi meglio riferire, nella nostra letteratura, che alle opere di Vittorio Alfieri, specialmente alla Vita scritta dal piemontese, nel quale parve rivivere il genio di Dante, secondo l'espressione del Gioberti', che, nonostante diversità di fede, seppe valutare l'opera dell'astigiano; opera umana e letteraria, da giudicare essenzialmente in rapporto ai tempi in cui egli visse, perchè in essi sembra quasi si debbano ricer- care il movente della sua penna, la cagione del suo ci- piglio, quale appare nel ritratto dipinto dal Fabre, ora ad Asti, nella camera ove nacque il poeta, e che egli come somigliantissimo aveva inviato alla sorella Giulia ^ Esso colpisce per la vivezza e, diremmo quasi, la mobilità degli occhi, rivelatori, come nel capolavoro di Houdon, la statua di Voltaire al teatro della ComMie-Frangaise di Parigi, > Del Primato, con € Introduzione » di O. Balsamo-Crivelli (Torino, Unione TipograFico-Editrice, s. a., HI, p. 162). » V. la lettera dell'Alfieri alla sorella, in data 2 aprile 1798 {Opere, Torino, Paravia, 1903, li, p. 261) ; in questa ristampa, fatta in occasione del primo centenario della morte dell'A., il testo della Vita riproduce quello dato dal Teza, da noi stolto (cfr. p. xix). vili Prefazione della'^siiperiorjtà dell' uomo"; ma nello sguardo dell'asteiise, in quegli * occhi chiari ' sotto due ' cjglia aggrottate ' ', qualcosa di diverso si può scorgere, l'atteggiamento del- l'occhio e dei suoi muscoli rivela più che una folta ridda di j)ensieri, la collera morale, che, si può dire non ab- bandonò mai * il supremo atleta de l' italo agon ' \ Non è possibile affermare che egli, quando nel giro di quattordici versi racchiuse il proprio ritratto ^ conoscesse un'operetta anonima pubblicata nel 1746 dal benedittino Pernetti, col titolo di Lettres philosophiques sur la phy- sionomie; ad ogni modo abbia o no avuto presente lo scritto dell'abate francese, il quale segnava una via nuova nello studio psicologico della fisionomia umana, l'Alfieri vide r importanza di uno studio di tal genere, e nella Vita scritta da esso si propose di presentare una visione com- pleta, le diverse * vedute ' anzi, per usare un termine delle arti figurative, caro ad un prosatore da lui studiato ed ammirato della propria figura morale. In questo intento stanno appunto i molti pregi ed al- cuni difetti del libro che, pel soverchio studio del vero, finisce talvolta col darci l'idea di un Alfieri unilaterale, tratteggiato sempre da eroe, alle volte abbellito, alle volte anche inferiore all'originale. • M. D'Azeglio, / miei ricordi, IV. » O. Carducci, Juvenilia, XLIII; è il sonetto: e O de l'italo agon su- premo atleta ». 8 Riferiamo l' intero sonetto dell'Alfieri {Op., Ili, p. 120) che non è privo di interesse: Sublime specchio di veraci detti, Mostrami in corpo e in anima qual sono: Capelli, or radi in fronte, e rossi pretti ; Lunga statura, e capo a terra prono; Sottil persona in su due stinchi schietti; Bianca pelle, occhi azzurri, aspetto buono; Giusto naso, bel labro, e denti eletti; Pallido in volto, più che un re sul trono: Or duro, acerbo, ora pieghevol, mite; Irato sempre, e non maligno mai ; La mente e il cor meco in perpetua lite: Per lo pili mesto, e talor lieto assai. Or stimandomi Achille, ed or Tersìte : Uom, se' tu grande, o vii? Muori, e il saprai. Prefazione ix Dotato di forte sentimento, lo scrittore ebbe la precisa coscienza del suo carattere, ma la rappresentazione di questa coscienza venne alterata, deformata quasi sempre, dalla stessa affettività del poeta.'' Quesla osservazione ne- cessaria a chi studi le maggiori figure del secolo XVIII", lo è specialmente per lui, che, uomo di quel secolo ne subì l'influsso pur disconoscendone i benefizi: il 'fiero Allobrogo ' come lo disse il Parini ', in fondo fu sempre ligio al suo Piemonte, e più che ad esso alle tradizioni aristocratiche della vecchia nobiltà sabauda. Dei cortigiani di Vittorio Amedeo IH e di Carlo Emanuele IV, tra i quali tuttavia non volle essere annoverato, egli, il conte subal- pino che tanto disprezzava il Voltaire, perchè « nato plebeo, e sottoscrittosi nelle sue firme per lo spazio di settanta e più anni: Voltaire gentiluomo ordinario del re*? ha in sé qualche cosa, la suscettibilità e la ostentazione. 11 si- lenzio della sua autobiografia sui grandi fatti svoltisi at- torno a lui, le vicende della rivoluzione francese che ei vide, mentre era a Parigi, le giornate di entusiasmo e quelle di follia in cui egli visse, perchè non trovano una eco in queste pagine? E non solo in queste, ma neppure in altre; eco intendiamo la quale si effonda quasi in una visione di tempi di miglior giustizia, come non manca alcune volte nel teatro del Goldoni e negli scritti londi- nesi del Baretti, per citare anche un piemontese ; l'Alfieri ci ha dato il Misogallo che nelle " Ultime volontà esposte e raccomandate alla contessa d'Albany " ei desiderava fosse < sparso abbondantissimamente in tutta l'Italia, af- finchè egli serva di commento, e di contravveleno a tutte le sinistre interpretazioni ed effetti che potessero forse provenire dalla pubblicazione del Principe e della Tiran- nide *, cos\, x\t\ capo d'anno del 1799 si esprimeva il poeta, allora sulla cinquantina, e colla mente non turbata ^ > Odi, e Alla Marchesa Paola Castiglioni > (Il Dono). » Vita, IV, 16. X Prefazione dalla visione di una prossima fine; ciò nonostante il Mi- sognilo è e rimane fra le di lui opere la più personale quanto all'argomento: nelle giornate di Parigi egli forse vide poco pili che i suoi mobili e i suoi libri saccheg- giati, e la passione che lo rese ingiusto, se pure non anche invidioso verso il Vate di Ferney di cui dimostra o di ignorare o di disconoscere l'opera umanitaria e civile, sia pure vanagloriosamente strombazzata, lo rese del pari scortese verso il Lagrange* e verso il Ginguené^ ministro di Francia a Torino, quando questi gli offerse la sua opera pel ricupero delle carte e dei libri sequestrati a Parigi, sgar- bato col Pindemonte, col Monti e col generale Miollis^ La j^flilera nell'occhio dell'Alfieri non fu celestiale, come quella classica degli angeli, nell'affresco di Eliodoro cac- ciato dal Tempio, fu tulta-Uinana ; ed alla collera s'unì in lui un'estrema suscettività, non disgiunta da sensibilità quasi morbosa e da filautia, onde mentre il Gioberti*, per quanto concerne il sentimento del genio italiano e lo scopo civile del magistero poetico Io considera a fianco del JVlanzoni, l'Alfieri uomo sta invece, per molti tratti carat- teristici, fraj^LRo^usseau.e il-Byron e può, anche crono- logicamente, essere' considerato come continuatore del- l'uno, precursore dell'altro." Gli accenni all'Àifieri sono frequenti nelle opere del poeta inglese, congiunti spesse volte ad espressioni di ammirazione, come ntW Avvertimento premesso alla Pa- risina'^, ove l'astigiano è paragonato ai grandi poeti dram- matici antichi e allo Shakespeare ; in alcune lettere egli si dimostra affascinato dall'arte del piemontese nella Mirra, > V. la lettera dell'Alfieri scritta di suo pugno dietro l'ultima pag^ina di una copia manoscritta del Misogalh (Op., II, p. 305) e intitolata « Al matematico La Grangia Vittorio Alfieri, Salute con Oloria », Firenze, di 5 agosto 1800. » Vita, IV, 26; IV, 28. » Vita, IV, 29. * Prolegomeni del Primato, Brusselle, 1845, p. 285. » Byron, Works, London, Murray, 139S-1904 ; Poetry, III, p. 503. Prefazione Xt alla cui rappresentazione ha assistito', e In una nota al canto IV dello Childe Harold questi vien chiamato « il bardo della libertà* ». Tali accostamenti non sono fortuiti; il Byron trovò nel nostro tragico un riflesso di quel ca- rattere forte e passionale, impetuoso e sensibile, quale traspare anche nei di lui scritti, per cui il Taine ebbe a dire che solo un cieco può non scorgere in lui i senti- menti dei personaggi suoi ; e difatti lo stesso poeta inglese ammise questa somiglianza di umore, di carattere col- l' Alfieri' ed a lui dedicò assieme a Michelangelo, Galileo, Machiavelli e Canova due stanze* le quali, mentre non sarebbero indegne del poeta dei Sepolcri, onorano ad un tempo la terra nostra e chi le dettò: In Santa Croce's holy precints lie Ashes which make it holier, dust which is Even in itself an immortality, Though there were nothing save the past, and this, The particle of those sublimities Which bave relapsed to chaos: — here repose Angelo's, Alfieri's bones, and bis, The starry Galileo, with bis woes; Here Machia velli's earth return 'd to wbence it rose. These are four minds which, like the elements, Migbt fumish forth creation; — Italy! Time, which hath wrong'd thee with ten thousand rents. Of thine imperiai garment, sball deny, And batb denied, to every otber sky, Spirits wbicb soar from ruin : — tby decay Is stili impregnate with divinity, Which gilds it with revivifying ray Such as the great of yore, Canova is to-day.» > Lettere datate da Bologna 12 e 24 agosto 1819. » St. Liv, vv. 6-7 ; Works, Poetry, II, 491 e seg. • Works, Poetry, II, pp. 369-370. * Childe Harold's Pilgrimagf, IV, liv-lv. » Nel sacro recinto di Santa Croce vi sono ceneri che il fan più tacro, polvere che già in sé stessa è un' imniorla!it:i, quand'anche nulla vi fosse tranne il passato, e ouesta, frammento di splendori ricaduti nel caos; - qui riposan le ossa di Michelangelo, di Alfieri e, colle sue sventure, quelle 2„ Prefazione Ed il Byron che coli' Alfieri ebbe comune il culto del- l'Alighieri S di cui è nobile espressione The profecy of Dante, fu anche, al pari di lui fervidamente italiano pe, suoi affetti, pei suoi amori e per gli odi. ^ per la con- templazione storica, scrive lo Scherillo^ del nostro pas- sato, per la visione sicura del prossimo n/>^ .^ "^^/f mento, dell'avvenire immancabile di gloria che ci attende., e l'odio per lo straniero lo portò a collaborare ....amor, a tutte le generose imprese aventi per scopo di «liberare V Italia e il mondo intero dall' infame oppressione di questa canaglia tedesca e austriaca., afferma ^gH fsso >" ""^ lettera del 16 febbraio 18213: in questa Vita, che, sap- piamo egli lesse*, trovò l'orgogUo indomabile per ^ " - t, natali, l'amore dei cavalli e dell'agiatezza, e pm ancora l'aspirazione indefinita ad un domani più ""^'"7' ^ ;7;- razione alla libertà di un animo irrequieto, melanconico e perennemente scontento di sé, in preda allo splen quale già appariva l'Alfieri fin dai primi anm, « taciturna e placido, per lo più; ma alle volte loquacissimo e viva- ci^imo; e quasi sempre negli estremi contrari: o tinato e restio contro la forza; pieghevolissimo agli aws amo- revoli; rattenuto più che da nessun'altra <^«^.%f;y";;.°:^. d'essere sgridato; suscettibile di vergognarsi fino ali ec dello stellato OaUleo; qui, donde era sorta, è tornata la terrena argilla di Machiavelli. elementi, potrebbero empiere "".'pSton. .1 aun,. eli. d.U di R...n... » ..«.mbr. 1821. prefazione Xill Cesso, e inflessibile se egli veniva preso a ritroso. »' Ein una frase italiana del poeta inglese, che dedica il canto IV étWAroldo all'amico John Hobbouse, ricompare degna- mente il nome dell'Alfieri : « Mi pare che in un paese tutto poetico, che vanta la lingua la più nobile ed insieme la pili dolce, tutte tutte le vie diverse si possono tentare, e che sinché la patria di Alfieri e di Monti non ha per- duto l'antico valore, in tutte esse dovrebbe essere la prima »^ Quando nel marzo 1816 il cantore di Lara, l'eroe del- l'orgoglio e della passione, indirizzava alla moglie miss Anna Isabella Milbanke, che più non doveva rivedere, VAddio^ straziante della prima delle Domestic Pieces, già da tredici anni la vita dell'Alfieri era spenta, ed una donna egli pure aveva incontrato che forse non fu del tutto estranea alla sua morte, la contessa Luisa d'Albany, figlia di Gustavo Adolfo principe di Stolberg-Geldern, sulla quale Massimo d'Azeglio* ci ha lasciato curiosi partico- lari, concernenti anche i frequentatori della casa della vedova dej pretendente al trono di Scozia, Carlo Odoardo Stuart. L'amore forse li volle unire ancora in un destino comune. Col Rousseau l'Alfieri non fu in relazione diretta, ne subì tuttavia il fascino come Byron il suo, e per lo stesso motivo, non poco di somiglianza, di affinità nel carattere; è noto anzi come sulla ventina egli abbia voluto leggere ' Vita, I, 4. » Works, Poetry, li, p. 324. * Eccone la prima stanza : « Fare thee well ! and if for ever, Stili for cver, fare thee well: Even thoujjh imforgivinj;, never 'Oainst thee sball my bcart rebel *. « / miei ricordi, IV. b. - riisflfl Italiani N. 2. jjjy Prefazione la Nuova Eloisa, « più volte, così si esprimeS mi ci provai; ma benché io fossi di un carattere per natura appassio- natissimo. e che mi trovassi allora fortemente innamorato, io trovava in quel libro tanta maniera, tanta "^ercatezza tanta affettazione di sentimento, e si poco sentire, tanto calor comandato di capo, e sì gran freddezza di cuore che mai non mi venne fatto di poterne terminare il primo volume. Alcune altre sue opere politiche, come il Con- tratto Sociale, io non le intendeva e perciò e lasciai >> Nel secondo soggiorno in Parigi, nel 1771, egU contmuaS «avrei facilmente potuto vedere ed anche trattare i ce- lebre Gian Giacomo Rousseau, per mezzo d un italiano mio conoscente che aveva contratto seco una certa fam^ guarita, e dicea di andare egli molto a gemo al suddetto Rousseau. Quest' italiano mi ci volea assolutamente intro- durre, entrandomi mallevadore che ci saremmo scambie- volmente piaciuto l'un l'altro, Rousseau ed io. Ancorché io avessi infinita stima del Rousseau più assai per il suo carattere puro ed intero e per la di lui sublime e indi- pendente 'condotta, che non pe' suoi libri, di cu. que pochi che avea potuti pur leggere mi aveano piuttosto tediato come figli di affettazione e di stento; con tutto e 6 non essendo io per mia natura molto curioso ne punto sofferente, e con tanto minori rag.om sentendom fn cuore tanto più orgoglio e inflessibilità di lui; non mi volli piegar mai a quella dubbia presentazione ad un uomo superbo e bisbetico, da cui se mai avessi ricevuta Smezza scortesia glie n'avrei restituite ^lec. petxhè sempre così ho operato per istinto ed impeto di natura di rendere con usura, sì il male che il bene Onde non s ne fece altro. > Ad ogni modo l'Alfieri che a quella dubbia presentazione ad un uomo superbo e b^sbeUco non volle piegarsi, più che altro per orgoglio, se poco apprezzò t Vita, in, 7. tWita, li!, V- Prefazione xv le opere di Gian Giacomo perchè, come giustamente ri- leva il Bertana', la repubblica dell'Alfieri non poteva essere quella del ginevrino, qualcosa inavvertentemente prese da lui, e nella stessa Vita non manca qualche ana- logia colle Confessioni. Rousseau « si accinge ad un compito che non ha esempi e che non avrà imitatori », vuol « mostrare ai suoi simili un uomo nella intera verità della natura », e quest'uomo sarà egli stesso; l'Alfieri dirige principalmente lo scopo della sua opera allo studio dell'uomo in genere, ma di qual uomo « si può egli meglio e più dottamente parlare che di sé stesso?^ » Per l'astigiano il libro dei libri, il quale gli fece trascorrere delle beate ore di rapimento, strappandogli lagrime di dolore e di rabbia, fu Plutarco*; su quella stessa lettura Gian Giacomo si formò « quello spirito indipendente e repubblicano, quel carattere indo- mabile e fiero, insofferente di giogo e di serviti! » che doveva tormentarlo per tutta la vita*; giovine ancora egli abbandona la casa paterna per acquistarsi l'indipendenza, per entrare nel vasto spazio del mondo, per trovarvi feste, tesori, avventure, amici'; il piemontese animato da « una frenetica voglia di viaggiare" » più che alla moda dei viaggi * ne le Gallie e in Albione*, soggiace all'animo suo impaziente di freni, vago dell'imprevisto, a quella pas- sione diametralmente opposta alla nostalgia, determinata da brama d'indipendenza o da speranza di una felicità immaginaria, non rara nei giovani. Cosi mentre il Rous- » E. Bertana, Vittorio Alfieri, Torino, Loescher, 1902, p. 302. ■ Vita, « Introduzione •. • Con/., I, I ; che Rousseau leggesse Plutarco anche in età matura afferma egli stesso nelle Rèveries du Promtneur solitaire, IV. • Con/., 1, il. » Vita, II, 10. • Parini, // Mattino, v. 17. Sulla moda dei viaggi invalsa nel secolo XVIII, e colpita dalla satira del Parini e dello stesso Alfieri (Satire, IX), ricordiamo «n'opera del tempo, il Discours sur futi lite des voyages di Joseph Oros j DP. BespLAS, pubblicata nel 1763. XVI Prefazione seau serba un ricordo incancellabile del viaggio a piedi fatto da giovane da Annecy a Torino, a traverso la Sa- voia*, l'Alfieri rivolgendosi alla d'Albany rievoca 'le or- ride selve atre d'abeti ' Ch'irto fan dell'aspre Alpi il fero dorso già da lui valicato anni addietro ^ Nel 1752 Gian Giacomo dopo il successo riportato a corte dal suo Deviti du Village, alla vigilia di essere pre- sentato a Luigi XV il quale voleva annunciargli perso- nalmente il conferimento di una pensione, passò una notte di tormenti, e l'indomani preferì rinunciare all'assegno pur di conservare la propria indipendenza e il proprio disinteresse, sacrificando, così si esprima, l'apparenza alla realtà; egli non si presentò^ 11 poeta subalpino che nel 1769 a Vienna rifiutò di stringere amicizia o famigliarità « con una musa appigionata o venduta all'autorità despo- tica da lui si caldamente abborrita », il Metastasio cioè, al quale aveva visto fare nei giardini imperiali di Schoen- brunn, « con una faccia sì servilmente lieta e adulatoria la genuflessioncella di uso* » all'imperatrice Maria Teresa, in quello stesso anno volle essere presentato a Federico II di Prussia — Quel Federigo, ch'or ci tocca udire Denominar col titolo di Grande % alla vista del sovrano non provò « alcun moto né di mera- viglia né di rispetto, ma d'indegnazione bensì e di rabbia », son sue parole*. Tali confronti ai quali molti altri se ne potrebbero ag- giungere, lungi dal provare una qualsiasi dipendenza > Conf., I, II. * Op., Ili, p. 148, € Per queste orride selve atre d'abeti >. » Conf., II, vili. « Vita, III, 8. » Satire, * I viaggi >, II. • Vita, III, 8. prefazione xvii della Vita dalle Confessioni, dinotano tuttavia una note- vole affinità spirituale tra l'astigiano ed il ginevrino. Questi ha dipinto sé stesso in una pagina notevole quando narra del progetto di ritirarsi nell' isola di Saint- Pierre, sul lago di Bienne, e del cui soggiorno discorre a lungo nelle Réveries da Promcneur solitaire: « l'ozio dei circoli, così egli si esprime', è micidiale, perchè è di necessità, quello della solitudine è incantevole, perchè libero e di elezione. In società per me è doloroso il non far nulla, essendovi costretto. Debbo rimaner lì inchiodato su una seggiola o in piedi, come impalato, ridotto all'im- mobilità quasi assoluta, senza osare né di correre, né di saltare, né di cantare né di gridare né di gesticolare quando me ne vien voglia, senza osare neppure di so- gnare; oppresso ad un tempo dalla noia dell'ozio e dal tormento della costrizione, debbo star attento a tutte le corbellerie che si dicono, a tutti i complimenti che si fanno e senza tregua stancar la mia Minerva per non mancar di far posto, alla mia volta, al mio rebus ed alla mia menzogna. » L'Alfieri ha qualche cosa di questo Gian Giacomo; non pare di vederlo a disagio fra tutta la gente che s'aggira attorno alla Stolberg, nel palazzo della rue de Bourgogne, a Parigi, nel 1785, in mezzo al chiacchierio assordante di una folla cosmopolita, ove il suo amor proprio si sente mortificato^? Che se invece a Siena egli SI trovò felice, in una minuscola brigata di amici, si è perchè ne era l'anima, perchè vi primeggiava. Da questi rapidi paralleli tra l'Alfieri ^ il Byron e Rousseau nulla è ancor balzato fuori di uno dei lati, ap- parenti almeno, per cui oggi maggiormente sembra so- » Con/., II, XII. * Vernon Lee, The eoantess of Albany, London, 1884, pp. 159-161 ; Bf-RTAna, op. eit., p. 223 e seg. xviii Prefazione pravvivere la figura dell'Alfieri uomo; la volontà cioè, della quale egli è divenuto come un simbolo, una perso- nificazione quasi, un esempio della volontà dantesca, la quale ...fa come natura face in fuoco, se mille volte violenza il torza. La critica più recente ha fatto giustizia di questo luogo comune, raccolto e diffuso dal Gioberti, da Domenico Berti, e perfino dal Tommaseo, assai poco tenero dell'Al- fieri: è merito della scuola lumbrosiana, dell'Antonini e del Cognetti De Martiis' avere non dirò dimostrato il contrario, ma infirmato tale leggenda. Del resto il lettore spregiudicato rifletta sugli episodii della Vita relativi agli amori del poeta colla marchesa Gabriella Falletti di Villa- falletto moglie di Giovanni Turinetti marchese di Priero^, con Penelope Pitt, moglie di lord Edoardo Ligonier^ ai moti violenti col servo Elia*, per non parlare di tante altre intemperanze di carattere dell'Alfieri che dalla auto- biografia non risultano, e potrà col Biagi concludere che il voglio alfieriano più antipatico che simpatico nella sua ostentata affermazione, fu « maschera, non freno al ca- rattere^ »; egli, in ogni cosa, scrisse un contemporaneo, « fin da ragazzo volle, e costantemente ed efficacemente volle ne' suoi modi ne' portamenti nelle foggie, nello staVe e nello andare, nel parlare e nel tacere, finalmente anche in ogni cosa, far colpo e sceneggiare®. » » O. Antonini e L. Coonetti de Martiis, Vittorio Alfieri, stadio psico- patologico, Torino, Bocca, 1898. » Vita, III, 13 e 14. « Vita, III, 10; cfr. anche IV, 21. * Vita, III, 12. * Buoi, Alfieriana, in e Aneddoti letterari >, Milano, 1887, p. 17. * Ottavio Falletti di Barolo, Quattro lettere indirizzate al Sìg. Pro- spero Balbo, rettore dell' Accad. di Torino, intorno ad alcune opere postume di V. Alfieri ultimamente stampate, Torino, 1809, p. 13. Prefazione xix Queste poche cose varranno a far meglio giudicare a traverso il libro la pianta uomo, secondo una espressione alfieriana raccolta dal Byron in una lettera a John Hob- house*. Incominciata nell'aprile del 1790 la Vita venne rapida- mente condotta fino a quel tempo; movente, mal celato dal pretesto di voler evitare che uno scrittore mercenario non lo coprisse immeritamente, dopo morte, delle più smaccate lodi, fu in sostanza l'ambizione di fama, di gloria, il desiderio di parlar di sè^; cosicché se nella Vita non v'è episodio che possa dirsi inventato, non c'è forse nep- pure una pagina che rispecchi il candore di S. Agostino, e nella quale non si possa scorgere il lavoro dell'imma- ginazione: l'Alfieri, personaggio straordinario, è l'eroe del libro, eroe seminudo, dice egli stesso, degno di studio per le sue affinità psichiche coi personaggi delle tragedie, e specialmente col SauP. Ligio a vecchie teoriche stilistiche, l'Alfieri doveva cer- care un modello per la sua autobiografia, e questo nella nostra letteratura non poteva essere che la Vita di Ben- venuto Cellini; non poteva essere diciamo, perchè man- cavano altri esempi: il De Vita propria di Gerolamo Car- dano oltre all'esser scritta in latino, ormeggiava troppo i Pensieri di Marco Aurelio, il Soliloquio del Paruta, pub- blicato la prima volta nel 1559 era opera di un giovinetto non ancor ventenne, le Memorie inutili scritte e pubbli- cate per umiltà da Carlo Gozzi non videro la luce che nel 1797 e V Autobiografia di Pietro Giannone fu stam- pata postuma alla fine del secolo scorso; l'Alfieri poteva » In data di Venezia, 2 gennaio 1818, Works, Poetry, II, 324. * Vita, « Introduzione >. » Cfr, CooNETTi DK Martiis, La pazzia di Saul nella tragedia alfif riana, in « Rivista moderna >, 1891, I, 61. XX Prefazione solo conoscere la Storia della fuga dalle prigioni di Ve- nezia chiamate i Piombi di Giacomo Casanova (1787) e le Memorie di Carlo Goldoni (1788), tra i cui sottoscrittori non figura, entrambi però scritte in francese. Fatto sta ed è che fin dall'estate del 1789 egli si faceva leggere dal suo giovine segretario toscano Gaetano Polidori, la prosa del Cellini; tal lettura, di cui questi era tediato, riusciva » attraente al poeta desideroso di ' spiemontizzarsi ' anche nella lingua, e più ancora forse, perchè egli volgeva in animo di stendere la propria autobiografia. Afferma il Bertana* che l'Alfieri avendo incominciato a scrivere la sua vita nell'aprile nel 1790 la condusse ra- pidamente a termine in due mesi, « mentre proprio allora uscivano a luce le Confessioni di Q. G. Rousseau ». Ve- ramente la prima parte dell'opera del Ginevrino, sei libri i quali giungono al 1741 erano stati pubblicati fin dal 17812; gli ultimi sei, la parte cioè che giunge al 1765 vide la luce, sebbene con numerosi tagli, nel 17883; popera fu poi pubblicata nella sua integrità solo nel 1795. Da ciò risulta che il 1790 non ha nulla a che vedere, ed è invece degno di nota che apparsa la seconda parte delle Con- fessioni nel 1788, l'anno dopo l'Alfieri leggesse o rileg- gesse la Vita del Cellini: per noi è quasi evidente che la lettura delle memorie del ginevrino determinò l'asti- giano a scrivere la propria vita. La Vita dell'Alfieri risente della ' triviale e spontanea naturalezza ' dell'artista fiorentino e se lo stile non è forse, come vuole il Bcrtana, perfetto, si deve pur riconoscere che è schiettamente personale, sebbene abbia molto di comune col modello; alle stravaganze che riempiono la vita del Cellini fan riscontro quelle della Vita dell'Alfieri, » Op. clt., p. 1. « Ginevra, 2 voli. in-8\ ^ , ■ , a Ginevra, Moultou fils, 2 voli. in-S-. Nel 1790 le Confessioni vennero pure pubblicate a Neuchàfel, dal Dii Peyroii, assieme alla Corrispondenza (}i RoussuAi), in 5 voli, in-S", Prefazione xxi a motivo, come per Rousseau e pel Byron di affinità di carattere; l'avventura presso l'oste di Chioggia in com- pagnia del Tribolo, lo sfratto all' inquilino del castello do- natogli dal re di Francia, il calcio al garzone mentre la- vorava al Giove, sono documenti della natura violenta di Benvenuto, il quale non ostante abbia pianto, pare, in tutta la vita « due volte e mezzo >, diceva sul serio di essere per natura malinconico! Eppure non mentiva: anch' egli come l'Alfieri crede ciò che pensa e questo scrive senza medi- tarvi su più che tanto; anch' egli stende la sua vita per amor di se, poiché tutti gli uomini che hanno fatto qualche cosa che sia virtuosa ... doverieno ... di lor propria mano descrivere la loro vita * / Scritta a sfogo del cuore ^ e lasciando fare la penna', la Vita dell'Alfieri è indubbiamente la miglior sua prosa; se non che mentre ogni parola nel modello scolpisce un'idea, fa rivivere un personaggio, nonostante la sintassi a volte smarrita, malgrado certe contraddizioni e interru- zioni, e dà nel complesso l'idea di un libro scritto come vien viene, in un toscano naturalissimo, dettato alla buona al ragazzetto di bottega, il libro del piemontese invece appare in tutto studiato; i personaggi scompaiono di fronte a lui; che vi apprendiamo in fondo del Paciaudi, di José d'Acunha, di Oori Gandellini e delle tante virtù della contessa d'Albany? Tutti si perdono in uno sfondo gri- giastro, e nulla vale a far distinguere Torino da Napoli, Parigi, Londra e le altre grandi metropoli. Nel libro del- l'orafo fiorentino invece, Francesco I e Madama di Tampes, Clemente VII, il Tribolo, il Vasari, il Bandinelli o il me- dico Jacopo Berengario da Carpi sono altrettante figure se non vere, viventi, caratterizzate ognuna da una parola <^ da una scenetta che vale a fissarla nella mente del tet- re, sotto una luce particolare; non solo, ma manca pure « vita, I, 1, » Vita, IV, 19. f Vita, t Introduzione >, XXII Prefazione del tutto all'Alfieri una descrizione quale quella del tem- porale che, presso Lione, colse il Cellini di ritorno in patria*. Afferma lo Scherillo^ che il nostro ebbe vivo il sentimento degli spettacoli naturali, dalle albe infocate, ai malinconici tramonti; il lettore però ben poco troverà nella Vita che ricordi le descrizioni di Rousseau, iride- scenti di mille tinte della natura, o quelle indimenticabili che ricorrono nell'opera di Bio-on, dalle acque del Po alla Pineta di Ravenna o alla dantesca rievocazione dell'ora del tramonto, che sembra ancor risuonare nei versi del Carducci^ Ave Maria! Quando su l'aure corre l'umil saluto, i piccoli mortali scovrono il capo, curvano la fronte Dante ed Aroldo. Se non che mentre possiamo leggere le autobiografie del Cellini, del Goldoni, del Duprè o di Massimo d'Azeglio a scopo di mero diletto, quella dell'Alfieri va letta ed anche meditata, perchè a giudizio del Foscolo*, sebbene le idee non vi si trovino in abbondanza, « pure quelle che si presentano sono svolte con chiarezza e precisione, succedendosi l'una all'altra secondo i precetti della buona logica » ; se da una parte l'elocuzione non sempre pura, le espressioni errate, le improprietà, le sgrammaticature, gli aggettivi ridondanti, la sincope dei verbi piìi che la imperfetta preparazione letteraria del piemontese, come taluno vorrebbe', ricordano il fraseggiare dell'orafo to- scano, lo stile severo, preciso, ricco di arcaismi e denso > Vita, II, 50. * LOC. Cit., p. XLIV. » Rime e Ritmi, « La Chiesa di Polenta ». * Dtlla letteratura italiana. ' F, Visconti, L'Alfieri autobiografo, Avellino, 1903, p. 65 e segg. Prefazione xxiii di contenuto morale, per l'ideale classico repubblicano facente capo al trinomio Roma Atene e Sparta, nelle quali si concretano l'amore della patria e della virtù ed il rispetto alle leggi, derivano dalle opere deli' immortale Machia- velli', ' sublime e libero autore^', alle quali sembrano aver aggiunto vivezza e maggior lucidità gli scritti di Rousseau, la prosa di Montesquieu, di Elvezio e dello stesso Voltaire ^ contro il quale l'Alfieri nutrì una costante antipatia, pur somigliandogli in molte cose, specialmente nell'orgoglio ed in politica nell'odio per la democrazia. La Vita dell'Alfieri fu pubblicata la prima volta dopo la morte del poeta a Firenze nel 1804, colla falsa data di Londra, e a dimostrare i suoi pregi stanno le numerose edizioni fatte fino ad oggi, oltre la trentina in Italia, senza contare una diecina di traduzioni di cui cinque francesi, una inglese, una tedesca, una danese, ecc. Tra le edizioni recenti la prima notevole è quella del Teza*, riproducente l'autografo esistente nella Biblioteca Laurenziana; a questo, seguito pure dal Bertana, ci atteniamo nella presente ri- stampa: le poche note da noi aggiunte vorremmo vales- sero a far meglio conoscere l'uomo', che, rassomigliato al Byron nella vita avventurosa e nell^ ardenti passioni, riformò moralmente e letterariamente la Patria, ed infe- riore al Goethe come poeta, come uomo supera mille volte il ciambellano di Weimar, la cui calma per nulla si commosse all'invasione francese; l'uomo infine, che > Vita, ni, 6. « Vita, IV, 6. » Vita, in, 7. « Vita Oiornali Lettere di V. Ai.rieiti per cura di E.Tw», Firenze, 1861. ' Ecco dò che nelle Ultime volontà cit., l'Aineri scrìveva della Vita, non ancor terminata: t Scritta sino a tutto l'anno 1789 opera prolissa, e piena forse di molte inezie, ma pure non del tutto inutile per quel che rìsguarda l'arte mia particolarmente e il cuore dell'uomo in generale ». XXIV Prefazione non senza ragione il Macaulay paragonò a Guglielmo Cowper, per aver entrambi rialzata la patria caduta in sventura, con una musa nobile e degna dei tempi, per aver entrambi, Mosè novelli, infranto le porte della schia- vitù, senza poter porre piede nella terra promessa. Dell'opera di Vittorio Alfieri, forse anche a motivo del tramonto irremediabile deJl'arte di Gustavo Modena e di Adelaide Ristori, poco oggi rimane: pochissimi leggono le tragedie, le rime e le prose politiche, e piìi quasi non si contendono il campo due giudizi disparati, quello del Gioberti pel quale l'Alfieri volle « essere poeta e il fu », e quello antitetico del De Sanctis, « l'Alfieri volle essere poeta e noi fu ». Oggi si esalta ancora l'apostolo d^la jibertà, il rigeneratore della coscienza nazionale ed il fer- uvente patriotta, nonostante che nel settembre del 1792 egli, in età di solo quarantadue anni, se ne stesse comoda- mente a Firenze sfoggiando magari quella vistosa uni- forme militare azzurra e rossa dell'esercito sardo, di cui troppo forse si compiacque', e di cui avrebbe potuto far miglior mostra su l'Alpi, contro lo straniero invasore della Savoia, quando nella terra sabauda risuonava ancora la canzone dialettale, alla quale non manca la nota guer- riera, per la morte del barone di Leutrum, canto forma- tosi verso il 1755, e che, scrisse il Nigra^ onora il Pie- monte; delle opere dell'astigiano si legge ancora oggi l'autobiografia, con diletto anche, perchè vi sj può tro- vare l'uomo, non quale egli stesso in buona fede si cre- deva di essere, ma quale ei fu. Del resto questa prosa alferiana che non fa parte di quei libri dal Carducci giu- dicati codice letterario, la cui pubblicazione coincide colla 1 Vita, IV, 6. • Canti popolari del Piemonte, Torino, Loescher, 1888, p. 524 e seg^. Prefazione xxv partenza dì Lafayette per l'America, a combattervi quei privilegi e quei diritti all'ombra dei quali egli era cre- sciuto, è notevole pel sentimento di energia patria proprio dell'Alighieri, di cui l'astigiano fu fervente ammiratore, facendone rivivere, nella sua pienezza, il valore dell' io umano superiore ad invidie e bassure; e perchè egli, anche in queste pagine, rinnovellando le aspirazioni del Segretario Fiorentino, vagheggiò l'ideale di una patria pagana: se ciò spaventò il Gioberti pel quale « non bi- sogna seguir l'Alfieri senza il Manzoni, né il Manzoni senza l'Alfieri », noi siamo invece convinti che lo spirito del poeta piemontese, aleggiando sui destini della Patria, non per" vane declamazioni, ma penetrando nelle coscienze, possa ancor valere a far sparire le ' non giustizie tante * e le tante imposture contro le quali egli già rivolse la sua concisa e mordente parola. Luigi Neori. BIBLIOGRAFIA Basti qui ricordare i più notevoli scritti sull'Alfieri, rinviando •hi volesse maggiori informazioni alla Bibliografia di V. A. di O. BusTico, 2* ediz., Salò, 1908 (Supplemento, Domodossola, 1911), che potrà essere completata con qualcuna delle seguenti indicazioni: Bertana e., Vittorio Al/ieri, Torino, Loescher, 1902. Berti D., La volontà e il sentimento religioso nella vita e nelle opere di V. A., in Nuova Antologia, 1872, voi. XX. BusETTO N., La vita e le opere di V. A., Livorno, 1914. BusTico G., La fortuna di V. A., in Rivista ligure, XLiii, L Carducci G., Di alcune opere minori di V. A., in Satire e poesie minori di V. A., Firenze, Barbera e Bianchi, 1858; Del Prin- cipe e delle Lettere e altre prose di V. A., Firenze, 1859 (ripub- blicate prima in Bozzetti critici e discorsi letterari, Livorno, * Vigo, 1876, indi in Studi, saggi e discorsi). Del Lungo L, A. poeta e cittadino, in Patria italiana, 1, Bo- logna, 1912. Calassi NI A., Le Vite delFA. e del Cellini, in Rassegna Nazio- nale, 1880, IL Mazzatinti G., Le carte alfieriane di Montpellier, in Giornale storico della letteratura italiana. III, p. 27 e segg., p. 337 e segg.; IV, p. 129 e segg. Messeri, La Rivoluzione francese e V. A., Pistoia, 1893. Reumont a.. Die Qràfin von Albany, Berlin, 1860. Scandura S., // pensiero politico di V. A. e U sue fonti, Ca- Unia, 1919. Visconti F., L'A. autobiografo, Avellino, 1903. Zoncada, Alfieri e Rousseau (Conferenza), Pavia, 1885. Le note coatraddistìnte con \B.\ tono di Emilio Bertana. V/TA DI VITTORIO ALFIERI PARTE PRIMA 1. - CUusM ItaUant. N. X INTRODUZIONE Plerìque suam ipsi vitatn narrare, fìduciam potìus morum, quam arrogantiatn, arbi- trati tunt. TxaTO, Vita di Agricola. 11 parlare, e molto più lo scrivere di se stesso, nasce senza dubbio dal molto amor di se stesso. Io dunque non voglio a questa mia Vita far precedere né deboli scuse, né false o illusorie ragioni, le quali non mi verrebbero a ogni modo punto credute da altri; e della mia futura veracità in questo mio scritto assai mal saggio darebbero. Io perciò ingenuamente confesso, che allo stendere la mia propria vita inducevami, misto forse ad alcune altre ragioni, ma vie più gagliardo d'ogni altra, l'amore di me medesimo : quel dono cioè, che la natura in maggiore o minor dose concede agli uomini tutti, ed in soverchia dose agli scrittori, prin- cipalissimamente poi ai poeti, od a quelli che tali si tengono. Ed è questo dono una preziosissima cosa ; poiché da esso ogni alto operare dell'uomo proviene, allor quando all'amor di se stesso congiunge una ragionata cognizione dei proprj suol mezzi, ed un illuminato trasporto pel vero ed il bello, che non son se non uno. Senza proemizzare dunque più a lungo sui generali, io passo ad assegnare le ragioni per cui questo mio amor di me stesso mi trasse a ciò fare : e accennerò quindi il modo con cui mi pro- pongo di eseguir questo assunto. Avendo io oramai scritto molto, e troppo più forse che non avrei dovuto, è cosa assai naturale che alcuni di quei pochi a chi non saranno dispiaciute le mie opere (se non tra' miei con- 4 Vittorio Alfieri | temporanei, tra quelli almeno che vivran dopo)^ avranno qualche { uTosità di sapere qual io mi fossi. Io ben posso cìo cr d r. senza neppur troppo lusingarmi, poiché di ogni f'^^^^'^ , anche minimo quanto al valore, ma voluminoso ^-nto f 11 °P^^ . si vede ogni giorno e scrivere e leggere, o vendere ahnen^a . vita. Onde, quand'anche nessun'altra ragione vi fosse, e certo pu sempre che, morto io. un qualche librajo per -va- f "" ] più soldi da una nuova edizione delle mie opere, e farà pre- mettere una qualunque mia vita. E quella, verrà verisimilmente Sa da uno che non mi aveva o niente « mal conosciu^. Thè avrà radunato le materie di essa da font, o d^bbJ <> P - ziali; onde codesta vita per certo verrà ad essere, se non altro alquanto meno verace di quella che posso dare io stesso. E ciò tlpm. perchè lo scrittore a soldo dell'editore suol sempre a^ uno'st'olto panegirico dell'autore che si "stamP^' ^timando amenduedi dare così più ampio smercio alla loro comune mer Tuzia Affinchè questa mia vita venga dunque tenuta per meno carnvaellquanto più vera, e non meno imparziale di qualunque a rverrebbe scritU da altri dopo di me; io. che assai più largo mantenitore che non promettitore fui sempre, mi impegno qm Ton me stesso, e con chi vorrà leggermi, di disappassionarm per quanTo U'uo^osia dato; e mi vi impegno, perchè esaminatom e conosciutomi bene, ho ritrovato, o mi pare, essere in me di Jalcun poco maggiore la somma del bene a quella del rnale. ^Snde.'e io non'avr5 forse il coraggio o l'in^isc^-^^^^^^^^^^ di me tutto il vero, non avrò certamente la viltà di dir cosa che "ouanTo polli metodo, affine di tediar meno il lettore, e dargli qualche riposo e anche i mezzi di abbreviarsela -1 tralascerà quegli anni di essa che gli parranno meno <=""-' j/^J^.P^^^ Jongo di ripartirla in cinque Epoche, corrispondenti alle cinque età dell' uomo, e da esse intitolarne le divisioni. Puerizia, Adole- jtX O^vl^ezza. Virilità, e Ve^.- Ma già, dal modocon T^iTT^netto . Tempo verrà, tornerà U giorno, in cui .. posto pe. conclusione al Misogallo. alla < Virilità >. La vita 5 cui le tre prime parti e più che mezza la quarta mi son venute scritte, non mi lusingo più ormai di venire a capo di tutta l'opera con quella brevità, che più di ogni altra cosa ho sempre nelle mie opere adottata o tentata; e che tanto più lodevole e neces- saria forse sarebbe stata nell'atto di parlar di me stesso. Onde tanto più temo che nella quinta parte (ove pure il mio destino mi voglia lasciar invecchiare) io non abbia di soverchio a cader nelle chiacchiere, che sono l'ultimo patrimonio di quella debole età. Se dunque, pagando io in ciò, come tutti, il suo diritto a natura, venissi nel fine a dilungarmi indiscretamente, prego anti- cipatamente il lettore di perdonarmelo, sì; ma, di gastigarmene a un tempo stesso, col non leggere quell'ultima parte. Aggiungerò nondimeno, che nel dire io che non mi lusingo di essere breve anche nelle quattro prime parti, quanto il dovrei e vorrei, non intendo perciò di permettermi delle risibili lungag- gini accennando ogni minuzia; ma intendo di estendermi su molte di quelle particolarità, che, sapute, contribuir potranno allo studio dell'uomo in genere; della qual pianta non possiamo mai individuare ' meglio i segreti che osservando ciascuno se stesso. Non ho intenzione di dar luogo a nessuna di quelle altre par- ticolarità che potranno risguardare altre persone, le di cui peri- pezie si ritrovassero per così dire intarsiate con le mie: stante che i fatti miei bensì, ma non già gli altrui, mi propongo di scrivere. Non nominerò dunque quasi mai nessuno, individuan- done* il nome, se non nelle cose indifferenti o lodevoli. Allo studio dunque dell* uomo in genere è principalmente diretto Io scopo di questa opera. E di qual uomo si può egli meglio e più dottamente parlare, che di se stesso? quale altro ci vien egli venato fatto di maggiormente studiare? di più addentro cono- scere? di più esattamente pesare? essendo, per cosi dire, nelle più intime di lui viscere vissuto tanti anni? Quanto poi allo stile, io penso di lasciar fare alla penna, e di pochissimo lasciarlo scostarsi da quella triviale e spontanea natu- ralezza, con cui ho scritto quest'opera, dettata dal cuore e non ''-•!I' ingegno; e che sola può convenire « così umile tema. Spedfictre. Cfr. nota prec. EPOCA PRIMA PUERIZIA ABBRACCIA NOVE ANNI DI VEGETAZIONE CAPITOLO PRIMO Nascita, e parenti. Nella città d'Asti' in Piemonte, il dì 17 gennaio dell'anno 174Q*, io nacqui di nobili', agiati, ed onesti parenti. E queste tre loro qualità ho espressamente individuate, e a gran ventura mia le ascrivo per le seguenti ragioni. Il nascere della classe dei nobili, mi giovò appunto moltissimo per poter poi, senza la taccia d'in- vidioso e di vile, dispregiare la nobiltà per se sola, svelarne le ridicolezze, gli abusi, ed i vizj ; ma nel tempo stesso mi giovò non poco la utile e sana influenza di essa, per non contaminare poi mai in nulla la nobiltà dell'arte che io professava*. Il nascere agiato mi fece e libero e puro; ni mi lasciò servire ad altri che al vero. L'onestà poi de' parenti fece si, che non ho dovuto mai > Cfr. il sonetto < Asti, antiqua dttà, che a me pà desti La culla, t non darai (pare) la tomba >, ecc., con cui legava alla città diletta, i suoi libri « in fìlial tributo >. * Egli veramente nacque il giorno 16, il 17 fu battezzato. [B.]. * Sul casato degli Alfieri cfr.: E. Masi, Asti t gli Alfieri, Firenze, '001. E. Casanova, Tavole genealogiche della famiglia Alfieri, Torino, 1903. * Li letteratura. 8 Vittorio Alfieri arrossire dell'esser io nobile. Onde, qualunque di queste tre cose fosse mancata ai miei natali, ne sarebbe di necessità venuto assai minoramento alle diverse mie opere; e sarei quindi stato per avventura o peggior filosofo, o peggior uomo, di quello che forse non sarò stato. Il mio padre chiamavasì Antonio Alfieri'; la madre, Monica Maillard di Tournon. Era questa di origine savojarda, come i barbari di lei cognomi dimostrano : ma i suoi erano già da gran tempo stabiliti in Torino. Il mio padre era un uomo purissimo di costumi, vissuto sempre senza impiego nessuno, e non conta- minato da alcuna ambizione ; secondo che ho inteso dir sempre da chi l'aveva conosciuto. Provveduto di beni di fortuna suffi- cienti al suo grado, e di una giusta moderazione nei desideri, egli visse bastantemente felice. In età di oltre cinquantacinque anni invaghitosi di mia madre, la quale, benché giovanissima, era allora già vedova del marchese di Cacherano, gentiluomo astigiano, la sposò. Una figlia femmina" che avea di quasi due anni preceduto il mio nascimento, avea più che mai invogliato e insperanzito il mio buon genitore di aver prole maschia: onde fu oltre modo festeggiato il mio arrivo. Non so se egli si ralle- grasse di questo come padre attempato, o come cavaliere assai tenero del nome suo e della perpetuità di sua stirpe: crederei che di questi due affetti si componesse in parte eguale la di lui gioja. Fatto si è, che datomi ad allattare in un borghetto distante circa due miglia da Asti, chiamato Rovigliasco, egli quasi ogni giorno ci veniva a piedi a vedermivi, essendo uomo alla buona e di semplicissime maniere. Ma ritrovandosi già oltre l'anno ses sagesimo di sua età, ancorché fosse vegeto e robusto, tuttavia quello strapazzo continuo, non badando egli né a rigor di sta- gione né ad altro, fé sì che riscaldandosi un giorno oltre modo in quella sua periodica visita che mi faceva, si prese una puntura di cui in pochi giorni morì. Io non compiva allora per anco il primo anno della mia vita. Rimase mia madre incinta di un altro figlio maschio, il quale morì poi nella sua prima età. Le resta- vano dunque un maschio e una femmina di mio padre, e due femmine' ed un maschio del di lei primo marito, marchese di > Dei conti di Cortemilia. « La sorella Giulia, di cui v. oltre. » Eleonora, poi^ marchesa di Cavoretto, e Oins^ppina, poi contessa di Levaldiggi. La vita 9 Cacherano. Ma ess^ benché vedova due volte, trovandosi pure assai giovine ancora, passò alle terze nozze col cavaliere Gia- cinto Alfieri di Magliano, cadetto ' di una casa dello stesso nome della mia, ma di altro ramo. Questo cavalier Giacinto, per la morte poi del di lui primogenito che non lasciò figli, divenne col tempo erede di tutto il suo, e si ritrovò agiatissimo. La mia ottima madre trovò una perfetta felicità con questo cavalier Gia- cinto, che era di età all' incirca alla sua, di bellissimo aspetto, di signorili ed illibati costumi: onde ella visse in una beatissima ed esemplare unione con lui; e ancora dura, mentre io sto scrivendo questa mia vita in età di anni quarantuno. Onde da più di 37 anni vivono questi due coniugi vivo esempio d'ogni virtù domestica, amati, rispettati, e ammirati da tutti i loro concittadini ; e massimamente mia madre, per la sua ardentissima eroica pietà con cui si è assolutamente consacrata al sollievo e servizio dei poveri. Ella ha successivamente in questo decorso di tempo perduti e il primo maschio del primo marito e la seconda femmina; così pure i due soli maschi del terzo, onde nella sua ultima età io solo di maschi le rimango; e per le fatali mie circostanze non posso star presso di lei; cosa di cui mi rammarico spessissimo* ; ma assai più mi dorrebbe, ed a nessun conto ne vorrei stare continuamente lontano, se non fossi ben certo ch'ella e nel suo forte e sublime carattere, e nella sua vera pietà ha ritrovato un amplissimo compenso a questa sua privazione dei figli. Mi si perdoni questa forse inutile digressione, in favor d'una madre stimabilissima. CAPITOLO SECONDO Reminiscenze dell' infanzia. Ripigliando dunque a parlare della mia primissima età, dico che di quella stupida vegetazione infantile non mi è rimasta altra ^memoria se non quella d'uno zio paterno, il quale avendo io tre in quattr'anni, mi faceva por ritto su un antico cassettone, e quivi molto accarezzandomi mi dava degli ottimi confetti. Io non mi ricordava più quasi punto di lui, né altro me n'era rimasto » Figlio non primogenito, il qnale però non succede nel titolo comitale, td è semplicemente cavaliere: ciò per l'allora vigente majoraseato, ab»> lito dalla Rivoluzione francese. » Cfr. Vita, I, v; IV, xiii. 10 Vittorio Alfieri fuorch'egli portava certi scarponi riquadrati in punta. Molti anni dopo, la prima volta che mi vennero agli occhi certi stivali a tromba, che portano pure la scarpa quadrata a quel modo stesso dello zio morto già da gran tempo, né mai più veduto da me da che io aveva uso di ragione, la subitanea vista di quella forma di scarpe del tutto oramai disusata, mi richiamava ad un tratto tutte quelle sensazioni primitive ch'io aveva provato già nel ricevere le carezze e i confetti dello zio, di cui i moti ed i modi, ed il sapore perfino dei confetti mi si riaffacciavano vivissima- mente ed in un subito nella fantasia. Mi sono lasciata uscir di penna questa puerilità, come non inutile affatto a chi specula sul meccanismo delle nostre idee, e sull'affinità dei pensieri colle sensazioni*. Nell'età di cinque anni in circa, dal mal de' pondi" fui ridotto in fine ; e mi pare di aver nella mente tuttavia un certo barlume de' jpi^i-EalioifiDti ; e che senza aver idea nessuna di quello che Jossg JajnortCj ^urg la desiderava comeline fi' dolore ; perchè quando era morto quel mìo fratello minore, avea sentito dire ch'egli era diventato un angioletto. Per quanti sforzi io abtia fatti spessissimo per raccogliere le idee primitive, o sia le sensazioni ricevute prima de' sei anni, non ho potuto mai raccapezzarne altre che queste due. La mia sorella Giulia, ed io, seguitando il destino della madre, eramo passati dalla casa paterna ad abitare con lei nella casa del pa- trigno, il quale pure ci fu più che padre per quel tempo che ci stemmo. La figlia ed il figlio del primo letto rimasti, furono suc- cessivamente inviati a Torino, X'uno nel Collegio dei Gesuiti, l'altra nel monastero'; e poco dopo fu anche messa in monastero, ma in Asti stessa, la mia sorella Giulia, essendo io vicino ai sett'anni. E di quest'avvenimento domestico mi ricordo benis- simo, come del primo punto in cui le facoltà mie sensitjve die- ' dero cenno di se. Mi sono presentissimi i dolori e le lagrime eh' io versai in quella separazione di tetto solamente, "cBe pure a principio non impediva ch'io la visitassi ogni giorno. E spe- culando poi dopo su quegli effetti e sintomi del cuore provati allora, trovo essere stati per l'appunto quegli stessi che poi in > Secondo 11 sensismo di Condillac, scifulto dall'A. • Dissenteria. » Per l'istruzione. La vita 11 appresso provai quando nel bollor degli anni giovenili mi trovai costretto a dividermi da una qualche amata mia donna ; ed anche ne! separarmi da un qualche vero amico, che tre o quattro suc- cessivamente ne ho pure avuti finora: fortuna che non sarà toc- cata a tantL altri, che gli avranno forse meritati più di me. Dalla reminiscenza di quel mio primn Hnlnrp jy;] mnrp, ne ho poi dedottaJa_p.rova, che tutti gli amori dell'uomo, ancorchè_diversi, hanno lo stesso motore. Rimasto dunque io solo di tutti i figli nella casa materna, fui dato in custodia ad un buon prete, chiamato don Ivaldi, il quale m'insegnò cominciando dal compitare e scrivere, fino alla classe quarta, in cui io spiegava non male, per quanto diceva il maestro, alcune vite di Cornelio Nipote, e le solite favole di Fedro. Ma il buon prete era egli stesso ignorajituccio. a quel che io combinai' '*» poi dopo; e se dopo i nov'anni mi avessero lasciato alle sue mani, verisimilmente non avrei imparato più nulla. I parenti erano anch'essi ignorantissimi, e spesso udiva loro ripetere quella usuale massima dei nostri nobili di allora; che ad un signore non era necessario di diventar un dottore. Io nondimeno aveva per natura una certa inclinazione allo studio; e specialmente dopo che uscì di casa la sorella, quel ritrovarmi in solitudine col maestro mi dava ad un tempo malinconia e raccoglimento. CAPITOLO TERZO Primi sintomi di nn carattere appassionato. Ma qui mi occorre di notare un'altra particolarità assai strana, quanto allo sviluppo delle mie facoltà amatorie. La privazione della sorella mi aveva lasciato addolorato per lungo tempo, e molto più serio in appresso. Le mie visite a quella amata sorella erano sempre andate diradando, perchè essendo sotto il maestro, e dovendo attendere allo studio, mi si concedeano solamente nei giorni di vacanza o di festa, e non sempre. Una tal quale con- solazione di quella mia solitudine mi si era andata facendo sen- tire a poco a poco nell'assuefarmi ad andare ogni giorno alla chiesa del Carmine attigua alla nostra casa; e di sentirvi spesso della musica, e di vedervi uffiziare quei frati, e far tutte le cere- > Compresi ; cfr. la ut. VI dell'A., L'Edaeaxìone. !/'• 12 Vittorio Alfieri monie della messa cantata, processione, e simili. In capo a più mesi non pensavo più tanto alla sorella, ed in capo a più altri, non ci pensavo quasi più niente, e non desiderava altro che di essere condotto mattina e giorno al Carmine. Ed eccone la ragione. Dal viso di mia sorella in poi, la quale aveva circa nov'anni quando uscì di casa, io non aveva più veduto usual- mente altro viso di ragazza né di giovine, fuorché certi fraticelli novizi del Carmine, che potevano avere tra i quattordici e se- dici anni all' incirca, i quali coi loro roccetti^ assistevano alle di- verse funzioni di chiesa. Questi loro visi giovenili, e non dissi- mili da' visi donneschi, aveano lasciato nel mio tenera, ed ine- sperto cuore a un di presso quella stessa traccia e quel medesimo dwiderio di loro, che mi vi aveva già impresso il viso-delia sorella. E questo insomma, sotto tanti e sì diversi aspetti, era atiiore ; come poi pienamente conobbi e me ne accertai parecchi anni dopo, riflettendovi su; perchè di quanto io allora sentissi o facessi nulla affatto sapeva, ed" pWjediva al puro istinto ani- nnale: Ma questo mio innocente amore péPqùe'^ novizj, giunse tant'oltre, che io sempre pensava ad essi ed alle loro diverse funzioni ; ora mi si rappresentavano nella fantasia coi loro devoti ceri in mano, servienti la messa con viso compunto ed angelico, ora coi turiboli incensando l'altare; e tutto assorto in codeste imagini, trascurava i miei studj, ed ogni-occupazinne, p_ com- pagnia mi noiava. Un giorno fra gli altri, stando fuori di casa il maesfrò7 trovatomi solo in camera, cercai ne' due vocabolari latino e italiano l'articolo frati; e cassata in ambidue quella pa- parola, vi scrissi Padri ; così credendomi di nobilitare, o che so io d'altro, quei novizietti ch'io vedeva ogni giorno, con nessun dei quali avea però mai favellato, e da cui non sapeva assoluta- mente quello ch'io mi volessi. L'aver sentito alcune volte con qualche disprezzo articolare la parola Frate-, e con rispetto ed amore quella di Padre, erano le sole cagioni per cui m'indussi a correggere quei dizionari ; e codeste correzioni fatte anche grossolanamente col temperino e la penna, le nascosi poi sempre con gran sollecitudine e timore al maestro, il quale non se ne dubitando, né a tal cosa certamente pensando, non se n'avvide poi mai. Chiunque vorrà riflettere alquanto su quest'inezia, e » Cotte. < Da secoli 1 frati erano coperti di ridicolo dalla satira letteraria e popolare. La vita 13 rintracciarvi il seme delle passioni dell'uomo; non la troverà forse né tanto risibile né tanto puerile, quanto ella pare. Da questi sì fatti effetti d'amore ignoto intieramente a me stesso, ma pure tanto operante nella mia fantasia, nasceva, per quanto ora credo, q"^''"'nftr mali"'''""'^"i che a poco a poco si insignoriva di me. e dominava poi sempre su tutte le altre qualità dell'indole mia. Tra i sette ed ott'anni, trovandomi un giorno in queste disposizioni malinconiche, occasionate forse anche dalla salute che era gracile anzi che no, visto uscire il maestro, e il servitore, corsi fuori del mio salotto che posto a terreno riusciva in un secondo cortile dove eravi intomo intomo molt'erba. E tosto mi posi a strappame colle mani quanta ne veniva, e ponendomela in bocca a masticarne e ingojame quanta più ne 'poteva, malgrado il sapore ostico ed amarissimo. Io avea sentito dire non so da chi, né come, né quando, che v'era un'erba detta cicuta che avvelenava e faceva morire; io non avea mai fatto pensiero di voler morire, e poco sapea quel che il morire si fosse ; eppure seguendo così un non so quale istinto naturale misto di un dolore di cui m'era ignota la fonte, mi spinsi avidissimente a mangiar di quell'erba, figurandomi che in essa vi dovesse anco essere della cicuta. Ma ributtato > poi dalla insopportabile amarezza e cmdità di un tal pascolo, e sentendomi provocato a. dare di stomaco, fuggii nell'annesso' giardino, dove non veduto da chi che sia mi liberai quasi interamente da tutta l'erba ingojata, e tornatomene in camera me ne rimasi soletto e tacito con qualche dolomzzo di stomaco e di corpo. Tornò frat- tanto il maestro, che di nulla si avvide, ed io nulla dissi. Poco dopo si dovè andare in tavola, e mia madre vedendomi gli occhi gonfi e rossi, come sogliono rimanere dopo gli sforzi del vomito, domandò, insistendo, e volle assolutamente saper quel che fosse ; ed oltre i comandi della madre mi andavano anche sempre più punzecchiando i dolori di corpo, sì ch'io non potea punto mangiare, e parlar non voleva. Onde io sempre duro a tacere, ed a vedere di non mi scontorcere, la madre sempre dura ad inter- rogare e minacciarmi; finalmente osservandomi essa ben bene, e vedendomi in atto di patire, e poi le labbra verdiccie, che io non aveva pensato risciaqnarmele, spaventatasi molto, ad un tratto > Nanteato. • Attiguo. 14 Vittorio Alfieri si alza, si approssima a me, mi parla dell'insolito color delie labbra, mi incalza e sforza a rispondere, finché vinto dal timore e dolore io tutto confesso piangendo. Mi vien dato subito un qualche leggiero rimedio, e nessun altro male ne segue, fuorché per più giorni fui rinchiuso in camera per gastigo; e quindi nuovo pascolo e fnmpjrjr» all'llTP"'' ma\\xiC4SMM^ v^ CAPITOLO QUARTO Sviluppo dell'indole indicato da varj fattarelli. L' indole, che io andava intanto manifestando in quei primi anni della nascente ragione, era questa. Taciturno e placido, per lo più; ma alle volte loquacissimo e vivacissimo; e qujsi sempre negK estremi" cbntràrjì ostinato e restìo contro la forza ; pieghe- volissimo agli avvisi amorevoli; rattenuto più che da nessun'altra cosa dal timore d'essere sgridato; suscettibile di vergognarmi fino all'eccesso, efnfléssibTle se io veniva preso a ritroso. Ma, per meglio dar conto ad altrui e a me stesso di quelle qualità primitive che la natura mi avea improntate nell'animo, ^ fra molte sciocche istoriette^ accadutemi in quella prima età, ne allegherò due o tre di cui mi ricordo benissimo, e che ritrar- ranno al vivo il mio carattere. Di quanti gastighi mi si potessero dare, quello che smisuratamente mi addolorava, ed a segno di farmi ammalare, e che perciò non mi fu dato che due volte sole, egli era di mandarmi alla messa colla reticella da notte* in capo, assetto che nasconde quasi interamente i capelli. La prima volta ch'io ci fui condannato (né mi ricordo più del perchè) venni dunque trascinato per mano dal maestro alla vicinissima chiesa del Carmine; chiesa abbandonata, dove non si trovavano mai 40 persone radunate nella sua vastità: tuttavia sì fattamente mi afflisse codesto gastigo, che per più di tre mesi poi rimasi irreprensibile. Tra le ragioni ch'io sono andato cercando in ap- presso entro di me medesimo, per ben conoscere il fonte di un simile effetto, due principalmente ne trovai, che mi diedero in- tera soluzione del dubbio. L'una si era, che io mi credeva gli occhi di tutti doversi necessariamente affissare su quella mia » Fatterelli. s Portata allora anche dagli adulti, usandosi i capelli lunghi. La vita 15 reticella, e ch'io dovea essere molto sconcio e diforme in codesto assetto, e che tutti mi terrebbero per un vero malfattore veden- domi punito così orribilmente. L'altra ragione si era, ch'io temeva di esser visto dagli amati novizj ; e questo mi passava veramente il cuore. Or mira, o lettore, in me omiccino il ritratto e tuo e di quanti anche uomini sono stati o saranno; che tutti slam pur sempre, a ben prendere, bambini perpetui. Ma l'effetto straordinario in me cagionato da quel gastigo, aveva riempito di gioja i miei parenti e il maestro ; onde ad ogni ombra di mancamento, minacciatami la reticella abborrìta, io rientrava immediatamente nel dovere, tremando. Pure, essendo poi ricaduto al fine in un qualche fallo insolito, per iscusa del quale mi occorse di articolare una soiennissima bugia alla si- gnora madre, mi fu di bel nuovo sentenziata la reticella: e di più, che in vece della deserta chiesa del Carmine, verrei con- dotto così a quella di San Martino, distante da casa, posta nel bel centro della città, e frequentatissima su l'ora del mezzo giorno da tutti gli oziosi del bel mondo. Oimè, qual dolore fu il mio! pregai, piansi, mi disperai; tutto invano. Quella notte, ch'io mi credei dover essere l'ultima della mia vita, non che chiudessi mai occhio, non mi ricordo mai poi di averne in nessun altro mio dolore passata una peggio. Venne alfin l'ora; ìnreticellato, piangente, ed urlante mi avviai stiracchiato dal maestro pel braccio, e spinto innanzi dal servitore per di dietro ; e in tal modo traversai due o tre strade, dove non era gente nessuna; ma tosto che si entrò nelle vie abitate, che si avvici- navano alla piazza e chiesa di San Martino, io immediatamente cessai dal piangere e dal gridare, cessai dal farmi strascinare; e camminando anzi tacito e di buon passo, e ben rasente al prete Ivaldi, sperai di passare inosservato nascondendomi quasi sotto il gomito del talare maestro, al di cui fianco appena la mia sta- turina giungeva. Arrivai nella piena chiesa, guidato per roano come orbo eh' io era ; che in fatti, chiusi gli occhi all' ingresso, non gli apersi più finché non fui inginocchiato al mio luogo di udir la messa; né, aprendoli poi, li alzai mai a segno di potervi distinguere nessuno. E rifattomi orbo all'uscire, tomai a casa con la morte in cuore, credendomi disonorato per sempre. Non volli in quel giorno mangiare, né parlare, né studiare, né pian- gere. E fu tale in somma e tanto il dolore, e la tensione d'animo, che mi ammalai per più giorni; né mai più si nominò pure in 16 Vittorio Alfieri casa il supplizio della reticella, tanto era lo spavento che cagionò alla amorosissima madre la disperazione ch'io ne mostrai. Ed io parimenti per assai gran tempo non dissi piìi bugia nessuno; e chi sa s'io non devo poi a quella benedetta reticella l'essere riuscito in appresso un degli uomini i meno bugiardi ch'io conoscessi. Altra storìetta. Era venuta in Asti la mia nonna materna, ma- trona di assai gran peso in Torino, vedova di uno dei barbas- sori' di Corte, e corredata di tutta quella pompa di cose, che nei ragazzi lasciano grand' impressione. Questa, dopo essere stata alcuni giorni con la mia madre, per quanto mi fosse andata accarezzando moltissimo in quel frattempo, io non m'era per niente addimesticato con lei, come salvatichetto ch'io m'era: onde, stando essa poi per andarsene, mi disse eh' io le doveva chiedere una qualche cosa, quella che più mi potrebbe soddi- sfare, e che me la darebbe dì certo. Io, a bella prima per ver- gogna e timidezza ed irresoluzione, ed in seguito poi per osti- nazione e ritrosia, incoccio sempre a rispondere la stessa e sola parola, Niente: e per quanto poi ci si provassero tutti in venti diverse maniere a rivoltarmi per pure estrarre da me qualcosa altro che non fosse quell' ineducatìssimo Niente, non fu mai pos- sibile ; né altro ci guadagnarono nel persistere gli interrogatori, se non che da principio il Niente veniva fuori asciutto, e rotondo ; poi verso il mezzo veniva fuori con voce dispettosa e tremante ad un tempo; ed in ultimo, fra molte lagrime, interrotto da profondi singhiozzi. Mi cacciarono dunque, come io ben meri- tava, dalla loro presenza, e chiusomi in camera, mi lasciarono godermi il mio così desiderató'^^STTTaTibnna partì. Ma quell' istesso io, che con tanta pertinacia aveva ricusato ogni dono legittimo della nonna, più giorni addietro le aveva pure involato in un suo forziere aperto un ventaglio, che poi celato nel mio letto, mi fi» ritrovato dopo alcun tempo: ed io allora dissi, com'era vero, di averlo preso per darlo poi alla mia so- rella. Gran punizione mi toccò giustamente per codesto furto: ma, benché il ladro sia alquanto peggiore del bugiardo, pure non mi venne più né minacciato né dato il supplizio della reti- cella: tanta era più la paura che aveva la mia madre di farmi ammalare di dolore, che non di vedermi riuscire un po' ladro: 1 Dignitari: Ironicamente. La vita l7 difetto, per il vero, da non temersi poi molto, e non difficile a sradicarsi da qualunque ente* non ha bisogno di esercitarlo. Il rispetto delle altrui proprietà, nasce e prospera prestissimo negli individui che ne posseggono alcune legittime loro. E qui, a guisa di storietta, inserirò pure la mia prima confes- sione spirituale, fatta tra i sette ed otto anni. Il maestro mi vi andò preparando, suggerendomi egli stesso i diversi peccati cìie io poteva aver commessi, dei più de' quali io ignorava persino i nomi. Fatto questo preventivo esame in comune col don Ivaldi, si fissò il giorno in cui porterei il mio fastelletto ai piedi del Padre Angelo, Carmelitano, il quale era anche il confessore di mia madre. Andai : né so quel che me gli dicessi, tanta era la mia naturai ripugnanza e il dolore di dovere rivelare i miei segreti fatti e pensieri ad una persona ch'io appena conosceva. Credo, che il frate facesse egli stesso la mia confessione per me; fatto si è che assolutomi m' ingiungeva di prosternarmi alla madre prima di entrare in tavola, e di domandarle in tal atto pubblicamente perdono di tutte le mie mancanze passate. Questa penitenza mi riusciva assai dura ad ingojare; non già, perchè io avessi ribrezzo nessuno di domandar perdono alla madre; ma quella prosternazione in terra, e la presenza di chiunque vi po- trebbe essere, mi davano un supplizio insoffribile. Tornato dunque a casa, salito a ora di pranzo, portato in tavola, e an- dati tutti in sala, mi parve di vedere che gli occhi di tutti si fis- sassero sopra di me; onde io chinando i miei me ne stava dub- bioso e confuso ed immobile, senza accostarmi alla tavola, dove ognuno andava pigliando il suo luogo: ma non mi figurava per tutto ciò, che alcuno sapesse i segreti penitenziali della mia con- fessione. Fattomi poi un poco di coraggio, m'inoltro per sedermi a tavola; ed ecco la madre con occhio arcigno guardandomi, mi domanda se io mi ci posso veramente sedere ; se io ho fatto quel ch'era mio dovere di fare; e se in somma io ifqn_Jio_5uJla_da tiinj)roverare_a jJi«-&tfi5S0. Ciascuno di questi quesiti mi era una pugnalata nel cuore; rispondeva certamente per me l'addolorato mio viso ; ma il labro non poteva proferir parola : né ci fu mezzo mai, che io volessi non che eseguire, ma né articolare ne ac- cennar pure la ingiuntami penitenza. E parimente la madre non la voleva accennare, per non tradire il traditor confessore. Onde * Essere, individuo. 2, - Classici Italiani. N. 2. 18 Vittorio Alfieri la cosa finì che ella perde per quel giorno la prosternazione da farglisi, ed io ci perdei il pranzo, e fors'anco l'assoluzione da- tami a sì duro patto dal P.e Angelo. Non ebbi con tutto ciò per allora la sagacità di penetrare che il P.' Angelo aveva concer- tato con mia madre la penitenza da ingiungermi. Ma il core ser- vendomi in ciò meglio assai dell'ingegno, contrassi d'allora in poi un odietto bastantemente profondo pel suddetto frate, e non molta propensione in appresso per quel sagramento, ancorché nelle seguenti confessioni non mi si ingiungesse poi mai piìi nessuna pena pubblica. CAPITOLO QUINTO Ultima storietta puerile. Era venuto in vacanza in Asti il mio fratello maggiore, il mar- chese di Cacherano, che da alcuni anni si stava educando in Torino nel Collegio dei Gesuiti. Egli era in età di circa anni 14 al più, ed io di otto. La di lui compagnia mi riusciva ad un tempo di sollievo e d'angustia. Siccome io non lo avea mai co- nosciuto prima (essendomi egli fratello uterino soltanto), io vera- mente non mi sentiva quasi nessun amore per esso; ma siccome egli andava pure un cotal poco ruzzando con me, una certa in- clinazione per lui mi sarebbe venuta crescendo con l'assuefa- zione. Ma egli era tanto piìi grande di me; avea più libertà di me, pili danari, più carezze dai genitori ; avea già vedute più assai cose di me, abitando in Torino; avea spiegato il Virgilio; e che so io, tante altre cosarelle aveva egli, che io non avea, che allora finalmente io conobbi per la prima volta l'invidia. Ella non era però atroce, poiché non mi traeva ad odiare pre- cisamente queir individuo, ma mi faceva ardentissimamente desi- derare di aver io le stesse cose, senza però volerle togliere a lui. E questa credo io, che sia la diramazione delle due invidie, di cui, l'una negli animi rei diventa poi l'odio assoluto contro chi ha il bene, e il desiderio d'impedirglielo, o toglierglielo, anche non lo acquistando per se; l'altra, nei non rei, diventa sotto il nome di emulazione, o di gara, un'inquietissima brama di otte- nere quelle cose stesse in eguale o maggior copia dell'altro. Oh quanto è sottile, e invisibile quasi la differenza che passa fra il seme delle nostre virtù e dei nostri vizj! La vita 19 Io dunque, con questo mio fratello ora ruzzando, ora bistic- ciando, e cavandone ora dei regalucci, ora dei pugni, mi pas- sava tutta quella state assai più divertito del solito, essendo io fin allora stato sempre solo in casa; che non v'è pe' ragazzi maggior fastidio. Un giorno tra gli altri caldissimo, mentre tutti su la nona' facevano la siesta, noi due stavamo facendo l'esercizio alla prussiana*, che il mio fratello m' insegnava. Io, nel marciare, in una voltata cado, e batto il capo sopra uno degli alari rimasti per incuria nel caraminetto sin dall'inverno prece- dente. L' alare, per essere tutto scassinato e privo di quel pomo d'ottone solito ad innestarvisi su le due punte che sporgono in fuori del camrainetto, su una di esse mi venni quasi ad inchio- dare la testa un dito circa sopra l'occhio sinistro nel bel mezzo del sopraciglio. E fu la ferita così lunga e profonda, che tut- tora ne porto, e porterò sino alla tomba la cicatrice visibilissima. Dalla caduta mi rizzai immediatamente da me stesso, ed anzi gridai subito a! fratello di non dir niente; tanto più che in quel primo impeto non mi parea d'aver sentito nessunissimo dolore, ma bensì molta vergogna di essermi così mostrato un soldato male in gambe. Ma già il fratello era corso a risvegliare il maestro, e il rumore era giunto alla madre, e tutta la casa era sottosopra. In quel frattempo, io che non avea punto gridato ne cadendo né riz- zandomi, quando ebbi fatti alcuni passi verso il tavolino, al sentirmi scorrere lungo il viso una cosa caldissima, portatevi tosto le mani, tosto che me le vidi ripiene di sangue cominciai allora ad urlare. E doveano essere di semplice sbigottimento quegli urli, poiché mi ricordo benissimo, che non sentii mai nessun dolore sinché non venne il chirurgo e cominciò a lavare a tastare e medicare la piaga. Questa durò alcune settimane, prima di rimarginare, e per più giorni dovei stare al bujo, perchè si temeva non poco per l'occhio, stante la infiammazione e gonfiezza smisurata, che vi si era messa. Essendo poi in convalescenza, ed avendo ancora gì' impiastri e le fasciature, andai pure con molto piacere alla messa al Car- mine; benché certo quell'assetto spedalesco mi sfigurasse assai più che non quella mia reticella da notte, verde e pulita, quale appunto i zerbini d'Andalusia portano p>er vezzo. Ed io pure, poi viaggiando nelle Spagne la portai per civetterìa ad imita- > Dal levar del sole; le tre pomeridiane circa, ora della siesta. • Allora di m" r^.\.-r\rry II e delle sue recenti campagne. 20 Vittorio Alfieri zione di essi. Quella fasciatura dunque non mi facea nessuna ripugnanza a mostrarla in pubblico; o fosse perchè l' idea di un pericolo corso mi lusingasse ; o che, per un misto d' idee ancora informi nel mio capicino io annettessi pure una qualche idea di gloria a quella ferita. E così bisogna pure che fosse; poiché, senza aver presenti alla mente i moti dell'animo mio in quel punto, mi ricordo bensì che ogniqualvolta s'incontrava qualcuno che domandasse al prete Ivaldi cosa fosse quel mio capo fasciato ; rispondendo egli, ch'io era Cascato; io subito soggiungeva del ' mio, Facendo resercizio. Ed ecco, come nei giovanissimi petti, chi ben li studiasse, si vengono a scorgere manifestamente i semi diversi delle virtù e dei vizj. Che questo certamente in mejera un seme di amor-
  • Essendo l'ordine numerale delle classi inverso rispetto al nostro: la 4» corrispondeva all' incirca alle nostre !• e 2» ginnasiale. 26 Vittorio Alfieri ne in quali tempi né in quali governi vivessero, ne cosa si fosse un governo qualunque. Tutte le idee erano o circoscritte, o false, o confuse; 'nessuno scopo in chi insegnavajjiessumssimo allet- ^tamento in chTìmparava.: Èrano insomma dei vergognosissimi ferdigiorniS non c'invigilando nessuno; o chi lo faceva, nulla intendendovi. Ed ecco in qual modo si viene a tradire senza rimedio la gioventù. Passato quasi che tutto l'anno 1759 in simili studj, verso il novembre fui promosso all'Umanità. Il maestro di essa, don Amatis, era un prete di molto ingegno e sagacità, e di sufficiente dottrina. Sotto di questo, io feci assai maggiore profitto; e per quanto quel metodo di mal intesi studj lo comportasse, mi rin- forzai bastantemente nella lingua latina. L'emulazione mi si ac- crebbe, per l'incontro di un giovine che competeva con me nel fare il tema; ed alcuna volta mi superava; ma vieppiù poi mi vinceva sempre negli esercizi della memoria, recitando egli sino a 600 versi delle Georgiche di Virgilio d'un fiato, senza sba- gliare una sillaba, e non potendo io arrivare neppure a 400, ed anche non bene; cosa, di cui mi angustiava moltissimo. E per quanto mi vo ora ricordando dei moti del mio animo in quelle battaglie puerili, mi pare che la mia indole non fosse di cattiva natura; Vrchè nell'atto dell'essere vinto. da quei dugeatft^ifsrsi di più, iojni sentiva beusl-soffocar -dalla -collera, .e-spessQ_PXQ- "^ rompeva in un dirottissimo pianto elaJvoJtaLancheinatrQÒssime ingiurie "contro al rivale^jjna pure poi, o sia ch'egli si fosse mi- glTore'di me, o ch'io mi placassi non so come, essendo noi di forza di mano uguali all' incirca, non ci disputavamo però quasi mai, e sul totale eramo quasi amici. Io credo, che la mia non -^-^piccola àa^i^i^acdla ritrovasse consolazione e compenso della inferiorità della memoria, nel premio del tema», che quasi sempre era mio ; ed inoltre, io non gli poteva portar odio, perchè egli era bellissimo; ed io, anche senza secondi fini, sempre sono stato assai propenso per la bellezza, sì degli animali che degli uomini, e d'ogni cosa ; a segno che la bellezza per alcun tempo nella mia mente preoccupa il giudizio, e pregiudica spesso al vero. In tutto quell'anno dell'Umanità, i miei costumi si conserva- rono ancora innocenU e purissimi ; se non in quanto la natura da se stessa, senza ch'io nulla sapessi, me li andava pure stur- I Perditempi, detto di quegli studi. « In latino, come allora usavasi. La vita 27 bando. Mi capitò in quell'anno alle mani, e non mi posso ricor- dare il come, un Ariosto, l'opere tutte in quattro temetti. Non la comprai certo, perchè danari non avea; non lo rubai, perchè delle cose rubate ho conservata memoria vivissima : ho un certo barlume, che lo acquistassi ad un tomo per volta per via di ba- ratto da un altro compagno, che lo scambiasse meco col pollo che ci era dato per lo più ogni domenica, un mezzo a ciascuno ; sicché il mio primo Ariosto mi sarebbe costato la privazione di an par di polli in 4 settimane. Ma tutto questo non lo posso accertare a me stesso per l'appunto. E mi spiace; perchè avrei caro di sapere se io ho bevuto i primi sorsi di poesia a spese dello stomaco, digiunando del miglior boccone che ci toccasse Riai. E non era questo il solo baratto ch'io mi facessi, perchè quel benedetto semipollo domenicale, io mi ricordo benissimo di non lo aver mangiato mai per dei se' mesi continui, perchè lo aveva pattuito in iscambio di certe storie che ci raccontava un certo Lignana, il quale essendo un divoratore, aguzzavasi l'intelletto per ritondarsi la pancia; e non ammetteva ascolta- tori dei suoi racconti, se non se a retribuzione di vettovaglie. Comunque accadesse dunque questa mia acquisizione, io m'ebbi un Ariosto. Lo andava leggendo qua e là senza metodo, e non intendeva neppur per metà quel ch'io leggeva. Si giudichi da ciò quali dovessero essere quegli studj da me fatti fin a quel punto; poiché io, il principe di codesti umanisti, che traduceva pur le Georgiche, assai più difficili dell' Eneide, in prosa ita- liana, eja imbrogliato d'intendere il più facik dei nostri^ poeti, u Sempre mi ricorderò, chenel cantò d'Alcina, a quei bellissimi passi che descrivono la di lei bellezza io mi andava facendo tutto intelletto per capir bene: ma troppi dati mi mancavano di ogni genere per arrivarci. Onde i due ultimi versi di quella stanza. Non cosi strettamente edera preme, non mi era mai pos- sibile d'intenderli: e tenevamo consiglio col mio competitore di scuola, che non li penetrava niente più di me, e ci perdevamo in nn mare di congetture. Questa furtiva lettura e commento su l'Ariosto finì, che l'assistente essendosi avvisto che andava per le mani nostre un libruccio il quale veniva immediatamente oc- cultato al di lui apparire, lo scoprì, lo confiscò, e fattisi dar gli litri tomi, tutti li consegnò al sottopriore, e noi poetini restammo orbati d'ogni poetica guida, e scornati. l''irio JcHa classe: ironico. 28 Vittorio Alfieri CAPITOLO TERZO A quali de' parenti in Torino venisse affidata la mia adolescenza. Nello spazio di questi due primi anni d'Accademia, io imparai dunque pochissimo, e di gran lunga peggiorai la salute^HèTcòrpo, ^'*^ stante la total differenza e quantità dei cibi^v ècf il molto stra- paz207 e it non àBBàifàffzà SòTinire ; co^è" in tutto contrarie al primo metodo tenuto sino ai nove anni nella casa materna. Io non cresceva punto di statura, e pareva un candelotto di cera sotti- lissimo e pallidissimo. Molti, malauini .SVlccessivamente mi anda- rono travagliando'. L'uno, tra gli altri, cominciò con lo "scop- piarmi in "pìtT di venti luoghi la testa, uscendone un umore viscoso e fetente, preceduto da un tale dolor di capo, che le tempie mi si annerirono, e la pelle come incarbonita sfoglian- dosi più volte in diversi tempi mi si cambiò tutta in su la fronte e le tempie. Il mio zìo paterno il cavalier Pellegrino Alfieri, era stato fatto governatore della città di Cuneo', dove risiedeva almeno otto mesi dell'anno: onde non mi rimaneva in Torino altri pa- renti che quei della madre, la casa Tornone, ed un cugino di mio padre, mio semi-zio, chiamato il conte Benedetto Alfieri. Era questi il primo architetto del re; ed alloggiava contiguamente a quello stesso regio teatro da lui con tanta eleganza e maestria ideato, e fatto eseguire. Io andava qualche volta a pranzo da lui, ed alcune altre volte a visitarlo ; il che stava totalmente nell'ar- bitrio di quel mio Andrea, che dispoticamente mi governava,*alle- gando sempre degli ordini e delle lettere ^elTo zìo^PCuneo. Era quel conte Benedetto un veramente degn'uorao, ed ottimo di visceri. Egli mi amava ed accarezzava moltissimo; era appa- sionatissimo dell'arte sua ; semplicissimo di carattere, e digiuno quasi d'ogni altra cosa, che non spettasse le belle arti. Tra molte altre cose, io argomento quella sua passione smisurata per l' ar- chitettura, dal parlarmi spessissimo, e con entusiasmo, a me ragaz- zaccio ignorante d'ogni arte eh' io m'era, del divino Michelan- gelo Buonarroti, ch'egli non nominava mai senza o abbassare il > V. : O. Antonini e L. Coqnetti de Mvrtiis, Vittorio Alfterl ecc., dt. • Sopra le ardite imprese che fecero affidar Cuneo al cavaljcr P. Alfieri, V. V. TuRLETTi, Attraverso le Alpi, Storia aneddotica dèìla guerra di montagna dal 1742 al 174S, Torino, 1897, pp. 211,235. La vita 29 capo, o alzarsi la berretta con un rispetto ed una compunzione che non mi usciranno mai della mente. Egli avea fatta gran parte della vita in Roma; era pieno del bello antico; ma pure poi alle volte nel suo architettare prevaricò dal buon gusto per adattarsi ai moderni. E di ciò fa fede quella sua bizzarra chiesa di Carignano, fatta a foggia di ventaglio. Ma tali picciole macchie ha egli ben ampiamente cancellate col teatro sopracitato, la volta dottissima ed audacissima della cavallerizza del Re, il salone di Stupinigi, e la soda e dignitosa facciata del tempio di San Pietro in Ginevra. Mancava forse soltanto alla di lui facoltà architet- tonica una più larga borsa di quel che si fosse quella del re di Sardegna: e ciò testimoniano i molti e grandiosi disegni ch'egli lasciò morendo e che furono dal Re ritirati, in cui v'erano dei progetti variatissimi per diversi abbellimenti da farsi in Torino, e tra gli altri per rifabbricare quel muro sconcissimo che divide * la piazza del Castello dalla piazza del Palazzo Reale; muro che si chiama, non so perchè, il Padiglione. Mi compiaccio ora moltissimo nel parlar di quel mio zio, che sapea pure far qualche cosa; ed ora soltanto ne conosco tutto il pregio. Ma quando io era in Accademia, egli, benché amore- volissimo per me, mi riusciva pure noiosetto anzi che no; e, vedi stortura di giudizio, e forza di false massime,Ha cosa che di esso mi seccava il più era il suo benedetto parlar toscano, ch'egli dal suo soggiorno di Roma in poi mai più non avea voluto smet- tere; ancorché il parlare italiano sia un vero contrabbando in Torino, città anfibia. Ma tanta è però la forza del bello e del vero che la gente stessa che al principio quando il mio zio ripatriò, si burlava del di lui toscaneggiare, dopo alcun tempo avvistisi poi ch'egli veramente parlava una lingua, ed essi smoz- zicavano un barbaro gergo*, tutti poi a prova favellando con lui andavano anch'essi balbettando il loro toscano ; e massimamente quei tanti signori, che volevano rabberciare un poco le loro case e farle assomigliar dei palazzi: opere futili in cui gratuitamente per amicizia quell'ottimo uomo buttava la metà del r>uo tempo compiacendo ad altrui, e spiacendo, come gli sentii dire tante vulte, a se stesso ed all'arte. Onde molte e molte case dei primi > Divideva allora. ' Sforpiav.ino, cioè, il francMe. V. In O. F. Oalrani Napione, Dell'uso e dei pregi drlla lingua italiana, Lib. I, cap. MI, il giudizio, di un pie- montese contemporaneo dcll'A., sulla lingua italiana. 30 Vittorio Alfieri di Torino da lui abbellite o accresciute, con atri, e scale, e por- toni, e comodi interni, resteranno un monumento della facile sua benignità nel servire gli amici, o quelli che se gli dicevano tali. Questo mio zio avea anche fatto il viaggio di Napoli insieme con mio padre suo cugino, circa un par d'anni prima che questi si accasasse con mia madre; e da lui seppi poi varie cose con- cernenti mio padre. Tra l'altre, che essendo essi andati al Vesuvio, mio padre a viva forza si era voluto far calar dentro sino alla crosta del cratere interno, assai ben profonda: il che praticavasi allora per mezzo di certe funi maneggiate da gente che stava sulla sommità della voragine esterna. Circa vent'anni dopo, ch'io ci fui per la prima volta, trovai ogni cosa mutata, ed im- possibile quella calata. Ma è tempo, ch'io ritorni a bomba. CAPITOLO QUARTO Continuazione di quei non-studj. Non c'essendo quasi dunque nessuno de' miei che badasse altrimenti a me, io andava perdendo i miei piìi begli anni non imparando quasi che nulla, e deteriorando di giorno in giorno in salute; a tal segno, ch'essendo sempre infermiccio, e piagato or qua or là in varie parti del corpo, io era fatto lo scherno con- tinuo dei compagni, che mi denominavano col gentilissimo titolo di carogna; ed i più spiritosi ed umani ci aggiungevano anco l'epiteto di fradicia."Quello stato di salute mi cagionava delle fierissime malinconjej-e quindi si radicava in me_senT2rje_piìi l'amore deila solitudine. Nell'anno 1760 passai con tutto ciò in RettoricaS" pèrche Ifiiéì mali tanto mi lasciavano di quando in quando studicchiare, e poco ci volea per far quelle classi. Ma il maestro di rettorica trovandosi essere assai meno abile di quello d'Umanità, benché ci spiegasse l'Eneide, e ci facesse far dei versi latini, mi parve, quanto a me, che sotto di lui io andassi piuttosto indietro che innanzi nell'intelligenza della lingua latina. Ma pure, poiché io non era l'ultimo tra quegli altri scolari, da ciò argomento che dovesse esser lo stesso di loro. In quell'anno di pretesa rettorica, mi venne fatto di ricuperare il mio Ariostino, rubandolo a un tomo per volta al sottopriore, che se l'era inne- > Press'a poco il nostro ginnasio supcriore. La vita 31 stato fra gli altri suoi libri in un suo scaffale esposto alla vista. E mi prestò opportunità di ciò fare, il tempo in cui andavamo in camera sua alcuni privilegiati, per vedere dalle di lui finestre giuocare al pallon grosso, perchè dalla camera sua situata di faccia al battitore, si godeva assai meglio il giuoco che non dalle gallerie nostre che stavangli di fianco. Io aveva l'avvertenza di ben restringere i tomi vicini, tosto ciie ne avea levato uno; e così mi riuscì in quattro giorni consecutivi di riavere i miei quattro temetti, dei quali feci gran festa in me stesso, ma non lo dissi a chi che si fosse. Ma trovo pure riandando quei tempi fra me, che da quella ricuperazione in poi, non lo lessi quasi più niente; e le due ragioni, (oltre forse quella della poca salute che era la principale) per cui mi pare che lo trascurassi, erano la difficoltà dell'intenderlo piuttosto accresciuta che scemata (vedi rettorie©!) e l'altra era quella continua spezzatura delle storie ariostesche, che nel meglio del fatto ti pianta lì con un palmo di naso ; cosa che me ne dispiace anco adesso, perchè contraria al vero, e distrug- ^itrice dell'effetto prodotto innanzi. E siccome io non sapeva dove andarmi a raccapezzare il seguito del fatto, finiva col lasciarlo stare. Del Tasso, che al carattere mio si sarebbe adattato assai meglio, io non sapeva neppure il nome. Mi capitò allora, e non mi sovviene neppure come, l'Eneide dell'Annioal Caro, e la lessi con avidità e furore più d'una volta, appassionandomi molto per Turno e Camilla. E me ne andava poi anche prevalendo di furto, per la mia traduzione scolastica del tema datomi dal maestro; il che sempre più mi teneva indietro nel mio latino. Di nessu- n'altro poi de' poeti nostri avea io cognizione, se non sedi alcune opere del Metastasi©, come il Catone, l'.^rtaserse, l'Olimpiade, ed altre che ci capitavano alle mani come libretti dell'Opera di questo, o di quel carnovale. E queste mi dilettavano sommamente ; fuorché al venir dell'arietta interrompitrice dello sviluppo degli affetti, appunto quando mi ci cominciava a internare, io provavo un dispiacere vivissimo; e più noja ancora ne riceveva, che dagli interrompimenti dell'Ariosto. MT capitarono anche allora varie commedie del Goldoni, e queste me le prestava il maestro stesso; e mi divertivano molto. Ma il genio per le cose drammatiche, di cui forse il germe era in n-.e, si venne tosto a ricoprire o ad estinguere in me, per mancanza di pascolo, di incoraggimento, e d'ogni altra cosa. E, somma fatta, la ignoranza mia e di chi mi educava, e la trascuraggine di tutti in ogni cosa non potea andar più oltre. 32 Vittorio Alfieri In quegli spessi e lunghi intervalli in cui per via di salute io non poteva andare alla scuola con gli altri, un mio compagno, maggiore di età, e di forze, e di asinità ancor più, si faceva fare di quando in quando il suo componimento da me, che era o tra- duzione, o amplificazione, o versi ec; ed egli mi ci costringeva con questo bellissimo argomento. Se tu mi vuoi fare il componi- mento, io ti do due palle da giuocare; e me le mostrava, belline, di quattro colori, di un bel panno, ben cucite, ed ottimamente rimbalzanti: se tu non me lo vuoi fare, ti do due scappellotti, ed alzava in ciò dire la prepotente sua mano, lasciandomela pen- dente sul capo. Io pigliava le due palle, e gli faceva il compo- nimento. Da principio glie lo facea fedelmente quanto meglio sapessi; e il maestro si stupiva un poco dei progressi inaspet- tati di costui, che erasi fin allora mostrato una talpa. Ma io teneva religiosamente il segreto; più ancora perchè la natura mia era di essere poco comunicativo, che non per la paura che avessi di quel Ciclope'. Con tutto ciò, dopo avergli fatto molte composi- zioni, e sazio di tante palle, e nojato di quella fatica, e anche indispettito un tal poco che colui si abbellisse del mio, andai a poco a poco deteriorando in tal guisa il componimento, che finii col frapporvi di quei tali solecismi, come il potebam, e simili, che ti fanno far le fischiate dai colleghi, e dar le sferzate- dai maestri. Costui dunque, vistosi così sbeffato in pubblico, e rivestito per forza della sua naturai pelle d'asino, non osò pure apertamente far gran vendetta di me: non mi fece più lavorare per lui, e rimase frenato e fremente dalla vergogna che gli avrei potuta fare scoprendolo. Il che non feci pur mai: ma io rideva vera- mente di cuore nel sentire raccontare dagli altri come era acca- duto il fatto del potebam nella scuola: nessuno però dubitava ch'io ci avessi avuto parte. Ed io verisimilraente era anche con- tenuto nei limiti della discrezione, da quella vista della mano alza- tami sul capo, che mi rimaneva tuttora sugli occhi, e che doveva essere il naturale ricatto di tante palle mal impiegate per farsi vituperare. Onde io imparai sin da allora, che la vicendevole paura era quella che governava il mondo'. Fra queste puerili insipide vicende, io spesso infermo, e sempre 1 Individuo robusto, nerboruto. < Riprovate dalla pedagogia moderna. * Principio desunto dal Leviathan, di Hobbes (1651), e dall'A. svolto nella Tirannide. La vita 33 mai sano, avendo anche consumato quell'anno di Rettorica, chia- mato poi al solito esame fui giudicato oapace di entrare in Filo- sofia \ Gli studj di codesta filosofia si facevano fuori dell'Acca- demia, nella vicina università, dove si andava due volte al giorno: la mattina era la scuola di geometria; il giorno, quella di filosofia, o sia logica. Ed eccomi dunque in età di anni tredici scarsi diven- tato filosofo; del qual nome io mi gonfiava tanto più, che mi collocava già quasi nella classe dei Grandi ; oltre poi il piacevo- lissimo balocco dell'uscire di casa due volte al giorno; il che poi ci somministrava spesso l'occasione di fare delle scorsarelle per le strade delle città così alla sfuggita, fingendo di uscire di scuola per qualche bisogno. Benché dunque io mi trovassi il più piccolo di tutti quei grandi fra' quali era sceso nella galleria del secondo appartamento, quella mia inferiorità di statura, di età e di forze mi prestava per l'appunto più animo ed impegno di volermi distinguere. Ed in fatti da prima studiai quanto bisognava per figurare alle ripetizioni che si facevano poi in casa la sera dai nostri ripetitori accademici. Io rispondeva ai quesiti quanto altri, e anche meglio talvolta; il che dovea essere un semplice frutto di memoria, e non d'altro ; perchè a dir vero io certamente non intendeva nulla di quella filosofia pedantesca, insipida per se stessa, ed avviluppata poi nel latino, col quale mi bisognava tut- tavia contrastare, e vincerlo alla meglio a forza di vocabolario. Di quella geometria, di cui io feci il corso intero, cioè spiegati i primi sei libri di Euclide, io non ho neppure mai intesa la quarta proposizione; come neppure la intendo adesso; avendo io sempre avuta la testa assolutamente anti-geometrica. Quella scuola poi di filosofia peripatetica che si faceva il dopo pranzo, era una isa da dormirvi in piedi. Ed in fatti, nella prima mezz'ora si riveva il corso a dettatura del professore ; e nei tre quarti d'ora :nanenti, dove si procedeva poi alla spiegazione fatta in latino, :o sa quale, dal catedratico, noi tutti scolari, inviluppati intera- cnte nei rispettivi mantelloni, saporitissimamente dormivamo; e altro suono si sentiva tra quei filosofi, se non se la voce del professore languente, che dormicchiava egli pure, ed i diversi tuoni dei russatori, chi alto, chi basso, e chi medio; il che faceva 1 bellissimo concerto. Oltre il potere irresistibile di quella papa- . rica filosofia, contribuiva anche molto a farci dormire, princi- > Il nostro liceo. 3. - Oauiei ItaUant. N. 2. 34 Vittorio Alfieri palmente noi accademisti, che avevamo due o tre panche distinte alla destra del professore, l'aver sempre i sonni interrotti la mat- tina dal doverci alzar troppo presto. E ciò, quanto a me, era la principal cagione di tutti i miei incomodi, perchè lo stomaco non aveva tempo di smaltir la cena dormendo. Del che poi avvistisi a mio riguardo i superiori, mi concederono finalmente in ques- t'anno di filosofia di poter dormire fino alle sette, in vece delle cinque e tre quarti, che era l'ora fissata del doversi alzare, anzi essere alzati, per scendere in camerata a dire le prime orazioni, e tosto poi mettersi allo studio fino alle sette e mezzo. CAPITOLO QUINTO Varie insulse vicende, su le stesso andamento del precedente. Nell'inverno di quell'anno 1762, il mio zio, il governatore di Cuneo, tornò per alcuni mesi in Torino ; e vistomi così tisicuzzo, mi ottenne anche alcuni piccoli privilegi quanto al mangiare un po' meglio, cioè più sanamente. Il che aggiunto ad alquanta più dissipazione ' che mi procacciava quell' uscire ogni giorno di casa per andare all'università, e nei giorni di vacanza qualche pran- zuccio dallo zio, e quel sonnetto periodico dei tre quarti d'ora nella scuola ; tutto questo contribuì a rimpannucciarmi un pochino, e cominciai allora a svilupparmi ed a crescere. 11 mio zio pensò anche, come nostro tutore, di far venire in Torino la mia sorella carnale, Giulia, che era la sola di padre ; e di porla nel monastero di Santa Croce, cavandola da quello di Sant'Anastasio in Asti, dove era stata per più di sei anni sotto gli auspicj di una nostra zia, vedova del marchese Trotti, che vi si era ritirata. La Giulietta cresceva in codesto monastero in Asti, ancor più ineducata di me ; stante l'imperio assoluto, ch'ella si era usurpato su la buona zia, che non se ne potea giovare in nessuna maniera, amandola molto, e guastandola moltissimo. La ragazza si avvicinava ai quindici anni, essendomi maggiore di due e più anni. E quell'età, nelle nostre contrade per lo più non è muta, ed altamente anzi già parla d'amore al facile e tenero cuore delle donzelle. Un qualche suo amoruccio, quale può aver luogo in un monastero, ancorché fosse pure verso persona che convenientemente l'avrebbe potuta > Distrazione. La vita 35 sposare, dispiacque allo zio, e lo determinò a farla venire in Torino; affidandola alla zia materna, monaca in Santa Croce. La vista di questa sorella, già da me tanto amata, come accennai, e che ora tanto era cresciuta in bellezza, mi rallegrò anche molto; e confortandomi il cuore e lo spirito, mi restituì anche molto in salute. E la compagnia, o per dir meglio il rivedere di tempo in tempo la sorella, mi riusciva tanto più grato, quanto mi pareva ch'io la sollevassi alcun poco dalla sua afflizione d'amore; essendo stata cosi divisa dal suo innamorato, che pure si ostinava in dire di volerlo assolutamente in isposo. Io andava dunque ottenendo dal mio custode Andrea, di visitare la mja sorella quasi tutte le domeniche e giovedì, che erano i nostri due giorni di riposo. E assai spesso io passava tutta la mia visita di un'ora e più, a pianger con essa alla grata ; e.jiiiel_pjan^erej pareva^ che mi. giovasse moltissimo: sicché io tornava sempre a casa più sol- levato, benchènon lieto. Ed io, da quel filosofo ch'io m'era, le dava^inche coraggio, e l'incitava a persistere in quella sua scelta; e che finalmente essa poi la spunterebbe con lo zio, che era quello che assolutamente vi si opponeva il più. Ma il tempo, che tanto opera anco su i più saldi petti, non tardò poi moltissimo a svolgere quello di una giovanetta; e la lontananza, gl'impedi- menti, le divagazioni, e oltre ogni cosa quella nuova educazione di gran lunga migliore della prima sotto la zia paterna, la guari- rono e la consolarono dopo alcuni mesi. Nelle vacanze di quell'anno di filosofia, mi toccò di andare per la prima volta al Teatro di Carignano, dove si davano le opere buffe. E questo fu un segnalato favore che mi volle fare Io zio architetto, che mi dovè albergare quella notte in casa sua: Stante che codesto teatro non si poteva assolutamente combinare con le regole della nostra Accademia, per cui ogni individuo .dev'essere restituito in casa al più tardi a mezz'ora di notte; e nessun altro teatro ci era permesso fuorché quello del re, dove andavamo in corpo una volta per settimana nel solo carnevale. Quell'opera buffa ch'io ebbi dunque in sorte di sentire, mediante il sotterfugio del pietoso zio, che fece dire ai superiori che mi por- terebbe per un giorno e una notte in una sua villa, era intitolata il Mercato di Malmantile, cantata dai migliori buffi d' Italia, il Carratoli, il Baglioni, e le di lui figlie; composta da uno dei più celebri maestri. Il brio, e la varietà di quella divina musica mi fece una profondissima impressione, lasciandomi per cosi dire 36 Vittorio Alfieri un solco di armonia negli orecchi e nella imaginativa, ed agitan- domi ogni più interna fibra, a tal segno che per piìi settimane io rimasi immerso in una malinconia straordinaria ma non dispia- cevole; dalla quale mi ridondava una totale svogliatezza e nausea per quei miei soliti studj, ma nel tempo stesso un singolarissimo bollore d' idee fantastiche, dietro alle quali avrei potuto far dei versi se avessi saputo farli, ed esprimere dei vivissimi affetti, se non fossi stato ignoto a me stesso ed a chi dicea di educarmi. E fu questa la prima volta che un tale effetto cagionato in me dalla musica, mi si fece osservare, e mi restò lungamente im- presso nella memoria, perch'egli fu assai maggiore d'ogni altro sentito prima'. Ma andandomi poi ricordando dei miei carnovali, e di quelle poche recite dell'opera seria ch'io aveva sentite, e paragonandone gli effetti a quelli che ancora provo tuttavia, quando divezzatomi dal teatro ci ritorno dopo un certo inter- vallo, ritrovo sempre non vi essere il piìi potente e indomabile agitatore dell'animo, cuore, ed intelletto mio, di quel che lo siano i suoni tutti, e specialmente le voci di contralto e di donna. Nes- suna cosa mi desta più affetti, e più varj, e terribili. E quasi tutte le mie tragedie sono state ideate da me o nell'atto del sentir musica, o poche ore dopo. Essendo scorso così il mio primo anno di studj nell'università, nel quale si disse dai ripetitori (ed io non saprei né come né perchè) aver io studiato assai bene, ottenni dallo zio di Cuneo la licenza di venirlo a trovare in codesta città per quindici giorni nel mese di agosto. Questo viaggetto, da Torino a Cuneo per quella fertilissima ridente pianura del bel Piemonte, essendo il secondo ch'io faceva da che era al mondo, mi dilettò, e giovò moltissimo alla salute, perchè l'aria aperta ed il moto mi sono sempre stati elementi di vita. Ma il piacere di questo viaggio mi venne pure amareggiato non poco dall'esser costretto di farlo coi vetturini a passo a passo: io, che 4 o 5 anni prima, alla mia prima uscita di casa, aveva così rapidamente percorso quelle cinque poste che stanno tra Asti e Torino, Onde, mi pareva di essere tornato indietro invecchiando, e mi teneva molto avvilito di quella ignobile e gelida tardezza del passo d'asino di cui si andava; onde all'entrare in Carignano, Racconigi, Savigliano, ed > Cfr. E. Fondi, // sentimento musicale In V.A., in « Rivista musicale», XI, 3, 1904. La vita 37 in ogni anche minimo borgnzzo, io mi rintuzzava' ben dentro nel più intimo del calessaccio, e chiudeva anche gli occhi per non vedere né esser visto ; quasi che tutti mi dovessero conoscere per quello che avea altre volte corsa la posta con tanto brio, e sbef- farmi ora come condannato a sì umiliante lentezza. Erano eglino in me questi moti il prodotto d'un animo caldo e sublime, op- pure leggiero e vanaglorioso? Non lo so; altri potrà giudicarlo dagli anni miei susseguenti. Ma so bene, che se io avessi avuto al fianco una qualche persona che avesse conosciuto il cuore dell'uomo in esteso, egli avrebbe potuto cavare fin da allora qualche cosa da me, con la potentissima molla dell'amóre di lode e di gloria. In quel mio breve soggiorno in Cuneo, io feci il primo sonetto, che non dirò mio, perchè egli era un rifrittume di versi o presi interi, o guastati, e riannestati insieme, dal Metastasio, e l'Ariosto, che erano stati i due soli poeti italiani di cui avessi un po' letto. Ma credo, che non vi fossero né le rime debite, né forse i piedi ; stante che, benché avessi fatti dei versi latini esametri, e penta- metri, niuno però mi avea insegnato mai niuna regola del verso italiano. Per quanto io ci abbia fantasticato poi per ritornarmene in mente almeno uno o due versi, non mi è mai piìi stato pos- sibile. Solamente so, ch'egli era in lode d'una signora che quel mio zio corteggiava, e che piaceva anche a me. Codesto sonetto, non poteva certamente esser altro che pessimo. Con tutto ciò mi venne lodato assai, e da quella signora, che non intendeva nulla, e da altri simili: onde io già quasi mi credei un poeta. Ma lo zio, che era uomo militare, e severo, e the bastantemente noti- tiziato delle cose storiche e politiche nulla intendeva né curava di nessuna poesia, non incoraggi punto questa mia Musa na- scente; e disapprovando anzi il sonetto e burlandosene mi dis- seccò quella mia poca vena fin da radice; e non mi venne più voglia di poetare mai, sino all'età di 25 anni passati. Quanti o buoni o cattivi miei versi soffocò quel mio zio, con quel mio sonettaccio primogenito! A quella bestiale filosofia, succede l'anno dopo lo studio della fisica, e dell'etica, distribuite parimenti come le due altre scuole anteriori; la fisica la mattina e la lezione di etica per fare la siesta. La fisica un cotal poco allettavami; ma il continuo con- Ri>:cantucciava. 38 Vittorio Al/ieri traslo con la lingua latina, e la mia totale ignoranza della studiata geometria, erano impedimenti invincibili ai miei progressi. Onde con mia perpetua vergogna confesserò per amor del vero, che avendo io studiato un anno intero la fisica sotto il celebre padre Beccaria \ neppure una definizione me n'è rimasta in capo; e niente affatto so né intendo del suo dottissimo corso su l'elettri- cità, ricco di tante nobilissime di lui scoperte. Ed al solito ac- cadde qui come mi era accaduto in geometria, che per effetto di semplice memoria, io mi portava benissimo alle ripetizioni, e riscuoteva dai ripetitori più lode che biasimo. Ed in fatti, in quell'inverno del 1763 lo zio si propose di farmi un regaluccio; il che non m'era accaduto mai; e ciò, in premio di quel che gli veniva detto, che io studiava cosi bene. Questo regalo mi fu an- nunziato tre mesi prima con enfasi profetica dal servitore Andrea ; dicendomi che egli sapeva di buon luogo che lo riceverei poi continuando a portarmi bene; ma non mi venne mai individuato cosa sarebbe. Questa speranza indeterminata, ed ingranditami dalla fantasia, mi riaccese nello studio, e rinforzai di molto la mia pappagallesca dottrina. Un giorno finalmente mi fu poi mostrato dal camerier dello zio, quel famoso regalo futuro; ed era una spada d'argento non mal lavorata. Me ne invogliai molto dopo averla veduta ; e sempre la stava aspettando, parendomi di ben meritarla; ma il dono non venne mai. Per quanto poi intesi, o combinai, in ap- presso, volevano che io la domandassi allo zio: ma quel mio carattere stesso, che tanti anni prima nella casa materna mi aveva inibito di chiedere alla nonna qualunque cosa volessi, sollecitato caldamente da lei di ciò fare, mi troncò anco qui la parola; e non vi fu mai caso che io domandassi la spada allo zio; e non l'ebbi. CAPITOLO SESTO Debolezza della mia complessione ; infermiti» continue : ed incapacità d'ogni esercizio, e massimamente del ballo, e perchè. Passò in questo modo anche quell'anno della fisica; ed in quel- l'estate il mio zio essendo stato nominato viceré in Sardegna, si dispose ad andarvi. Partito egli dunque nel settembre, e lascia- I O. B. Beccaria, monregalese (1716-1781), noto, oltre che pel suol stiirf! sull'elettricità, per la misurazione del grado torinese. La vita 39 tomi raccomandato agli altri pochi parenti, od agnati ch'io avtva in Torino, quanto ai miei interessi pecuniari rinunziò, o accu- raunò la tutela con un cavaliere suo amico ; onde in allora inco- minciai subito ad essere un poco più allargato' nella facoltà di spendere, ed ebbi per la prima volta una piccola mensualità fis- satami dal nuovo tutore; cosa, alia quale lo zio non avea voluto mai consentire; e che mi pareva, ed anche ora mi pare, sragio- nevolissima. Forse vi si opponeva quel servo Andrea, al quale spendendo egli per conto mio (e suo, credo ad un tempo) tor- nava più comodo di far delle note, e di tenermi così in maggiore dipendenza di lui. Aveva codesto Andrea veramente l'animo di un principe, quali ne vediamo ai nostri tempi non pochi, illustri anche quant'egli. Nel finire dell'anno 62, essendo io passato allo studio del diritto civile, e canonico; corso, che in quattr'anni con- duce poi lo scolare all'apice della gloria, alla laurea avvocatesca ; dopo alcune settimane legali, ricaddi nella malattia già avuta due anni prima, quello scoppio universale di tutta la pelle del cranio: e fu il doppio dell'altra volta, tanto la mia testa era insofferente di fare in se conserva di definizioni, digesti, e simili apparati dell'uno e dell'altro Gius': né saprei meglio assimilare lo stato fisico estemo di quel mio capo, che alla terra quando riarsa dal •^ole si screpola per tutti i versi, aspettando la benefica pioggia :ie la rimargini. Ma dal mio screpolìo usciva in copia un umore i scoso a tal segno, che questa volta non fu possibile ch'io sal- issi i capelli dalle odiose forbici ; e dopo un mese uscii dì quella sconcia malattia tosato ed imparruccato. Quest'accidente fu uno dei più dolorosi eh' io provassi in vita mia ; sì per la privazione dei capelli, che pel funesto acquisto di quella par- rucca, divenuta immediatamente lo scherno di tutti i compagni petulantissimi. Da prima io m'era messo a pigliarne af>ertamente le parti; ma vedendo poi ch'io non poteva a nessun patto salvar la parrucca mia da quello sfrenato torrente che da ogni parte assaltavala, e ch'io andava a rischio di perdere anche con essa me stesso, tosto mutai di bandiera, e presi il partito il»più disin- volto, che era di sparruccarmi da me prima che mi venisse fatto quell'affronto, e di palleggiare io stesso la mia infelice parrucca per l'aria, facendone ogni vitupero. Ed in fatti, dopo alcuni giorni, » Libero. * Il diritto civile e quello canonico. 40 Vittorio Alfieri sfogatasi l'ira pubblica in tal guisa, io rimasi poi la meno per- seguitata, e direi quasi la più rispettata, parrucca, fra le due o le tre altre che ve n'erano in quella stessa galleria. Allora im- parai, che bisognava sempre parere di dare spontaneamente, quello che non si potea impedire d'esserti tolto. In quell'anno mi erano anche stati accordati altri maestri; di cimbalo, e di geografia. E questa, andandomi molto a genio quel balocco della sfera e delle carte, l'aveva imparata piuttosto bene, e mista un pocolino alla storia, e massimamente all'antica. Il maestro, che me l'insegnava in francese, essendo egli della Val d'Aosta, mi andava anche prestando varj libri francesi, ch'io cominciava anche ad intendere alquanto ; e tra gli altri ebbi il Gi/-Blas\ che mi rapì veramente; e fu questo il primo libro ch'io leggessi tutto di seguito dopo V Eneide dei Caro; e mi di- vertì assai più. Da allora in poi caddi nei Romanzi, e ne lessi molti, come Cassandre", Almachilde^ etc, ed i più tetri e i più te- neri mi facevano maggior forza e diletto. Tra gli altri poi, Les Mémoires d'un homme de qualité^: eh' io rilessi almen dieci volte. Quanto al cimbalo poi, benché avessLuna passione smisurata per la musica, e non fossi privo di disposizioni naturali, con tutto ciò non vi feci quasi nessun progresso, fuorché di essermi sveltita la mano su la tastiera. Ma la musica scritta non mi vo- leva entrare in capo; tutto era orecchia in me, e memoria, e non altro. Attribuisco altresì la cagione di quella mia ignoranza in- vincibile nelle note musicali, all'inopportunità dell'ora in cui prendeva lezione, immediatamente dopo il pranzo; tempo che in ogni epoca della mia vita ho sempre palpabilmente visto essermi espressamente contrario ad ogni qualunque anche minima ope- razione della mente, ed anche alla semplice applicazione degli occhi su qualunque carta od oggetto. Talché quelle note musi- cali e le lor cinque righe così fitte e parallele mi traballavano davanti alle pupille, ed io dopo quell'ora di lezione mi alzava dal cimbalo che non ci vedeva più, e rimaneva ammalato e stu- pido per tutto il rimanente del giorno. Le scuole parimenti della scherma e del ballo, mi riuscivano > Histoire de Oil-Blas de Scintillane, romanzo di costumi di Alain-René Lesage (1715). a Romanzo di Oauthier dei Lacalprenède su la storia di Alessandro (1649). » Inclino a credere si tratti deW'Almahide, romanzo della Scndéry (1660). i Romanzo dell'abate Prévost dTxilcs (1697-1763), La vita 41 infruttuosissime; quella, perchè io era assolutamente troppo de- bole per poter reggere allo stare in guardia, e a tutte le attitu- dini di codest'arte; ed era anche il dopo pranzo, e spesso usciva dal cimbalo e dava di piglio alla spada; il ballo poi, perchè io per natura già lo abborriva, e vi si aggiungeva per piìi contra- rietà il maestro. Francese, nuovamente venuto di Parigi, che con una cert'aria civilmente scortese, e la caricatura perpetua dei suoi moti e discorsi, mi quadruplicava l'abborrimento innato ch'era in me per codest'arte burattinesca. E la cosa addò a segno, ch'io dopo alcuni mesi abbandonai affatto la lezione; e non ho mai saputo ballare neppure un mezzo Minué ' : questa sola parola mi ha sempre fin d'allora fatto ridere e fremere ad un tempo; che son i due effetti che mi hanno fatto poi sempre in appresso i Francesi, e tutte le cose loro, che altro non sono che un perpetuo e spesso mal ballato Minué-. Io attribuisco in gran parte a co- desto maestro di ballo quel sentimento disfavorevole, e forse anche un poco esagerato, che mi è rimasto nell'intimo del cuore, su la nazion francese, che pure ha anche delle piacevoli e ricer- cabili qualità. Ma le prime impressioni in quell'età tenera radi- cate, non si scancellano mai piìi, e difficilmente s'indeboliscono, crescendo gli anni: la ragione le va poi combattendo, ma bisogna sempre combattere per giudicare spassionatamente, e forse non ci si arriva. Due altre cose parimenti ritrovo, raccapezzando così le mie idee primitive, che m'hanno persin da ragazzo fatto essere antìgallo: l'una è, che essendo io ancora in Asti nella casa pa- terna, prima che mia madre passasse alle terze nozze, passò di quella città la duchessa di Parma, Francese di nascita, la quale andava o veniva di Parigi. Quella carezzata di lei e delle sue dame e donne, tutte impiastrate di quel rossaccio che usavano allora esclusivamente le Francesi, cosa ch'io non avea vista mai, mi colpì singolarmente la fantasia, e ne parlai per più anni, non potendomi persuadere dell'intenzione, né dell'effetto di un ornamento così bizzarro e ridicolo, e contro la natura delle cose; poiché quando, o per malattia, o per briachezza, o per altra ca- gione, un viso umano dà in codesto sconcio rossore, tutti se lo nascondono potendo, o mostrandolo fanno ridere o si fan compa- « Btilo francese, cfr, A. Moroni, / Minuetti. Spigolature storiche, Roma, tato. ' ' Dando questo ins^lusto giudizio, VA. ha fors*" in ircit? r" '"ìrf della Rivoluzione franrese, 42 Vittorio Alfieri tire. Codesti ceffi francesi mi lasciarono una lunga e profonda impressione di spiacevolezza, e di ribrezzo per la parte femminina di quella nazione. L'altro ramo di disprezzo che germogliava in me per costoro, era nato, che imparando poi la geografia tanti anni dopo, e vedendo su la carta quella grandissima diffe- renza di vastità e di popolazione che passava tra l'Inghilterra, o la Prussia e la Francia, e sentendo poi sempre dire delle nuove di guerra, che i Francesi erano battuti e per mare e per terra, aggiuntevi poi quelle prime notizie avute fin dall'infanzia, che i Francesi erano stati padroni della città d'Asti più volte ; e che in ultimo vi erano poi stati fatti prigionieri in numero di 6, o 7 mila e più, presi come dei vigliacchi senza far punto difesa', essendovisi portati, al solito, cosi arrogantemente e tirannica- mente prima di esserne scacciati: queste diverse particolarità, riunite poi tutte, e poste sul viso di quel mio maestro di ballo, della di cui caricatura e ridicolezza parlai già sopra, mi lascia- rono poi sempre in appresso nel cuore quel misto di abborri- mento e disprezzo per quella nazione fastidiosa. E certamente, chi ricercasse poi in se stesso maturo le cagioni radicali degli odj od amori diversi per gl'individui o per i corpi collettizj, o per i diversi popoli, ritroverebbe forse nella sua più acerba età i primi leggerissimi semi di tali affetti; e non molto maggiori, né diversi da questi eh' io ho di me stesso allegati. Oh, picciola cosa è pur l'uomo ! CAPITOLO SETTIMO Morte dello zio paterno. Liberazione mia prima. Ingresso nel primo appartamento dell'Accademia. Lo zio, dopo dieci mesi di soggiorno in Cagliari, vi morì. Egli era di circa 60 anni, ma di salute assai malandato, e sempre mi diceva prima di questa sua partenza per la Sardegna, che io non lo avrei più riveduto. Il mio affetto per lui era tiepidissima cosa; atteso che io di radissimo lo avea veduto, e sempre mosfratomisi severo, e duretto, ma non però mai ingiusto. Egli era un uomo stimabile per la sua rettitudine e coraggio: avea militato con di- » Sopra questi fatti v. D. Carutti, Storia del Regno di Carlo E/na- nuele IH, Torino, 1892. La vita 43 slinzione; aveva un carattere scolpito e fortissimo, e le qualità necessarie al ben comandare'. Ebbe anche fama di molto ingegno, alquanto però soffocato da una erudizione disordinata, copiosa e loquacissima, spettante la storia sì moderna che antica. Io non fui dunque molto afflitto di questa morte lontana dagli occhi, e già preveduta da tutti gli amici suoi, e mediante la quale io acquistava quasi pienamente la mia libertà, con tutto il suffi- ciente patrimonio paterno accresciuto anche dall'eredità non pic- cola di questo zio. Le leggi del Piemonte all'età dei 14 anni liberano il pupillo dalla tutela, e lo sottopongono soltanto al curatore, che lasciandolo padrone dell'entrate sue annuali, non gli può impedire legalmente altra cosa che l'alienazione degli stabili. Questo mio nuovo stato di padrone del mio in età di 14 anni, mi innalzò dunque molto le corna, e mi fece con la fantasia spaziare assai per iFvano. In quel frattempo mi era ancTìè staio folto il servitore àjo Andrea, per ordine del tutore; e giu- stamente, perchè costui si era dato sfrenatamente alle donne, al vino, e alle risse, ed era diventato un pessimo soggetto pel troppo ozio, e non avere chi lo invigilasse. A me aveva sempre usato mali termini, e quando era briaco, cioè 4, o 5 giorni per setti- mana, mi batteva per anche, e sempre poi mi maltrattava; e in quelle spessissime malattie eh' io andava facendo, egli, datomi da mangiare se n'andava, e mi lasciava chiuso in camera talvolta ,!-,! n-inzo fino^alPora di cena; la guai cosa pi^ d'ogni altra V a JL iion farmi Inrnar satin, pH a Irijìlira^Tf in mp gufile orni). Il malinconie che già avea sortite dal naturale mio tempe- ramento. Eppure, chi 'T crederebbe? piansi e sospirai per la per- dif^~3i codest'Andrea più e più settimane; e non mi potendo opporre a chi giustamente voleva licenziarlo, e me l'avca levato d'attorno, durai poi per più mesi ad andarlo io visitare ogni giovedì e domenica, essendo egli inibito di porre l piedi in Ac- cademia. Io mi facea condurre a vederlo dal nuovo cameriere che mi avevano dato, uomo piuttosto grosso, ma buono e di dolcissima indole. Oli somministrai anche per del tempo dei da- nari, dandogliene quanto ne aveva, il che non era molto: final- mente poi essendosi egli collocato in servizio d'altri, ed io distratto dal tempo, e dalla mutazione di scena per me dopo la morte di » Cfr. L. CiRRARio, Origine e profrresst dfllì Monarchia di Savoia, Fi- renze, IS09, p. 398. 44 Vittorio Alfieri mio zio, non ci pensai poi più. Dovendomi nei seguenti anni render conto in me stesso della cagione di quell'affetto mio sragione- vole per un sì tristo soggetto, se mi volessi abbellire, direi che ciò proveniva forse in me da una certa generosità di carattere : ma questa per allora non era la vera cagione : benché in appresso poi, quando nella lettura di Plutarco io cominciai ad infiammarmi dell'amor della gloria e della virtù, conobbi ed apprezzai, e pra- ticai anche potendo, la soddisfacentissima arte del rendere bene per male. Quel mio affetto per Andrea che mi avea pur dato tanti dolori, era in me un misto della forza abituale del vederlo da sett'anni sempre dintorno a me, e della predilezione da me concepita per alcune sue belle qualità; come la sagaci^à nel ca- pire, la sveltezza e destrezza somma nell'eseguire ; le lunghe storiette e novelle ch'egli m'andava raccontando, ripiene di spi- rito, di affetti, e d' imagini : cose tutte, per cui, passato lo sdegno delle durezze e vessazioni ch'egli mi andava facendo, egli mi sapea sempre tornare in grazia. Non capisco però, come abbor- rendo tanto per mia natura l'essere sforzato e malmenato, mi fossi pure avvezzato al giogo di costui. Questa riflessione in appresso mi ha fatti talvolta compatire alcuni principi, che senza essere affatto imbecilli si lasciavano pure guidare da gente che avea preso il sopravvento sovr'essi nell'adolescenza: età funesta, per la profondità delle ricevute impressioni. 11 primo frutto eh' io raccolsi dalla morte dello zio, fu di poter andare alla cavallerizza; scuola che sino allora mi era stata sempre negata, e ch'io desiderava ardentissimamente. Il priore dell'Accademia avendo saputa questa mia smaniosa brama d'im- parare a cavalcare, pensò di approfittarsene per mio utile ; onde egli pose per premio de' miei studj la futura equitazione, quand'io mi risolvessi a pigliare all'università il primo grado della scala dottoresca, chiamato il Magistero, che è un esame pubblico alla peggio dei due anni di logica, fisica, e geometria. Io mi vi indussi subito; e cercatomi un ripetitore a parte, che mi tornasse a nominare almeno le definizioni di codeste mal fatte scuole, in quindici o venti giorni misi assieme alla diavola una dozzina di periodi latini tanto da rispondere a quei pochi quesiti, che mi verrebbero fatti dagli esaminatori. Divenni dunque io non so come in meno d'un mese Maestro matricolato del- l'Arti, e quindi inforcai per la prima volta la schiena di un ca- vulio; arìo, nella quale divenni poi veramente maestro molti anni La vita 4S dopo. Mi trovavo allora essere di statura piuttosto piccolo e assai graciletto, e di poca forza nei ginocchi che sono il perno del cavalcare: con tutto ciò la volontà e la molta passione suppli- vano alla forza, e in breve ci feci dei progressi bastanti, massime nell'arte della mano, e dell'intelletto reggenti d'accordo, e nel conoscere e indovinare i moti e l'indole della cavalcatura. A questo piacevole e nobilissimo esercizio io fui debitore ben tosto della salute, della cresciuta, e d'una certa robustezza che andai acquistando a occhio vedente*, ed entrai si può dire in una nuova esistenza. Sepolto dunque lo Zio, barattato il tutore in curatore, fatto Maestro dell'Arti, liberato dal giogo di Andrea, ed inforcato un destriero, non è credibile quanto andassi ogni giorno più alzando la cresta. Cominciai a dire schiettamente e al priore, ed al cura- tore, che quegli studj della legge mi tediavano, che io ci perdeva il mio tempo, e che in una parola non li voleva continuare al- trimenti. Il curatore allora abboccatosi col governatore dell'Ac- cademia, conchiusero di farmi passare al primo appartamento, educazione molto larga, di cui ho parlato più sopra. Vi feci dunque il mio ingresso il dì 8 maggio 1763. In quel- l'estate mi ci trovai quasi che solo; ma nell'autunno si andò riempiendo di forestieri d'ogni paese quasi, fuorché Francesi; ed il numero che dominava era degli Inglesi. Una ottima tavola* signorilmente servita; molta dissipazione; pochissimo studio, il molto dormire, il cavalcare ogni giorno, e l'andar sempre più facendo a mio modo, mi avevano prestamente restituita e dupli- cata la salute, il brio e l'ardire. Mi erano ricresciuti i capelli, e sparruccatomi io mi andava vestendo a mio modo, e spendeva assai negli abiti, per isfoganni dei panni neri che per regola dell'Accademia impreteribile avea dovuti portare in quei cinque anni del Terzo e Secondo Appartamento di essa. Il Curatore andava gridando su questi troppo ricchi e troppi abiti; ma il Sarto sapendo ch'io poteva pagare mi faceva credito quanto i* volessi, e rivestiva credo anche sé a mie spese. Avuta l'eredità, e la libertà, ritrovai tosto degli amici, dei compagni ad ogni im- presa, e degli adulatori, e tutto quello insomma che vien coi > A vista d'occhio. » Nientemeno che sedid portate a pranzo, non comprese le frutta, ecc., • dieci a cena. {B.}. 46 Vittorio Alfieri danari, e fedelmente con essi pur se ne va. In mezzo a questo vortice nuovo e fervente, ed in età di anni 14 e mezzo, io non era con tutto ciò né discolo né sragionevole quanto avrei potuto e dovuto fors'essere. Di tempo in tempo avevo in me stesso dei taciti richiami a un qualche studio, ed un certo ribrezzo ed una mezza vergogna per l'ignoranza mia, su la quale non mi veniva fatto d'ingannare me stesso, né tampoco mi attentava di cercar d'ingannare gli altri. Ma non fondato in nessuno studio, non diretto da nessuno, non sapendo nessuna lingua bene, io non sapeva a quale applicazione darmi, né come. La lettura di molti romanzi francesi (che degli italiani leggibili non ve n'è) ; il con- tinuo conversare con forestieri, e il non aver occasione mai né di parlare né di sentir parlare italiano, mi andavano a poco a poco scacciando dal capo quel poco di tristo toscano ch'io avessi potuto intromettervi in quei due o tre anni di studj buffoni di umanità e rettoriche asinine. E sottentrava nel mio vuoto capo il francese a tal segno, che in un accesso di studio ch'io ebbi per due o tre mesi in quel prim'anno del primo appartamento, m'in- golfai nei 36 volumi della Storia ecclesiastica del Fleury, e li lessi quasi tutti con furore; e m'accinsi a farne anche degli estratti in lingua francese, e di'questi arrivai sino al libro diciottesimo: fatica sciocca, noiosa, e risibile, che pure feci con molta ostina- zione, ed anche con un qualche diletto, ma con quasi nessunis- simo utile. Fu quella lettura che cominciò a farmi cader di credito i preti', e le loro cose. Ma presto posi da parte il Fleury, e non ci pensai più. E que' miei estratti che non ho buttati sul fuoco sin a questi anni addietro, mi hanno fatto ridere assai quando li riscorsi un pocoliuo, circa venti anni dopo averli stesi. Dall' istoria ecclesiastica mi ringolfai nei romanzi, e rileg- geva molte volte gli stessi, tra gli altri, Les Mille et une Nuit^. Intanto, essendomi stretto d'amicizia con parecchi giovanotti della città che stavano sotto l'ajo, ci vedevamo ogni giorno, e si facevano delle gran cavalcate su certi cavallucci d'affitto, cose pazze da fiaccarcisi il collo migliaia di volte non che una; come quella di far a correre all' in giìi dall'Eremo di Camaldoli fin a Torino, ch'è una pessima selciata, erta a picco, che non l'avrei fatta poi neppure con ottimi cavalli per nessun conto ; e di cor- > Basii ricordare che i discorsi preliminari a quest'opera erano stati elo- giati dal Voltaire, s Nella traduzione francese di Antonio OallanJ {!7 Jr^tello maggiore. Era questa signorina' una brunetta piena di brio e di ; pTeitshmo col quale l'A. traduce la voce dialettale madamln, gio- vine signora. La vita 51 na certa protervia che mi facea grandissima forza. I sintomi di uella passione, di cui fio provato dappoi per altri oggetti così ingaraente tutte le vicende, si manifestarono in me allora nel eguente modo. Una malinconia profonda ed ostinata: un ricercar empre l'oggetto amato, e trovatolo appena, sfuggirlo: un non aper che le dire, se a caso mi ritrovava alcuni pochi momenti non solo mai, che ciò non mi veniva fatto mai, essendo ella assai trettamente custodita dai suoceri) ma alquanto in disparte con ssa: un correre poi dei giorni interi (dopo che si ritornò di illa) in ogni angolo della città, per vederla passare in tale o tal la, nelle passeggiate pubbliche del Valentino e Cittadella: un lon poterla neppure udir nominare, non che parlar mai di essa: d in somma tutti, ed alcuni più, quegli effetti sì dottamente e ffettuosamente scolpiti dal nostro divino maestro di questa divina >assione, il Petrarca. Effetti, che poche persone intendono, e po- hissime provano: ma a quei soli pochissimi è concesso l'uscir lalla folla volgare in tutte le umane arti. Questa prima mia iamma, che non ebbe mai conclusione nessuna, mi restò poi lun- gamente semiaccesa nel cuore, ed in tutti i miei lunghi viaggi atti poi negli anni consecutivi, io sempre senza volerlo, e quasi enza awedermene, l'avea tacitamente per norma intima d'ogni nio operare: come se una voce mi fosse andata gridando nel più icgreto di esso: Se tu acquisti tale, o tal pregio, tu potrai al itorno tuo piacer maggiormente a costei; e cangiate le circo- ;tanze, potrai forse dar corpo a quest'ombra. Nell'autunno dell'anno 1765 feci un viaggetto di dieci giorni 1 Genova col mio curatore; e fu la mia prima uscita dal paese, -avyl^deljnare mi rapì veramejite l'anima, e non .iaÌ,poteva mai laziare di contgoiprarlo. Cosi pure la posizione magnifica e pit- oresca di quella superba città, mi riscaldò molto la fantasia. E se o allora avessi saputa una qualche lingua, ed avessi avuti dei l>oeti per le mani, avrei certamente fatto dei versi : ma da quasi lue anni io non apriva più nessun libro, eccettuati di radissimo alcuni romanzi francesi, e qualcuna delle prose di Voltaire, che mi dilettavano assai. Nel mio andare a Genova ebbi un sommo piacere di rivedere la madre, e la città mia, di dove mancava fià da sette anni, che in quell'età paiono secoli. Tornato poi da Osnova, mi pareva di aver fatta una gran cosa, e d'aver visto Ma quanto io mi teneva di questo mio viaggio cogli amici ri dell'Accademia (benché non lo dimostrassi loro, per 52 Vittorio Alfieri non mortificarli), altrettanto poi mi arrabbiava e rimpiccioliva in faccia ai compagni di dentro, che tutti venivano di paesi lontani, come Inglesi, Tedeschi, Pollacchi, Russi, ecc.; ed a cui il mio viaggio di Genova pareva, com'era in fatti, una babbuinata^ E questo mi dava una frenetica voglia di viaggiare, e di vedere da me i paesi di tutti costoro. In quest'ozio e dissipazione continua, presto mi passarono gli ultimi diciotto mesi ch'io stetti nel primo appartamento. Ed es- sendomi io fatto inscrivere nella lista dei postulanti impiego nelle truppe sin dal prim'anno ch'io v'era entrato, dopo esservi stato tre anni, in quel maggio del 1766, finalmente fui compreso in una promozione generale di forse 150 altri giovanotti. E benché io da più d'un anno mi fossi intiepidito moltissimo in questa vocazione miritare, pure non avendo io ritrattata la mia petizione, mi convenne accettare; ed uscii Porta-insegna nel reggimento provinciale d'Asti. Da prima io aveva chiesto d'entrare nella ca- valleria, per l'amore innato dei cavalli; poi di lì a qualche tempo, aveva cambiata la domanda, bastandomi di entrare in uno di quei reggimenti provinciali, i quali in tempo di pace non si radu- nando all'insegne se non due volte l'anno, e per pochi giorni, lasciavano così una grandissima libertà di non far nulla, che era appunto la sola cosa ch'io mi fossi determinato di voler fare. Con tutto ciò, anche questa milizia di pochi giorni mi spiacque mol- tissimo; e tanto più, perchè l'aver avuto quell'impiego mi costrin- geva ad uscire dall'Accademia, dove io mi trovava assai bene, e ci stava altrettanto volentieri allora, quanto ci era stato male e a contragenio nei due altri appartamenti, e i primi diciotto mesi del primo. Bisognò pure ch'io m'adattassi, e nel corrente di quel maggio lasciai l'Accademia, dopo esservi stato quasi ott'anni. E nel settembre mi presentai alla prima rassegna del mio reggi- mento in Asti, dove compiei esattissimamente ogni dovere del mio impieguccio, abborrendolo*; e non mi potendo assolutamente adattare a quella catena di dipendenze gradate, che si chiama subordinazione; ed è veramente l'anima delia disciplina militare; ma non poteva esser l'anima mai d'un futuro poeta tragico. All'uscire dell'Accademia, aveva appigionato un piccolo ma gra- zioso quartiere nella casa stessa di mia sorella; e là attendeva a > Ridicola scimiotiatura. ' Cfr. O. RoBcinr, V. A. e il reggimento provinciale dì' Asti, In • la Stampa », Tot i. io, maggio 1902. La vita 53 spendere il più che potessi, in cavalli, superfluità d'oggi genere, e pranzi che andava facendo ai miei amici, ed ai passati com- pagini dell'Accademia. La smania di viaggiare, accresciutasi in me smisuratamente col conversare moltissimo con questi forestieri, m'indusse contro la mia indole naturale ad intelaiare un raggi- retto per vedere di strappare una licenza di viaggiare a Roma e a Napoli, per un anno. E siccome era troppo certa cosa, che in età di anni 17 e mesi ch'io allora mi aveva, non mi avrebbero mai lasciato andar solo, m'ingegnai con un ajo Inglese cattolico, che guidava un Fiammingo, ed un Olandese a far questo giro, e coi quali era stato già più d'un anno nell'Accademia, a vedere s'egli voleva anche incaricarsi di me, e così fare il sudetto viaggio noi quattro. Tanto feci insomma, che invogliai anche questi di avermi per compagno, e servitomi poi del mio cognato per otte- nermi dal re la licenza di partire sotto la condotta del sudetto ajo Inglese, uomo maturo, e di ottimo grido, finalmente restò fissata la partenza per i primi di ottobre di quell'anno. E questo fu il primo, e in seguito poi l'uno dei pochi raggiri ch'io abbia intrapresi con sottigliezza, e ostinazione di maneggio, per per- suadere quell'ajo, e il cognato, e più di tutti lo stitichissimo curatore. La cosa riusci, ma in me mi vergognava e irritava mol- tissimo di tutte le pieghevolezze, e simulazioni, e dissimulazioni che mi conveniva porre in opera per ispuntarla. Il re, che nel nostro piccolo paese di ogni piccolissima cosa s'ingerisce, non si trovava niente propenso ai viaggi de' suoi nobili, e molto meno poi di un ragazzo uscito allora del guscio, e che indicava un certo carattere. Bisognò insomma ch'io mi piegassi moltis- simo. Ma, grazie alla mia buona sorte, questo non mi tolse poi di rialzarmi in appresso interissiffio. E qui darò fine a questa seconda parte: nella quale m'avvedo benissimo che avendovi io intromesso con più minutezza cose forse anche più insìpide che nella prima, consiglierò anche il Lettore di non arrestarvisi molto, o anche di saltarla a pie pari ; poiché, a tutto restringere in due parole, questi otto anni della mia adolescenza altro non sono che infermità, ed ozio, ed ignoranza'. « Conclttsione indubbi in»nfe esagerata. EPOCA TERZA GIOVINEZZA ABBRACCIA CIRCA DIECI ANNI DI VIAGGI, E DISSOLUTEZZE CAPITOLO PRIMO Primo viag^gio. Milano, Hrenze, Romi. La mattina del dì quattro ottobre 1766, con mio indicibile tras, porto, dopo aver tutta notte farneticato in pazzi pensieri senzj; mai chiuder occhio, partii per quel tanto sospirato viaggio. Eram< una carrozzata dei quattro padroni, ch'io individuai, un caless< con due servitori, du' altri a cassetta della nostra carrozza, ed i mio cameriere a cavallo da corriere. Ma questi non era già que vecchiotto datomi a guisa di ajo tre anni prima, che quello l lasciai a Torino. Era questo mio nuovo cameriere, un Francese Elia, stato già quasi vent'anni col mio zio, e dopo la di lui mort in Sardegna, passato con me. Egli aveva già viaggiato col sud detto mio zio, due volte in Sardegna, ed in Francia, Inghilterr£ ed Olanda. Uomo di sagacissimo ingegno, di un'attività non ce mune, e che valendo egli solo più che tutti i nostri altri quattr servitori presi a fascio, sarà d'ora in poi l'eroe protagonist della commedia di questi miei viaggi; di cui egli si trovò imm< diatamente essere il solo e vero nocchiero, stante la nostra total incapacità di tutti noi altri otto, o bambini, o vecchi rimbambit La vita 55 La prima stazione fu di quasi quindici giorni in Milano. Avendo Io già visto Genova due anni prima, ed essendo abituato al bel- lissimo locale ' di Torino, la topografia milanese non mi dovea, né potea piacer niente. Alcune cose che vi sarebbero pur da ce- dersi, io o non vidi, o male ed in fretta, e da quell'ignorantis- simo e svogliato eh' io era d' ogni utile o dilettevole arte. E mi ricordo tra l'altre, che nella Biblioteca Ambrosiana, datomi in mano dal bibliotecario non so più quale manoscritto autografo del Petrarca, da vero barbaro Allobrogo, lo buttai là, dicendo che non me n'importava nulla. Anzi, in fondo del cuore, io ci aveva un certo rancore con codesto Petrarca ; perchè alcuni anni prima, quando io era filosofo, essendomi capitato un Petrarca alle mani, l'aveva aperto a caso da capo, da mezzo, e da piedi, e per tutto lettine, o compitati alcuni pochi versi, in ne^gun luogo aveva inteso nulla, né mai raccapezzato il senso; onde l'avea sentenziato, facendo coro coi Francesi e con tutti gli altri igno- ranti presuntuosi; e tenendolo per un seccatore, dicitor di ar- guzie e freddure, aveva poi così ben accolto i suoi preziosissimi manoscritti. Del resto, essendo io partito per quel viaggio d' un anno, senza pigliar meco altri libri che alcuni Viaggi d'Italia, e questi tutti in lingua francese, io mi avviava sempre più alla total perfezione della mia già tanto inoltrata barbarie. Coi compagni di viaggio si conversava sempre in francese, e così in alcune case milanesi dove io andava con essi, si parlava pur sempre francese; onde quel pochin pochino ch'io andava pur pensando e combinando nel mio povero capino, era pure vestito di cenci francesi; e al- cune letteruzze ch'io andava scrivendo, erano in francese; ed alcune memoriette ridicole ch'io andava schiccherando su questi miei viaggi, eran pure in francese: e il tutto alla peggio, non sapendo io questa linguaccia se non se a caso; non mi ricordando più di nessuna regola ove pur mai l'avessi saputa da prima; e molto meno ancora sapendo l'italiano, raccoglieva così il frutto dovuto della disgrazia primitiva del nascere in un paese anfibio, e della valente educazione ricevutavi. Dopo un soggiorno di due settimane in circa, si parti di Mi- lano. Ma siccome quelle mie sciocche Memorie sul viaggio fu- rono ben presto poi da me stesso corrette con le debite fiamme, t Edilizia bcUa, regolare, simmetrica, ecc. 56 Vittorio Alfieri non le rinnoverò io qui certamente, col particolarizzare oltre il dovere questi miei viaggi puerili, trattandosi di paesi tanto noti: onde, o nulla o pochissimo dicendo delle diverse città, ch'io, digiuno di ogni bell'arte, visitai come un Vandalo^, anderò par- lando di me stesso, poiché pure questo infelice tema, è quello che ho assunto in quest' opera. Per la via di Piacenza, Parma, e Modena, si giunse in pochi giorni a Bologna ; né ci arrestammo in Parma che un sol giorno, ed in Modena poche ore, al solito senza veder nulla, o prestis- simo e male quello che ci era da vedersi. Ed il mio maggiore, anzi il solo piacere ch'io ricavassi dal viaggio, era di ritrovarmi correndo la posta su le strade maestre e di farne alcune, e il più che poteva, a cavallo da corriere. Bologna, e i suoi portici e frati, non mi piacque gran cosa: dei suoi quadri non ne seppi nulla; e sempre incalzato da una certa impazienza di luogo, io era lo sprone perpetuo del nostro ajo antico, che sempre lo instigava a partire. Arrivammo in Firenze in fin d'ottobre; e quella fu la prima città, che a luoghi mi piacque, dopo la partenza di Torino; ma mi piacque pur meno di Genova, che aveva vista due anni prima. Vi si fece soggiorno per un mese; e là pure, sforzato dalla fama del luogo, cominciai a visitare alla peggio la Galleria, e il palazzo Pitti, e varie chiese; ma il tutto con molta nausea, senza nessun senso del bello ; massime in pittura ; gli occ]ji miei essendo molto ottusi ai colori : se nulla nulla gustava un po' più era la scoltura, e l'architettura anche più; forse era in me una reminiscenza del mio ottimo zio, 1' architetto. La tomba di Mi- chelangelo in Santa Croce fu una delle poche cose che mi fer- massero: e su la memoria di quell'uomo di tanta fama feci una qualche riflessione: e fin da quel punto sentii fortemente, che non riuscivano veramente grandi fra gli uomini, che gnpì pnrhig- simi che aveano lasciata alcuna c6Sir"stafcrile fatta da loro. Ma una tal rifrèssrónén[solà{àTinmèzz6~S" qUèll'^Tril'nieTrejrdissipazione di mente nella quale io viveva continuamente, veniva ad essere per l'appunto come si suol dire, una goccia di acqua nel mare. Fra le tante mie giovenili storture, di cui mi toccherà di arros- sire in eterno, non annovererò certamente come l'ultima quella di essermi messo in Firenze ad imparare la lingua inglese, nel breve soggiorno di un mese ch'io vi feci, da un maestruccio ^ Barbaro ignorante. La vita 57 Inglese che vi era capitato ; in vece di imparare dal vivo esempio dei beati Toscani a spiegarmi almeno senza barbarie nella loro divina lingua, ch'io balbettante stroppiava, ogni qual volta me ne doveva prevalere. E perciò sfuggiva di parlarla, il piìi che poteva: stante che la vergogna di non saperla potea pur qualche cosa in me: ma vi potea pure assai meno che la infingardag- gine del non volerla imparare. Con tutto ciò io mi era subito ripurgata la pronunzia di quel nostro orribile U lombardo, o francese, che sempre mi era spiaciuto moltissimo per quella sua magra articolazione, e per quella boccuccia che fanno le labbra di chi lo pronunzia, somiglianti in quell'atto moltissimo a quella risibile smorfia che fanno le scimmie, allorché favellano. E ancora adesso, benché di codesto U, da cinque e piìi anni ch'io sto in Fr.-incia ne abbia pieni e foderati gli orecchi, pure egli mi fa ridere ogni volta che ci bado; e massime nella recita teatrale,© camerale ' (che qui la recita è perpetua), dove sempre fra questi labbrucci contrattiche paiono sempre soffiare su la minestra bol- lente, campeggia principalmente la parola Nature*. In tal guisa io in Firenze, perdendo il mio tempo, poco ve- dendo, e nulla imparando, presto tediandomivi, rispronai l'an- tico nostro mentore, e si partì il dì primo dicembre alla volta di Lucca per Prato e Pistoia. Un giorno in Lucca mi parve un secolo ; e subito si riparti per Pisa. E un giorno in Pisa, benché mollo mi piacesse il Camposanto, mi parve anche lungo. E su- bito, a Livorno. Questa città mi piacque assai e perché somi- gliava alquanto a Torino, e per via del mare, elemento del quale io non mi saziava mai. Il soggiorno vi fu di otto o dieci giorni; ed io sempre barbaramente andava balbettando l'inglese, ed avea chiusi e sordi gli orecchi al toscano. Esaminando poi la ragione di una si stolta preferenza, ci trovai un falso amor proprio in- dividuale, che a ciò mi spingeva senza ch'io pure me ne avve- dessi. Avendo per piii di due anni vissuto con Inglesi; sentendo per tutto magnificare la loro potenza e ricchezza; vedendone la grande influenza politica: e per l'altra parte vedendo l' Italia tutta esser morta; gl'Italiani, divisi, deboli, avviliti e servi; io gran- > Nelle conversazioni dei salotti, dice l'A., i Francesi parlano come se recitassero. * L'A. ha qui nna punta d'ironia contro i cosi detti diritti naturali, le col teorie vennero elaborate specialmente in Francia nella seconda metà del '700. 58 Vittorio Alfieri demente mi vergognava d'essere, e di parere Italiano, e nulla delle cose loro non voleva né praticar, né sapere. Si partì di Livorno per Siena; e in quest'ultima città, benché il locale non me ne piacesse gran fatto, pure tanta è la forza del bello e del vero, ch'io mi sentii quasiché un vivo raggio che mi rischiarava ad un tratto la mente, e una dolcissima lusinga | agli orecchi e al cuore, nell' udire le più infime persone così ' soavemente e con tanta eleganza, proprietà e brevità favellare. Con tutto ciò non vi stetti che un giorno ; e il tempo della mia conversione letteraria e politica era ancora lontano assai : mi bi- sognava uscire lungamente d'Italia per conoscere ed apprezzar gl'Italiani. Partii dunque per Roma, con una palpitazione di cuore quasiché continua, pochissimo dormendo la notte, e tutto j il dì ruminando in me stesso e il San Pietro, e il Coliseo, ed il Panteon; cose che io aveva tanto udite esaltare; ed anche far- neticava non poco su alcune località della storia romana, la quale (benché senza ordine e senza esattezza) così presa in grande mi era bastantemente nota ed in mente, essendo stata la sola istoria ] ch'io avessi voluto alquanto imparare nella mia prima gioventù. Finalmente, ai tanti di dicembre dell'anno 1766 vidi la sospi- rata porta del Popolo; e benché l'orridezza e miseria del paese da Viterbo in poi mi avesse fortemente indisposto, pure quella superba entrata mi racconsolò, ed appagommi l'occhio moltis- simo. Appena eramo discesi alla piazza di Spagna dove si al- bergò, subito noi tre giovanotti, lasciato l'ajo riposarsi, comin- ciammo a correre quel rimanente di giorno, e si visitò alla sfug- gita, tra l'altre cose, il Panteon. I miei compagni si mostravano sul totale più maravigliati di queste cose, di quel che lo fossi io. Quando poi alcuni anni dopo ebbi veduti i loro paesi, mi sou potuto dare facilmente ragione di quel loro stupore assai mag- giore del mio. Vi si stette allora otto giorni soli, in cui non si fece altro che correre per disbramare quella prima impaziente curiosità. Io preferiva però molto di tornare fin due volte il giorno a San Pietro, al veder cose nuove. E noterò, che quel- l'ammirabile riunione di eose sublimi non mi colpì alla prima quanto avrei desiderato e creduto, ma successivamente poi la maraviglia mia andò sempre crescendo; e ciò, a tal segno, ch'io non ne conobbi ed apprezzai veramente il valore se non se molti anni dopo, allorché stanco della misera magnificenza oltramon- tana, mi venne fatto di dovermi trattenere in Roma degli anni. La vita 59 CAPITOLO SECONDO Continuazione dei viaggi, liberatomi anche dell'ajo. Incalzavaci frattanto l' imminente inverno ; e più ancora incal- zava io il tardissimo ajo, perchè si partisse per Napoli, dove s'era fatto disegno di soggiornare per tutto il carnevale. Par- timmo dunque coi vetturini, sì perchè allora le strade di Roma a Napoli non erano quasi praticabili, sì per via del mio came- riere Elia, che a Radicofani essendo caduto sotto il cavallo di posta, si era rotto un braccio, e ricoverato poi nella nostra car- rozza aveva moltissimo patito negli strabalzi di essa, venendo così fino a Roma. Molto coraggio e presenza di spirito e vera fortezza d' animo aveva mostrato costui in codesto accidente ; poiché rialzatosi da sé, ripreso il ronzino per le redini, si avviò soletto a piedi sino a Radicofani distante ancora più d' un miglio. Quivi fatto cercare un chirurgo, mentre Io stava aspettando si fece sparare la manica dell' abito, e visitandosi il braccio da sé, trovatolo rotto, si fece tenere ben saldamente la mano di esso stendendolo quanto più poteva, e coli 'altra che era la man dritta se lo riattò sì perfettamente, che il chirurgo, giunto quasi nel tempo stesso che noi sopraggiungevamo con la carrozza, lo trovò rassettato a guisa d'arte in maniera che senza più altrimenti toc- carlo, subito lo fasciò, e in meno di un'ora noi ripartimmo, col- locando il ferito in carrozza, il quale pure con viso baldo e for- tissimo pativa non poco. Giunti ad Acquapendente si trovò rotto il timone della carrozza ; del che trovandoci noi tutti impiccia- tissimi, cioè noi tre ragazzi, il vecchio ajo, e gli altri quattro stolidi servitori, quel solo Elia col braccio al collo, tre ore dopo la rottura, era più in moto, e più efficacemente di noi tutti ado- peravasi per risarcire il timone; e così bene diresse quella prov- visoria rappezzatura, che in meno di du' altre ore si ripartì, e l'infermo timone ci trascinò senz'altro accidente poi sino a Roma. Io mi son compiaciuto d'individuare questo fatto episodico, come tratto caratteristico di un uomo di molto coraggio e gran presenza di spirito, molto più che al suo umile stato non parea convenirsi. Ed in nessuna cosa mi compiaccio maggiormente, che nel lodare ed ammirare quelle semplici virtù di tempera- mento, che ci debbono pur tanto far piangere sovra i pessimi governi, che le trascurano, o le temono e le soffocano. 60 Vittorio Alfieri Si arrivò dunque a Napoli la seconda festa del Natale, con un tempo quasi di primavera. L'entrata da Capo di China per gli Studj e Toledo, mi presentò quella città in aspetto della piìi lieta e popolosa eh' io avessi veduta mai fin allora, e mi rimarrà sempre presente. Non fu poi lo stesso, quando mi toccò di albergare in una bettolaccia posta nel più bujo e sozzo chiassuolo della città : il che fu di necessità, perchè ogni pulito albergo ritrovavasi pieno zeppo di forestieri. Ma questa contrarietà mi amareggiò assai quel soggiorno, stante che in me la località lieta o no della casa, ha sempre avuto una irresistibile influenza sul mio pueri- lissimo cervello, sino alla più innoltrata età. In pochi giorni per mezzo del nostro ministro* fui introdotto in parecchie case; e il carnevale, sì per gli spettacoli pubblici, che per le molte private feste e varietà d'oziosi divertimenti, mi riusciva brillante e piacevole più ch'altro mai ch'io avessi ve- duto in Torino. Con tutto ciò in mezzo a quei nuovi e continui tumulti, libero interamente di me, con bastanti danari, d'età diciott'anni, ed una figura avvenente, io ritrovava per tutto la sazietà, la noja, il dolore. Il mio più vivo piacere era la musica burletta del Teatro Nuovo ; ma sempre pure quei suoni, ancorché dilettevoli, lasciavano ngll'animo mio una lunghissima romba di malinconia; e mi si venivancdestando a centina7ànè idee le più Jùriesfè è lugubri, nelle quali mi compiaceva non poco, e me le andava poi ruminando soletto alle sonanti, spiagge dT Cfifàjà^ e di J?oftici. Con parecchi giovani signori Napoletani avea fatto conoscenza, amicizia con niuno: la mia natura ritrosa anzi che no mi inibiva di ricercare; e portandone la viva impronta sul viso, ella inibiva agli altri di ricercar me. Così delle donne, alle quali per natura era moltissimo inclinato, non mi piacendo se non le modeste, io non piaceva pure che alle sole sfacciate: il che mi facea rimaner sempre col cuor vuoto. Oltre ciò, l'arden- tissima voglia ch'io sempre nutriva in me di viaggiare oltre i monti, mi facea sfuggire di allacciarmi in nessuna catena d'amore; e così in quel primo viaggio uscii salvo da ogni rete. Tutto il giorno io correva in quei divertentissimi calessetti a veder le cose più lontane; e non per vederle, che di nulla avea curiosità e di nessuna intendeva, ma per fare la strada, che dell'andare non mi saziava mai, ma immediatamente mi addolorava lo stare. > L'ambasciatore sardo. La vita 61 Inbodotto a corte, benché quel re, Ferdinando VI, fosse allora in età di 15, o 16 anni, gli trovai pure una total somiglianza di contegno con i tre altri sovrani eh' io avea veduti fin allora ; ed erano il mio ottimo re Carlo Emanuele, vecchione; il duca di Modena, governatore in Milano; e il granduca di Toscana Leo- poldo, giovanissimo anch' egli. Onde intesi benissimo fin da quel punto, che i principi tutti non aveano fra loro che un solo viso, e che le corti tutte non erano che una sola anticamera". In co- desto mio soggiorno di Napoli intavolai il mio secondo raggiro per mezzo del nostro ministro di Sardegna, per ottenere dalla corte di Torino la pernrissione di lasciare il mio ajo, e di con- tinuare il mio viaggio da me. Benché noi giovanotti vivessimo in perfetta armonia, e che l'ajo non più a me che ad essi cagio- nasse il minimo fastidio, tuttavia siccome per le gite da una al- l'altra città bisognava pure combinarci, per muovere insieme, e siccome quel vecchio era sempre irresoluto, mutabile, e indugia- tore, quella dipendenza mi urtava. Convenne dunque ch'io mi piegassi a pregare il ministro di scrivere in mio favore a Torino, e di testimoniare della mia buona condotta e della intera capa- cità mia di regolarmi da me stesso, e di viaggiar solo. La cosa mi riuscì con mia somma soddisfazione, e ne contrassi molta gra- titudine col ministro, il quale avendomi preso anche a ben vo- lere, fu il primo che mi mettesse in capo ch'io dovrei tirarmi innanzi a studiar la politica per entrare nell'aringo diplomatico. La cosa mi piacque assai; e mi parve allora, che quella fosse di tutte le servitù la men serva; e ci rivolsi il pensiero, senza però studiar nulla mai. Limitando il mio desiderio in me stesso, non l'esternai con chi che sia, e mi contentai di tenere frattanto una condotta regolare e decente per tutto, superiore forse alla mia età. Ma in questo mi serviva la natura mia assai più ancora che il volere; essendo io stato sempre grave di costumi e di modi (senza impostura però), ed ordinato, direi, nello stesso disordine; ed avendo quasi sempre errato sapendolo. Io viveva frattanto in tutto e per tutto ignoto a me stesso; non j^f mi credendo vera capacità per nessuna cosa al mondo; non avendo nessunissimo impulso deciso, altro che alla continua ma- linconia; non ritrovando mai pace né requie, e non sapendo pur mai quello che io mi desiderassi. Obbedendo ciecamente alla > Erano doi tutte piene di servi. 62 Vittorio Alfieri natura mia, con tutto ciò io non la conosceva né studiava per niente ; e soltanto molti anni dopo mi avvidi, che la mia infelicità proveniva soltanto dal bisogno, anzi necessità ch'era in me di avere ad un tempo stesso il cuore occupato da un degno amore, e la mente da un qualche nobile lavoro ; e ogni qual volta l'una delle due cose mi mancò, io rimasi incapace dell'altra, e sazio e infastidito e oltre ogni dire angustiato. Frattanto, per mettere in uso la mia nuova indipendenza totale, appena finito il carnovale volli assolutamente partirmene solo per Roma, atteso che il vecchio, dicendo di aspettar lettere di Fiandra, non fissava nessun tempo per la partenza dei suoi pupilli. Io, im- paziente di lasciar Napoli, di rivedere Roma; o, per dir vero, impa- zientissimo di ritrovarmi solo e signore di me in una strada maestra, lontana trecento e più miglia dalla mia prigione natia ; non volli differire altrimenti, e abbandonai i compagni: ed in ciò feci bene, perchè in fatti poi essi stettero tutto l'aprile in Napoli, e non furono per ciò più in tempo per ritrovarsi all'Ascensione in Venezia, cosa che a me premeva allora moltissimo. CAPITOLO TERZO Proseguimento dei viaggi. Prima mia avarizia. Giunto a Roma, previo * il mio fidato Elia, azzeccai a pie delle scalere della Trinità de' JVlonti un grazioso quartierino molto gajo e pulito, che mi racconsolò della sudiceria di Napoli. Stessa dis- sipazione, stessa noja, stessa malinconia, stessa smania di rimet- termi in viaggio. E il peggio era, stessissima ignoranza delle cose le più svergognanti chi le ignora ; e maggiore ogni giorno l'insensibilità per le tante belle e grandiose cose di cui Roma ridonda; limitandomi a quattro e cinque delle principali che sempre ritornava a vedere. Ogni giorno poi capitando dal conte di Rivera ministro di Sardegna, degnissimo vecchio, il quale ancorché sordo non mi veniva pur punto a noja, e mi dava degli ottimi e luminosi consigli; mi accadde un giorno che si trovò da lui su una tavola un bellissimo Virgilio in folio, aperto spalan- cato al sesto delP Eneide. Quel buon vecchio vedendomi entrare, accennatomi d'accostarmi, cominciò ad intuonare con entusiasmo 1 Avendo spedito innanzi. La vita t)3 quei beUissimi versi per Marcello così rinomati e saputi da tutti'. Ma io, che quasi più punto non gli intendeva, benché gli avessi e spiegati e tradotti e saputi a memoria circa sei anni prima, mi vergognai sommamente e me ne accorai per tal modo, che per pili giorni mi ruminai il mio obbrobrio in me stesso, e non ca- pitai piìi dal conte. Con tutto ciò la ruggine sovra il mio intel- letto si andava incrostando sì densa, e tale di giorno in giorno sempre piii diveniva, che assai più tagliente scalpello ci volea che un passaggiero rincrescimento, a volemela estirpare. Onde passò quella sacrosanta vergogna senza lasciare in me orma nessuna per allora, e non lessi altrimenti né Virgilio, né alcun altro buon libro in nessuna lingua, per degli anni parecchi. In questa mia seconda dimora in Roma fui introdotto al Papa, che era allora Clemente XHI, bel vecchio, e di una veneranda maestà; la quale aggiunta alla magnificenza locale del Palazzo di Montecavallo', fece sì che non mi cagionò punto ribrezzo la solita prosternazione e il bacio del piede, benché io avessi letta la storia ecclesiastica', e sapessi il giusto valore di quel piede. Per mezzo poi del predetto conte di Rivera, io intavolai e riuscii il mio terzo raggiro presso la corte patema di Torino, per otte- nere la permissione di un secondo anno di viaggi in cui desti- nava di vedere la Francia, l'Inghilterra e l'Olanda; nomi che mi suonavano maraviglia e diletto nella mia giovinezza inesperta. E anche questo terzo raggiretto mi riuscì ; onde, ottenuto quel- l'anno più*, per tutto il 1768 in circa io mi trovava in piena libertà e certezza di poter correre il mondo. Ma nacque allora una piccola difficoltà, la quale mi contristò lungamente. Il mio Curatore, col quale non si era mai entrato in conti, e che non mi avea mai fatto vedere in chiaro con esattezza quello ch'io m'avessi d'entrata; dandomi parole diverse ed ambigue, ed ora accordandomi danari, ora no; mi scrisse in quell'occasione del- l'ottenuta permissione, che pel second'anno mi avrebbe sqpinu- nistrata una credenziale di 1500 zecchini', non me ne avendo dati che soli 1200 pel primo viaggio. Questa sua intimazione mi sbi- gottì assai, senza però scoraggirmi. Udendo io sempre mento- » Entidf, VI, w. 855 e «egg. * Quirinale. » Cfr. Ep. II, cap. vii. * In più. * Circa 15.000 lire delle nostre. 64 Vittorio Al/ieri vare la gran carezza dei paesi oltramontani, mi riusciva assai dura cosa di dovermivi trovare sprovvisto, e di esservi costretto a far delle triste figure. Per altra parte poi, io non mi arrischiava di scrivere di buon inchiostro allo stitico curatore, perchè a quel modo l'avrei subito avuto contrario; e m'avrebbe intuonato la parola Re, la quale in Torino nei più interni affari domestici si suole sempre intrudere, fra il ceto dei nobili ' ; e gli sarebbe stato facilissimo di divulgarmi per discolo e scialacquatore, e di farmi come tale richiamar subito in patria. Non feci dunque nessuna querela col curatore, ma presi in me la risoluzione di risparmiare quanti più danari potrei in quel primo viaggio dai 1200 zecchini già assegnatimi, per così accrescere quanto più potrei ai 1500 da esigersi, e che mi pareano scarsissimi per un anno di viaggi oltramontani. In questo modo io per la prima volta, da un giusto e piuttosto largo spendere, ristrettomi alla meschinità, provai un doloroso accesso di sordida avarizia. Ed andò questa tant'oltre, che non solo non andava più a visitare nessuna delle curiosità di Roma per non dare le mancie, ma anche al mio fidato e diletto Elia, procrastinandolo d'un giorno in un altro, io venni a negargli i danari del suo salario e vitto, a segno ch'egli mi si protestò ch'io lo sforzerei a rubarmeli per campare. Allora, di mal animo, glie li diedi. Rimpicciolito così di mente e di cuore, partii verso i primi di maggio alla volta di Venezia; e la mia meschinità mi fece pren- dere il vetturino, ancorché io abborrissi quel passo mulare: ma pure il divario tra la posta e la vettura essendo si grande, io mi vi sottoposi, e mi avviai bestemmiando, lo lasciava nel calesse Elia col servitore, e me n'andava cavalcando un umile ronzino, che ad ogni terzo passo inciampava ; onde io faceva quasi tutta la strada a piedi, conteggiando così sottovoce e su le dita della mano quanto mi costerebbero quei dieci o dodici giorni di viaggio ; quanto un mese di soggiorno in Venezia; quanto sarebbe il risparmio all'uscir d'Italia, e quanto questa cosa, e quanto ques- t'altra; e mi logorava il cuore e il cervello in cotali sudicierie. Il vetturino era patteggiato da me sino a Bologna per la via di Loreto; ma giunto con tanta noja e strettezza d'animo in Lo- reto, non potei più star saldo all'avarizia e alla mula; e non volli più continuare di quel mortifero passo. E qui la nascente 1 Cfr. Ep. IV, cip. VI. tji vita ÓS gelata avarìzia rimase vinta e sbeffata dalla bollente indole e dalla giovanile insofferenza. Onde, fatto a dirittura un grosso sbilancio, sborsai al vetturino quasi che tutto il pattuito impor- tare di tutto il viaggio di Roma a Bologna, e piantatolo in Lo- reto, me ne partii per le poste tutto riavutomi; e l'avarizia di- ventò d'allora in poi un giusto ordine, ma senza spilorceria. Bologna non mi piacque nulla più, anzi meno al ritorno che non mi fosse piaciuta all'andare; Loreto non mi compunse di divozione nessuna; e non sospirando altro che Venezia, della quale avea udito tante maraviglie già fin da ragazzo, dopo un solo giorno di stazione in Bologna proseguii per Ferrara. Passai anche questa città senza pur ricordarmi, eh' ella era la patria e la tomba di quel divino Ariosto' di cui pure avea letto in parte il poema con infinito piacere, e i di cui versi erano stati i primi primissimi che mi fossero capitati alle mani. Ma il mio povero intelletto dormiva allora di un sordissimo sonno, e ogni giorno più s' inrugginiva quanto alle lettere. Vero è però, che quanto alla scienza del mondo e degli uomini, io andava acquistando non poco ogni giorno senza avvedermene, stante la gran quan- tità di continui e diversi quadri morali che mi venivan visti e osservati giornalmente. Al ponte di Lagoscuro m'imbarcai su la barca Corriera di Venezia ; e mi vi trovai in compagnia d'alcune ballerine di teatro, di cui una era bellissima; ma questo non mi alleggerì punto la noja di quell'imbarcazione, che durò due giorni e una notte, sino a Chiozza, atteso che codeste ninfe faceano le Susanne, e che io non ho mai tollerato la simulata virtù. Ed eccomi finalmente in Venezia. Nei primi giorni l'inusitata località mi riempi di maraviglia e diletto; e me ne piacque per- fino il gergo, forse perchè dalle commedie del Goldoni ne avea sin da ragazzo contratta una certa assuefazione d'orecchio; ed in fatti quel dialetto è grazioso, e manca soltanto di maestà. La folla dei forestieri, la quantità dei teatri, ed i molti divertimenti e feste che, oltre le solite farsi per ogni fiera dell' Ascensa', si davano in quell'anno a contemplazione^ del duca di Wirtemberg, e tra l'altre la sontuosa regata, mi fecero trattenere in Venezia sino a mezzo Giugno, ma non mi tennero perciò divertito. La > L'Arìosto veramente nacque a Reggio. * Ascensione: una delle magj^ìori feste veneziane. • In onore. '>■ - Classici Italiani. N. 2. gg Vittorio Alfieri ^ solita malinconia, la noja. e i:Jnsofferenza dello «tare, tHomin- ? ciav^no a darmi i loro aspri morsi tosto cheJajiovitadfifilLPg- \ getti trovavasiammorzata.-passaTpIu giorni in Venezia sohssimo lenza uscir di casaresenza pure far nulla che stare alla fmest a, dlTove andava facendo dei segnuzzi. e qualche breve d.alo- ghetto con una signorina che mi abitava di faccia; e il rima- nente del giorno lunghissimo, me lo passava o dormicchiando, "ruminando non saprei che, o il più spesso anche piangendo, C-nèTdi che. sen_z^maMr^va^pace,.nèlnv^^ \ pffi=g'^eIircagiorrrdiriirin^S^^ MoUi anni ^ l^ssèiWnimTmrp^-meglio. mi convinsi poi che questo era ì; me un accesso periodico d'ogni anno nella primavera alle volte in aprile, alle volte anche sino a tut o giugno; e p u o meno durevole e da me sentito, secondo che il cuore e la men e :i":mbinavano essere allora più o meno vuoti ed oz.o^ Nel o istesso modo ho osservato poi, paragonando il mio intelletto ad uteccellente barometro, che io mi trovava avere ««gegno e ca "cita al comporre più o meno, secondo il più « -ri peso del- l'aria; ed una totale stupidità nei gran venti solstmali ed equi noziali; ed una infinitamente minore perspicacita la sera che la nLina'; e assai più fantasia, entusiasmo, e attitudine al inven tare nel sommo inverno e nella somma state che non nelle sta iToni di mezzo. Questa mia materialità, che credo pure in gran par" e sere comune un po' più un po' meno a tutti g i uomin di fibra sottile, mi ha poi col tempo scemato evannuUato ogni o gog lo del poco bene ch'io forse andava alle volte operando Tme'anche mi ha in gran parte diminuito la vergogna del an o niù male che avrò certamente fatto, e massime ne 1 arte mia, Ssendomi pienamente convinto che non era quasi in me U pò- tere in quei dati tempi fare altrimenti. CAPITOLO QUARTO Fine del viaggio d'Italia; e mio primo arrivo a Parigi. r., . ro v'iagpoToUraLn.ì, no,, ne cavai neppur. U m,n,™o La vita 67 basti il dire con mio infinito rossore, che né pure l'Arsenale. Non presi nessunissima notizia, anco delle più alla grossa, su quel governo che in ogni cosa differisce da ogni altro: e che, se non buono, dee riputarsi almen raro, poiché pure per tanti secoli ha sussistito con tanto lustro, prosperità, e quiete. Ma io, digiuno sempre d' ogni beli' arte, turpemente vegetava, e non altro. Finalmente partii di Venezia al solito con mille volte assai maggior gusto che non c'era arrivato. Giunto a Padova, ella mi spiacque molto; non vi conobbi nessuno dei tanti professori di vaglia, i quali desiderai poi di conoscere molti anni dopo: anzi, allora al solo nome di professori, di studio, e di Università, io mi sentiva rabbrividire. Non mi ricordai (anzi neppur lo sapeva), che poche miglia distante da Padova giacessero le ossa del nostro gran luminare secondo, il Petrarca* ; e che m' importava egli di lui, io che mai non l'avea né letto, né inteso, né sentito, ma appena appena preso fra le mani talvolta, e, non v' intendendo nulla, buttatolo? Perpetuamente così spronato e incalzato dalla noja e dall'ozio, passai Vicenza, Verona, Mantova, Milano, e in fretta in furia mi ridussi in Genova, città che da me veduta alia sfuggita qualch'anni prima, mi avea lasciato un certo desiderio di sé. Io aveva delle lettere di raccomandazione in quasi tutte le -uddette città, ma per lo piìi non le ricapitava, o se pur lo fa- ceva, il mio solito era di non mi lasciar più vedere; fuorché quelle persone non mi venissero insistentemente a cercare, il che non accadea quasi mai, e non doveva in fatti accadere. Questa sì fatta selvatichezza era in me occasionata in parte da fie- riezza e inflessibilità d' ineducato carattere, in parte da una renitenza naturale e quasi invincibile al veder visi nuovi. Ed era pur cosa impossibile davvero di andar sempre cangiando paese senza che mi si cangiassero le persone. Avrei voluto per la parte del cuore convivere sempre con la stessa gente; ma sempre in luogo diverso. In Genova' dunque, non vi essendo allora il ministro di Sar- degna, e non conoscendovi altri. dhe^ il mio banchiere, non tardai anche molto a tediarmi ; e già aveva fissato di partirne verso il fine di giugno, allorché un giorno quel banchiere, uomo di mondo > Cfr. Ep. IV, cap. viii. » V.: A. Nmi, Ornava e V. Alfieri, in e Giornale storico e letterario delU Liguria >. IV. 7«9. 68 Vittorio Alfieri e di garbo, v^tiittnmj^ a visitare, e trovatomi così solitario^el- vatico «malinconico, volle sapere come io passassi il mio tempo ; e Vid^domi senza libri, senza jconoscenze, senza occupazione altra che"di- StSTé^nBàTcónr, e correre tutto il giorno perje vie di Oeììó^^irrdiT^iiggi^ pel lido in barchetta; gli prese forse una certa compassione di me e della mia giovinezza, e volle assolutamente portarmi da un cavaliere suo amico. Questi era il signor Carlo Negroni, che avea passata gran parte della sua vita in Parigi, e che vedendomi cotanto invogliato di andarvi, me ne disse quel vero e schietto, al quale non prestai fede se non se alcuni mesi dopo, tosto che vi fui arrivato. Frattanto quel garbato signore mi introdusse in parecchie case delle primarie; e all'occasione del famoso banchetto che si suol dare dal Doge nuovo egli mi servì d'introduttore e compagno. E là fui quasi quasi sul punto d'innamorarmi d'una gentil signora, la quale mi si mostrava bastantemente benigna. Ma per altra parte sma- niando io di correre il mondo e di abbandonar l' Italia, Amore non potè per quella volta afferrarmi, ma me la serbo per non molto dopo. ,i j- »„ Partito finalmente per mare in una feluchetta^ alla volta di An- tibo pareva a me d'andare all' Indie. Non mi era mai scostato da terra più che poche miglia nelle mie passeggiate marittime; ma allora, alzatosi un venticello favorevole, si prese il largo; successivamente poi rinforzò tanto il vento, che fattosi perico- loso fummo costretti di pigliar porto in Savona, e soggiornarvi due dì per aspettare buon tempo. Questo ritardo mi nojo ed af- flisse moltissimoj e non uscii mai di casa, neppure per visitare -Quella famosissima Madonna di Savona. Io non voleva più asso- lutamente vedere né sentir nulla dell'Italia; onde ogni istante di più che mi ci dovea trattenere, mi pareva una dura difalca- zione dei tanti diletti che mi aspettavano in Francia. Frutto in me di una sregolata faptasja^ che tutti i benU-lHitU-J^ali mi ingrandiva^SiHp^TSitreiii^d^rpi^a"^^ ^""^^^^ P°' ^'' uni e gli altri, e princìFalmente i BèhTT all'atto pratico poi non mi parevano nulla. Giunto pure una volta in Antibo, e sbarcatovi, parca che tutto mi racconsolasse l'udire altra lingua, il vedere altri usi, altro 1 Nome di nave, passato poi al cappello di cui ancora fanno uso gli uffi- ciali di marina. [R.\. La vita 69 fabbricato, altre faccie; e benché tutto fosse piuttosto diverso in peggio che in meglio, pure mi dilettava quella piccola varietà. Tosto ripartii per Tolone; e appena in Tolone volli ripartir per Mar- siglia, non avendo visto nulla in Tolone, città la cui faccia mi dispiacque moltissimo. Non così di Marsiglia, il cui ridente aspetto, le nuove, ben diritte e pulite vie, il bel corso, il bel porto, e le leggiadre e proterve' donzelle, mi piacquero sommamente alla prima ; e subito mi determinai di starvi un mesetto, per lasciare sfogare anche gli eccessivi calori del luglio, poco opportuni al viaggiare. Nel mio albergo v'era giornalmente tavola rotonda, onde io trovandomi aver compag^nia a pranzo e cena, senza es- sere costretto di parlare (cosa che sempre mi costò qualche sforzo, sendo di taciturna natura), io passava con soddisfazione le altre ore del giorno da me. E la mia taciturnità, di cui era anche in parte cagione una certa timidità che non ho mai vinta del tutto in appresso, si andava anche raddoppiando a quella tavola, at- tesa la costante garrulità dei Francesi, i quali vi si trovavano di ogni specie; ma i più erano uffiziali, o negozianti. Con nessuno però di essi né amicizia contrassi ne famigliarità, non essendo io in ciò mai stato di natura liberale ne facile. Io li stava bensì ^'^coltando volentieri, benché non v'imparassi nulla; ma lo ascol- re é una cosa che non mi ha costato mai pena, anche i più j.iocchi discorsi, dai quali si apprende tutto quello che non va detto. Una delie ragioni che mi aveano fatto desiderare maggiormente la Francia, si era di poterne seguitatamente godere il teatro. Io avea veduto due anni prima in Torino unacompagnia di comici traricesi, e per tutta un'estate l'aveva assiduamente praticata; onde molte delle principali tragedie, e quasi tutte le più celebri commedie, mi erano note. Io debbo però dire pel vero, che sì in Torino che in Francia; sì in quel primo viaggio, come nel secondo fattovi due anni e più dopo; non mi cadde mai nel- l'animo, né in |>ensiero pure, ch'io volessi o potessi mai scri- vere delle composizioni teatrali. Onde io ascoltava le altrui con attenzione si, ma senza intenzione nessuna; e, eh 'è più, senza sentirmi nessunissimo impulso al creare ; anzi sul totale mi di- »i]3ÌX4_assai_piùJacoinmediaj di quello che uu^ toccisséla~Tra- gedia, ancorché per natura mia fossi tanto più inclinato al pianto « Or. Ep. Ili, ctp. I. 70 Vittorio Al/ieri che al riso. Riflettendovi poi in appresso, mi parve che l'una delle principali ragioni di questa mia indifferenza per la tra- gedia, nascesse dall'esservi in quasi tutte le tragedie francesi delle scene intere, e spesso anche degli atti, che dando luogo a personaggi secondarli mi raffreddavano la mente ed il cuore assaissimo, allungando senza bisogno l'azione, o per meglio dire interrompendola. Vi si aggiungeva poi, che l'orecchio mio, an- corché io non volessi essere Italiano, pur mi serviva ottimamente malgrado mio, e mi avvertiva della noiosa e insulsa uniformità di quel verseggiare a pariglia a pariglia di rime^, e i versi a mezzi a mezzi ^, con tanta trivialità di modi, e sì spiacevole na- salità di suoni: onde, senza ch'io sapessi pur dire il perchè, essendo quegli attori eccellenti rispetto ai nostri iniquissimi; essendo le cose da essi recitate per lo più ottime quanto all'af- fetto, alla condotta, e ai pensieri; io con tutto ciò vi andava provando una freddezza di tempo in tempo, che mi lasciava mal soddisfatto. Le tragedie che mi andavano più a genio, erano la Fedra ^, l'Alzira, il Maometto* e poche altre. Oltre il teatro, era anche uno de' miei divertimenti in Niar- siglia il bagnarmi quasi ogni sera nel mare. Mi era venuto tro- vato un luoghetto graziosissimo ad una certa punta di terra posta a man dritta fuori del porto, dove sedendomi su la rena con le spalle addossate a uno scoglio ben altetto che mi toglieva ogni vista della terra da tergo, innanzi ed intorno a me non vedeva altro che mare e cielo; e così fra quelle due immensità abbellite anche molto dai raggi del sole che si tuffava nell'onde, io mi pa^avartm^of^^didelizie fantasticaudo ; e quivi avrei com- poste molte poesie, se io avessi saputo scrivere o in rima o in prosa in una lingua qual che si fosse. Ma tediatomi pure anche del soggiorno di Marsiglia, perchè ogni cosa presto tedia gli oziosi; ed incalzato ferocemente dalla frenesia di Parigi; partii verso il 10 d'agosto, e più come fug- gitivo che come viaggiatore, andai notte e giorno senza posarmi sino a Lione. Non Aix col suo magnifico e ridente passeggio; non Avignone, già sede papale, e tomba della celebre Laura; non Valchiusa, stanza già sì gran tempo del nostro divino Pe- > A coppie di rime. « Perchè l'alessandrino consta di due settenari. » Di Racine. « Entrambi di VoltairCi La vita 71 trarca; nulla mi potea distornare dall'andar dritto a guisa di saetta in verso Parigi. In Lione la stanchezza mi fece trattenere due notti e un giorno; e ripartitone con lo stesso furore, in meno di tre giorni per la via della Borgogna mi condussi in Parigi. CAPITOLO QUINTO Primo soggiorno in Parigi. Era, non ben mi ricordo il dì quanti di agosto, ma fra il 15, e il 20, una mattinata nubilosa, fredda e piovosa; io lasciava quel bellissimo cielo di Provenza e d'Italia; e non era mai ca- pitato fra sì fatte sudicie nebbie ; massimamente in agosto : onde l'entrare in Parigi pel sobborgo miserrimo di San Marcello, e il progredire poi quasi in un fetido fangoso sepolcro nel sobborgo di San Germano, dove andava ad albergo, mi serrò sì forte- mente il cuore ch'io non mi ricordo di aver provato in vita mia, per cagione sì piccola, una più dolorosa impressione. Tanto affrettarmi, tanto anelare, tante pazze illusioni di accesa fantasia, per poi inabissarmi in quella fetente cloaca. Nello scendere al- l'albergo, già mi trovava pienamente disingannato; e se non era la stanchezza somma, e la non picciola vergogna che me ne sa- rebbe ridondata, io immediatamente sarei ripartito. Neil' andar poi successivamente dattorno per tutto Parigi, sempre piti mi andai confermando nel mio disinganno. L'umiltà e barbarie del fabbricato; la risibile pompa meschina delle poche case che pre- tendono a palazzi; il sudiciume e goticismo delle chiese; la van- dalica struttura dei teatri d'allora; e i tanti e tanti e tanti oggetti spiacevoli che tutto dì mi cadeano sott' occhio, oltre il più amaro di tutti, le pessimamente architettate faccie impiastrate* delle bruttissime donne ; queste cose tutte non mi venivano poi abba- stanza rattemperate dalla bellezza dei tanti giardini, dall'eleganza e frequenza degli stupendi passeggi pubblici, dal buon gusto e numero infinito di bei cocchi, dalla sublime facciata del /.(^uvr^, ' dagli innumerabili e quasi tutti buoni spettacoli^ e da altre sì fatte cose. « Cfr. Ep. Il, c«p. VI. * Antica residenza reale; ora sede di musei unici forse al mondo. • leafrali. 72 Vittorio Alfieri Continuava intanto con incredibile ostinazione il mal tempo, a segno che da 15 e più giorni d'agosto ch'io aveva passati in Parigi, non ne aveva ancora salutato il sole. Ed i miei giudizj morali, più assai poetici che filosofici, si risentivano sempre non poco dell' inIIùéffzr'deiratmosfefa7~Quella prima impressione di Pixigi mi éi scolpì sì fortemente nel capo, che ancora adesso (cioè 23 anni dopo), ella mi dura negli occhi e nella fantasia, ancorché in molte parti la ragione in me la combatta e condanni. La Corte stava in Compiegne, e ci si dovea trattenere per tutto il settembre; onde non essendo allora in Parigi l'Ambasciatore di Sardegna per cui aveva delle lettere, io non vi conosceva anima al mondo, altri che alcuni forestieri già da me incontrati e trattati in diverse città d' Italia. E questi neppure conosceano nessuna onesta persona^ in Parigi. Dunque così passava io il mio tempo fra i passeggi, i teatri, le ragazze di mondo, e il dolore quasi che continuo: e così durai sino al fin di novembre, tempo in cui da Fontainebleau- si restituì l'Ambasciatore a dimora in Parigi. Introdotto io allora da esso in varie case, principalmente degli altri Ministri esteri, dall'Ambasciatore di Spagna dove c'era un Fjiraoncino*, mi posi per la prima volta a giuocare. Ma senza notabile perdita né vincita mai, ben presto mi tediai anche del giuoco, come d'ogni altro mio passatempo in Parigi; onde mi determinai di partirne in gennaio per Londra ; slulo di Parigi, di cui non conoscea pure altro che le strade; e sul totale già molto raffredd.ato nella smania di veder cose nuove ; tutte sempre trovandole di gran lunga inferiori, non che agli enti immagi- nar] ch'io mi era andati creando nella fantasia, ma agli stessi oggetti reali già da ma veduti nei diversi luoghi d'Italia: talché in Londra poi terminai d'imparare a ben conoscere e prezzare e Napoli, e Roma, e Venezia, e Firenze. Prima ch'io partissi per Londra, avendomi proposto l'Amba- sciatore di presentarmi a Corte in Versailles*, io accettai per una certa curiosità di vedere una Corte maggiore delle già vedute da me sin allora, benché fossi pienamente disingannato su tutte. Ci fui pel capo d'anno del 1768, giorno anche più curioso at- ' Francesismo : honnétes Rcns, persone di cìvil condizione. * Come Compiegne, castello reale di soggiorno estivo, riservato alle cacce. * Faraone, giuoco d'azzardo molto in voga ne' '700. - Il diminutivo sfa ad indicare che si giocava moderatamente. [Cj. 1 Residenza abituale della Corte, La vita 73 tese le varie funzioni che vi si praticano. Ancorché io fossi pre- venuto, che il re non parlava ai forestieri comuni, e che certo poco m' importasse di una tal privazione, con tutto ciò non potei inghiottire il contegno giovesco di quel regnante, Luigi XV, il quale squadrando l'uomo presentatogli da capo a piedi, non dava segno di riceverne impressione nessuna; mentre se ad un gigante si dicesse: « Ecco ch'io gli presento una formica; » egli pure guardandola, o sorriderebbe, o direbbe forse : e Oh che piccolo animaluzzo! » o se anche il tacesse, lo direbbe il di lui viso per esso. Ma quella negativa di sprezzo non mi afflisse poi più allorquando pochi momenti dopo vidi che il re andava spen- dendo la stessa moneta delle sue occhiate sopra degli oggetti tanto più importanti che non m'era io. Fatta una breve pre- ghiera fra due suoi Prelati, di cui l'uno, se ben mi ricordo, era cardinale, il re si avviò per andare alla Cappella, e fra due porte gli si fecero incontro il Preposto della Mercanzia, primo uffi- ziale della Municipalità di Parigi, e gli balbettò un complimen- tuccio d'uso pel capo d'anno. Il taciturno sire gli rispose con un'alzata di testa: e rivoltosi ad uno dei suoi cortigiani che lo seguivano, domandò dove fossero rimasti tes Echevins^, che sono i consueti accoliti del suddetto Preposto. Allora una voce corti- gianesca uscita così a mezzo dalla turba di essi, facetamente disse: lls soni restés embotirbés^. Rise tutta la corte, e lo stesso Monarca sorrise, e passò oltre verso la messa che lo aspettava. La incostante fortuna poi voile, che in poco più di vent'anni io vedessi in Parigi nel Palazzo della Città un altro Luigi re rice- vere assai più benignamente un altro assai diverso complimento fattogli da altro Preposto sotto il titolo di Maire, il dì 17 Luglio 1789 ed erano allora rimasti embourbés i cortigiani nel venir di Versailles a Parigi, benché fosse di fitta estate: ma il fangosa quella strada era fino a quel punto fatto perenne. E di aver visto tal cosa ne loderei forse Dio, se non temessi, e credessi pur troppo, che gli effetti e influenza di questi re plebei', siano per essere ancor più funesti alla Francia ed al mondo, che quelli dei re capetini. > Oli Scabinì. * Son rimasti Impantanati. * Oli uomini delU Rivoluzione. 74 Vittorio Alfieri CAPITOLO SESTO Viaggio in Inghilterra e in Olanda. Primo intoppo amoroso. Partii dunque di Parigi verso il mezzo gennaio, in compagnia di un cavaliere mio paesano, giovane di bellissimo aspetto, di età circa dieci o dodici anni più avanzato di me, di un certo ingegno naturale; ignorante, quanto me; riflessivo, assai meno, e più amatore del gran mondo che conoscitore o investigatore degli uomini. Egli era cugino del nostro Ambasciatore in Pa- rigi, e nipote del Principe di Masserano allora Ambasciatore di Spagna in Londra, in casa del quale egli doveva alloggiare. Benché io non amassi gran fatto di legarmi di compagnia per viaggio, pure per andare a un determinato luogo e non più, m ci accomodai volentieri. Questo mio nuovo compagno era di un umore assai lieto e loquace, onde con vicendevole soddisfazione io taceva e ascoltava, egli parlava e lodavasi; essendo egli for- temente innamorato di sé, per aver piaciuto molto alle donne: e mi andava annoverando con pompa i suoi trionfi amorosi, che io stava a sentire con diletto, e senza invidia nessuna. La sera all'albergo, aspettando la cena, giuocavamo a scacchi, ed egli sempre mi vinceva, essendo stato io sempre ottusissimo a tutti i giuochi. Si fece un giro più lungo per Lilla, e Douay, e Sant'Omero, per renderci a Calais; ed era il freddo sì ecces- sivo, che in un calesse stivatissimo coi cristalli, ed inoltre un candelotto che ci tenevamo acceso, ci si agghiacciò in una notte il pane, ed il vino stesso; e guftst'errpssn mi rallegrava, perchè -^ io per natura poco gradisco le cose di mezzo. Lasciate finalmente le rive della Francia, appena sbarcavamo a Douvres, che quel freddo si trovò scemato per metà, e non trovammo quasi punta neve fra Douvres e Londra. Quanto mi era spiaciuto Parigi al primo aspetto, tanto mi piacque subito e l'Inghilterra, e Londra massimamente. Le strade, le osterie, i cavalli, le donne, il ben essere universale, la vita e l'attività di quell'isola, la pulizia e comodo delle case benché picciolissime, il non vi trovare pezzenti, un moto perenne di danaro e d' in- dustria sparso egualmente nelle province che nella capitale; tutte queste doti vere ed uniche di quel fortunato e libero paese, La vita 75 mi rapirono l'animo a bella prima, e in due altri viaggi olire quello eh' io vi ho fatti finora, non ho variato mai piìi di pa- rere, troppa essendo la differenza tra l' Inghilterra e tutto il ri- manente dell'Europa' in queste tante diramazioni della pubblica felicità, provenienti dal miglior governo. Onde, benché io allora non ne studiassi profondamente la costituzione, madre di tanta prosperità, ne seppi però abbastanza osservare e valutare gli ef- fetti divini. In Londra essendo molto maggiore la facilità per i forestieri di essere introdotti nelle case, di quel che non sia in Parigi; io, che a quella difficoltà parigina non avea mai voluto piegarmi per ammollirla, perchè non mi curo di vincere le difficoltà da cui non me ne ridonda niun bene, mi lasciai allora per qualche mesi strascicare da quella facilità, e da quel mio compagno di viaggio, nel vortice del gran mondo. Contribuì anche non poco ad in- frangere la mia naturale rusticità e ritrosia la cortese e paterna amorevolezza verso di me del Principe di Masserano, Ambascia- tore di Spagna, ottimo vecchio appassionatissimo dei Piemon- tesi, essendo il Piemonte la sua patria, benché il di lui padre si fosse già traspiantato in Ispagna. Ma dopo circa tre mesi, avve- dendomi che in quelk_^£glÌ£L.£_££UUL.£-ie&tini_ÌQ_jiii_ci— S£CCà^ purtroppo, e niente hnparavaci, scambiatami allora la parte, in vece di recitare da cavaliere nella veglia, mi elessi di far da coc- chiere alla porta di essa, e incarrozzava e scarrozzava di qua e di là per tutto Londra il mio bel Ganimede compagno, a cui solo lasciava la gloria dei trionfi amorosi; e mi era ridotto a far si bene e disinvoltamente il mio servizio di cocchiere, che anche di alcuni di quei combattimenti a timonate che usano tra j cocchieri inglesi all'uscire del Renetawgh^, e dei Teatri, ne uscii con un qualche onore, senza rottura di legno né danno dei ca- valli. In tal guisa dunque terminai i miei divertimenti di quel- l'inverno, col cavalcare quattro o cinqu'ore ogni mattina, e stare a cassetta due o tre ore ogni sera a gtiidare, per qualunque tempo facesse. Nell'aprile poi col mio solito compagno si fece una scorsa per le' più belle province d'Inghilterra. Si andò a Portsmouth e Salsbury, a Bath, Bristol, e si tornò per Oxford a Londra. Il paese mi piacque molto, e l'armonia delle cose di- L'anKlomania è sentimento molto diffuso nella trconda meti del '70Q. rj,r,.i.,,Th p,-jr(-o di Londra. 76 Vittorio Alfieri verse, tutte concordanti in quell' isola al massimo ben essere di tutti, m'incantò sempre più fortemente; e fin d'allora mi nascea il desiderio di potervi stare per sempre a dimora; non che gli individui me ne piacessero gran fatto (benché assai più dei Fran- cesi, perchè più buoni e alla buona), ma il locai del paese, i semplici costumi, le belle e modeste donne e donzelle, e sopra tutto l'equitativo' governo e la vera libertà che n'è figlia: tutto questo me ne faceva affatto scordare la spiacevolezza del clima, la malinconia che sempre vi ti accerchia; e la rovinosa carezza del vivere. Tornato poi da quel giretto che mi avea rimesso su le mosse, io già di bel nuovo mi sentiva incalzato dal furore dell'andare e con gran pena differii ancora sino ai primi di giugno la mia partenza per l'Olanda. E allora poi, per la via di Harwich im- barcatomi per Helvoetlvys, con un rapidissimo vento in dodici ore vi approdai. La Olanda è nell'estate un ameno e ridente paese; ma mi sa- rebbe piaciuta anche più, se l'avessi visitata prima dell' Inghil- tena; atteso che quelle stesse cose che vi si ammirano, popola- zione, ricchezza, lindura, savie leggi, industria ed attività somma, tutte vi si trovano alquanto minori che in Inghilterra. Ed in fatti poi, dopo molti altri viaggi e molta più esperienza, i due soli paesi dell'Europa che mi hanno sempre lasciato desiderio di sé, sono stati l'Inghilterra e l'Italia; quella in quanto l'arte ne ha per così dire soggiogata e trasfigurata la natura; questa in quanto la natura sempre vi é robustamente risorta a fare in mille di- versi modi vendetta dei suoi spesso tristi e sempre inoperosi governi. Nel mio soggiorno nell' Haja, che riuscì assai più lungo che non avea disegnato, io incappai finalmente nell'amore, che mai fin allora non mi avea potuto raggiungere né afferrare. Una gentil signorina, sposa da un anno, piena di grazie naturali, di modesta bellezza, e di una soave ingenuità, mi toccò vivissima- mente nel cuore ; ed il paese essendo piccolo, e poche le distra- zioni, nel rivederla io assai più spesso che non avrei voluto da prima, tosto poi mi venni a dolere di non poterla vedere abba- stanza. Mi trovai preso, senza quasi avvedermene, in una ter- ribil maniera; talché già stava ruminando in me stesso niente » Equo, giusto, La vita 77 meni» che di non mi muover mai piìi né vìvo né morto dall' Haja, persuadendomi che mi sarebbe impossibilissima cosa di vivere senz essa. Apertosi il mio indurito cuore agli strali d'Amore, egli avea ad un tempo stesso dato adito alle dolci insinuazioni dell'amicizia. Ed era il mio nuovo amico, il signor Don losè D'Acunha, ministro allora di Portogallo in Olanda. Egli era uomo di mólto ingegno e più originalità, di una bastante col- tura, e di un ferreo carattere; magnanimo di cuore, di animo bollente ed altissimo. Una certa simpatia fra le nostre due taci- turnità ci avea già quasi allacciati vicendevolmente, senza che ce ne avvedessimo: la franchezza poi e il calore dei nostri due animi ben tosto ebbe operato il di più. Io dunque mi trovava felicissimo nell' Haja, dove per la prima volta in vita mia mi occorreva di non desiderare altra cosa al mondo nessuna, oltre l'amica, e l'amico. Atp;>nt^ \q ^H amim, riamato da entrambi i soggetti, traboccava da ogni parte gli affetti, parlando dell'amata, all'amico, e dell'amico all'amala; e gustava così dei piaceri vi- vissimi incomparabili, e fino a quel punto ignoti al mìo cuore, benché tacitamente pur sempre me li fosse egli andato richie- dendo, e additando come in confuso. Mille savi consigli mi dava continuamente quel degnissimo amico; e quello massimamente, di cui non perderò mai la memoria, si fu del farmi con destrezza ed efficacia arrossire della mia stupida oziosa vita, del non mai aprir un libro qualunque, dell'ignorar tante cose, e più che altro i nostri, pur tanti e si ottimi, italiani poeti ed i più distinti (an- corché pochi) prosatori e filosofi. Tra questi l' immortai Niccolò Machiavelli, di cui null'altro sapeva io che il semplice nome, oscurato e trasfigurato da quei pregiudizi con cui nelle nostre educazioni ce lo deffiniscono senza mostrarcelo, e senza averlo ì detrattori di esso né Ietto, né inteso se pur mai visto l' hanno. L'amico D'Acunha me ne regalò un esemplare, che ancora con- servo', e che poi molto lessi, e alcun poco postillai, ma dopo molti e molti anni. Una stranissima cosa però (la quale io notai molto dopo, ma che allora vivamente sentii senza pure osser- varla) si era, che io non mi sentiva mai ridestare in mente e nel cuore un certo desiderio di studj ed un certo impeto ed effer- vescenza d'idee creatrici, se non se in quei tempi in cui mi tro- vava il cuore fortemente occupato d'amore; il quale, ancorché k > E «i trova ogtp nella biblioteca del Museo Fabre in Montpellier. 78 Vittorio Alfieri mi distornasse da ogni mentale applicazione, ad un tempo stesso me ne invogliava: onde io non mi teneva mai tanto capace di riuscire in un qualche ramo di letteratura, che allorquando avendo un oggetto caro ed amato mi parca di potere a quello tributare anco i frutti del mio ingegno. Ma quella mia felicità olandese non mi durò gran tempo. Il marito della mia donna, era un ricchissimo individuo, il di cui padre era stato governatore di Batavia ; egli mutava spessissimo luogo, ed avendo recentemente comprata una baronia negli Sviz- zeri, voleva andarvi a villeggiare in quell'autunno. Nell'agosto egli fece colla moglie un viaggetto all'acque di Spa ; ed io dietro loro, non essendo egli gran fatto geloso. Nel tornare poi di Spa verso l'Olanda, si venne insieme sino a Mastricht, e là mi fu forza lasciarla, perchè ella dovea andar in villa con la di lei madre, mentre il marito andava egli solo verso la Svizzera. Io non conosceva la di lei madre, e non v'era né pretesto né mezzo decente e plausibile per intromettermi in casa altrui. J^adesta prima separazione mi spaccò veramente il cuore ; ma rimanevaci pure ancora una qualche speranza di rivederci. Ed in fatti, tor- nato io all' Haja, e partito il marito per la Svizzera, di lì a pochi giorni ricompari l'adorata donna nell' Haja. La mia contentezza fu somma, ma fu un lampo momentaneo. Dopo dieci giorni, in cui veramente mi tenni ed era beato sopra ogni uomo, non sen- tendosi ella il cuore di dirmi qual giorno dovesse ripartire per la villa, né avendo io il coraggio di domandarglielo; una mat- tina ad un tratto mi venne a vedere l'amico D'Acunha, e nel dirmi ch'ell'era sf orzatamente dovuta partire, mi diede una sua letterina che nii colpì a morte, benché tutta spirasse affetto ed f ingenuità Dell'annunziarmi l'indispensabile necessità in cui si \ trovava, di non poter ptuèénza" scandalo differire la di lei par- tenza alla volta del marito, che le avèa ìngiuntoUrraggrùngétTo. L'amicò soavemente ag^tangeva in~vo'cè, clienón'Vesséndo ri- medio, bisognava dar luogo alla necessità ed alla ragione. Non sarei forse reputato veridico, se io volessi annoverare tutte le frenesie dell'addolorato disperato mio animo. A ogni conto voleva^ assoluISmèìTteTTforiré.'Tna non articolai però mai tal parola a nessuno; e fingendomi ammalato perché l'amico mi lasciasse feci chiamare il chirurgo perchè mi cavasse sangue; venne e me lo cavai'. Uscito appena il chirurgo, io finsi di voler 1 Feci cavare. La vita 79 dormire, e chiusomi fra le cortine del lette/ io stava qualche mi- nuti fra me ruminando a quello ch'io stava per fare, poi prin- cipiai a sfasciare la sanguigna, avendo fermo in me di cosi dis- sanguarmi e perire. Ma quel non raeyo sagace che fido Elia, che mi vedeva in tale violento stato, e che anche dall'amico era stato addottrinato prima di lasciarmi, simulando che io lo avessi chiamato mi tornò alla sponda del letto rialzando la cortina ad un tratto: onde io sorpreso e vergognoso ad un tempo, forse anche pentito o mal fermo nel mio giovenile proposto, gli dissi che la fasciatura mi s'era disfatta; egli finse di crederlo, e me la rifasciò, né piìi mi volle perder di vista un momento. Ed anzi, fatto di nuovo cercar l'amico, egli corse da me, ed ambedue quasi mi sforzarono ad alzarmi da letto, e l'amico mi volle por- tare a casa sua, dove mi vi trattenne per più giorni, nei quali mai non mi abbandonò. Il mio dolore era cupo e taciturno; o sia che mi vergognassi, o che mi diffidassi^j Montaigne, 11 quale visitò l' Italia e ne conobbe la letteratura, lasciò nei suoi Essais (1580) un'opera die per lo scetticismo assoluto, bonario e indulgente, tornò di moda nel secolo XVIll. La vita 85 d'Amore. E mi era a questa difesa un fidissimo usbergo il pra- ticare il rimedio commendato da Catone'. Io avrei in quel sog- giorno di Vienna potuto facilmente conoscere e praticare il ce- lebre poeta Metastasi©, nella di cui casa ogni giorno il nostro ministro, il degnissimo conte di Canale, passava di molte ore la sera in compagnia scelta di altri pochi letterati, dove si leggeva seralmente alcuno squarcio di classici o greci, o latini, o italiani. E quell'ottimo vecchio conte di Canale, che mi affezionava, e moltissimo compativa i miei perditempi, mi propose piìi volte d'introdurmivi. Ma io, oltre all'essere di natura ritrosa, era anche tatto ingolfato nel francese, e sprezzava ogni libro ed autore italiano. Onde quell'adunanza di letterati di libri classici mi parea dover essere una fastidiosa brigata di pedanti. Si aggiunga, che io avendo veduto il Metastasi©^ a Schoenbrunn nei giardini imperiali fare a Maria Teresa la genuflessioncella di uso, con una faccia sì servilmente lieta e adulatoria, ed io giovenilmente plu- tarchizzando, mi esagerava talmente il vero in astratto, che io non avrei consentito mai di contrarre né amicizia né familiarità con una Musa appigionata o venduta all'autorità despotica da me si caldamente abborrita. In tal guisa io andava a poco a poco assumendo il carattere di un salvatico pensatore ; e queste dispa- rate accoppiandosi poi con le passioni naturali all' età di vent'anni e le loro conseguenze naturalissime, venivano a formar di me un tutto assai originale e risibile. Proseguii nel settembre il mio viaggio verso Praga e Dresda, dove mi trattenni da un mese; indi a Berlino, dove dimorai al- trettanto. All'entrare negli stati del gran Federico, che mi par- vero la continuazione di un solo corpo di guardia, mi sentii rad doppiare e triplicare l'orrore per queir infame mestier militare*, infamissima e sola base dell'autorità arbitraria, che sempre è il necessario frutto di tante migliaia di assoldati satelliti. Fui pre- sentato al re. Non mi sentii nel vederlo alcun moto né di ma- raviglia, né di rispetto, ma d' indegnazione bensì e di rabbia: moti che si andavano in me ogni giorno afforzando e moltipli- cando alla vista di quelle tante e poi tante diverse cose che non istanno come dovrebbero stare, e che essendo false si usurpano pure la faccia e la fama di vere. II conte di Finch, ministro del » Cfr, Orazio, Satire, I, 2, vv. 31-35. « Il qutle fu poeta Cesareo, o di corte, ietto Carlo VI, poi con Mari» Teresa. • Per «imili Ire dell'A. v. Della Tirannide, I, vu, e U satira La Milizia. 86 Vittorio Alfieri re, il quale mi presentava, mi domandò perchè io, essendo pure in servizio de! mio re, non avessi quel giorno indossato l'uni- forme. RiSi)osigli : perchè in quella corte mi parea ve ne fossero degli uniformi abbastanza. Il re mi disse quelle quattro solite parole di uso; io l'osservai profondamente, ficcandogli rispetto- samente gli occhi negli occhi ; e ringraziai il cielo di non mi aver fatto nascer suo schiavo. Uscii di quella universa! caserma prus- siana verso il mezzo novembre, abborrendola quanto bisognava. Partito alla volta di Amburgo, dopo tre giorni di dimora, ne ripartii per la Danimarca. Giunto a Copenhagiien ai primi di de- cembre, quel paese mi i)iacque bastantemente, perchè mostrava una certa somiglianza coli' Olanda; ed anche v'era una certa at- tività, commercio, ed industria, come non si sogliono vedere nei governi pretti monarchici: cose tutte, dalle quali ne ridonda un certo ben essere universale, che a primo aspetto previene' chi arriva, e fa un tacito elogio di chi vi comanda: cose tutte, di cui neppur una se ne vede negli Stati prussiani ; benché il gran Federico vi comandasse alle lettere e alle arti e alla prosperità, di fiorire sotto all'uggia" sua. Onde la principal ragione per cui non mi dispiacea Copenhaguen si era il non esser Berlino né Prussia: paese, di cui niun altro mi ha lasciato una più spiace- vole e dolorosa impressione, ancorché vi siano, in Berlino mas- simamente, molte cose belle e grandiose in architettura. Ma quei perpetui soldati, non li posso neppur ora, tanti anni dopo, in- goiare senza sentirmi rinnovare lo stesso furore che la loro vista mi cagionava in quel punto. In queir inverno mi rimisi alcun poco a cinguettar italiano con il ministro di Napoli in Danimarca, che si trovava essere pisano; il conte Catanti, cognato del celebre primo ministro in Napoli, marchese Tanucci, già professore nell'Università pisana. Mi di- lettava molto il parlare e la pronunzia toscana, massimamente paragonandola col piagnisteo nasale e gutturale del dialetto da- nese che mi toccava di udire per forza, ma senza intenderlo, la Dio grazia. Io malamente mi spiegava col prefato conte Catanti, quanto alla proprietà dei termini, e alla brevità ed efficacia delle frasi, che è somma nei Toscani; ma quanto alla pronunzia di quelle mie parole barbare italianizzate, eli' era bastantemente pura I • Favorevolmente. « Ombra malefica. [B.\. La vtta 87 e toscana; stante che io deridendo sempre tutte le altre pronunzie italiane, che veramente mi offendeano l' udito, mi era avvezzo a pronunziar quanto meglio potea e la a, e la z, e gi, e ci, ed ogni altra toscanità*. Onde alquanto inanimito dal sudetto conte Catanti a non trascurare una sì bella lingua, e ohe era pure la mia, dacché di essere io francese non acconsentiva a niun modo, mi rimisi a leggere alcuni libri italiani. Lessi, tra' molti altri, i Dialoghi dell'Aretino *, i quali benché mi ripugnassero per le osce- nità, mi rapivano pure per l'originalità, varietà, e proprietà del- l'espressioni. E mi baloccava così a leggere, perchè in quell'in- verno mi toccò di star molto in casa ed anche a letto, atteso i replicati incomoducci che mi sopravvennero per aver troppo sfug- gito l'amore sentimentale. Ripigliai anche con piacere a rileg- gere per la terza e quarta volta il Plutarco ; e sempre il Mon- taigne ; onde il mio capo era una strana mistura di filosofia, di politica, e di discoleria. Quando gl'incomodi mi permetteano d'andar fuori, uno dei maggiori miei divertimenti in quel clima boreale era l'andare in slitta; velocità poetica, che molto mi agi- tava e dilettava la non men celere fantasia. Verso il fin di marzo partii per la Svezia; e benché io tro- vassi il passo del Sund affatto libero dai ghiacci, indi la Scania libera dalla neve; tosto ch'ebbi oltrepassato la città di Norkoping, ritrovai di bel nuovo un ferocissimo inverno, e tante braccia di neve, e tutti i laghi rappresi, a segno che non potendo più pro- seguir colle ruote, fui costretto di smontare il legno e adattarlo come ivi s'usa sopra due slitte; e così arrivai a Stockolm. La • novità di quello spettacolo, e la greggia maestosa natura di quelle immense selve, laghi e, dirupi, moltissimo mi trasportavano ; e benché non avessi mai letto l'Ossian*, molte di quelle sue ima- gini mi si destavano ruvidamente scolpite, e quali le ritrovai poi descritte allorché più anni dopo lo lessi studiando i ben archi- tettati versi del celebre Cesarotti. La Svezia locale, ed anche i suoi abitatori d'ogni classe, mi andavano molto a genio; o sia perchè io mi diletto molto più degli estremi, o altro sia ch'io non saprei dire: ma fatto si è, > Caratteristiche della fonetica toscana. « / Ragionamenti che l'A. caratterizza qui benissimo. * I poemi di Oiacomo Macpherson, e da lui attribuiti ad un preteso antico bardo caledonico, Ossian, mirabilmente tradotti in italiano da Melchiorre Cesarotti. V. : M. Schcrillo, Ossian, Milano, 1895. 88 Vittorio Al/ieri che s'io mi eleggessi di vivere nel settentrione, preferirei quella estrema parte a tutte l'altre a me cognite. La forma del governo della Svezia, rimestata ed equilibrata in un certo tal qual modo che pure una serailibertà vi trasparisce, mi destò qualche curio- sità di conoscerla a fondo. Ma incapace poi di ogni seria e con- tinuata applicazione, non la studiai che alla grossa. Ne intesi pure abbastanza per formarne nel mio capino un'idea: che stante la povertà delle quattro classi votanti', e l'estrema corruzione della classe dei nobili e di quella dei cittadini, donde nasceano le venali influenze dei due corruttori paganti, la Russia e la Francia, non vi potea allignare né concordia fra gli ordini, né efficacità di determinazioni, né giusta e durevole libertà. Con- tinuai il divertimento della slitta con furore, per quelle cupe sel- vone, e su quei lagoni crostati, fino oltre ai venti di aprile; ed allora in soli quattro giorni con una rapidità incredibile seguiva il dimoiare d'ogni qualunque gelo, attesa la lunga permanenza del sole su l'orizzonte, e l'efficacia dei venti marittimi; e allo sparir delle nevi accatastate forse in dieci strati l' una su l' altra, compariva la fresca verdura; spettacolo veramente bizzarro, e che mi sarebbe riuscito poetico se avessi saputo far versi. CAPITOLO NONO Proseguimento di viaggi, Russia, Prussia di bel nuovo, Spa, Olanda e Inghilterra. Io sempre incalzato dalla smania dell'andare, benché mi tro- vassi assai bene in Stockolm, volli partirne verso il mezzo maggio per la Finlandia alla volta di Pietroburgo. Nel fin d'aprile aveva fatto un giretto sino ad Upsala, famosa Università, e cammin facendo aveva visitate alcune cave del' ferro, dove vidi varie cose curiosissime, ma avendole poco osservate, e molto meno notate, fu come se non le avessi mai vedute. Giunto a Grisselhamna, porticello della Svezia su la spiaggia orientale, posto a rimpetto dell'entrata del golfo di Botnia, trovai da capo l'inverno, dietro cui pareva ch'io avessi appostato* di correre. Era gelato gran 1 Nobiltà, clèro, borghesia e contadini, s Di: arcaismo. • Preso impegno. La vita 89 parte di mare, e il tragitto dal continente nella prima isoletta (che per cinque ìsolette si varca quest'entratura del suddetto golfo) attesa l'immobilità totale dell'acque, riusciva per allora impossi- bile ad ogni specie di barca. Mi convenne dunque aspettare in quel tristo luogo tre giorni, finché spirando altri venti cominciò quella densissima crostona a screpolarsi qua e là, e far crich, come dice il Poeta nostro ' ; quindi a poco a poco a disgiungersi in tavoloni galleggianti, che alcuna viuzza pure dischiudevano a chi si fosse arrischiato d' intromettervi una barcuccia. Ed in fatti il giorno dopo approdò a Grisselhamna un pescatore venente in un battelletto da quella prima isola a cui doveva approdar io, la prima; e disseci il pescatore che si passerebbe, ma con qualche stento. Io subito volli tentare, benché avendo una barca assai più spaziosa di quella peschereccia, poiché in essa vi trasportava la carrozza, l'ostacolo veniva ad essere maggiore ; ma però era assai minore il pericolo, poiché ai colpi di quei massi nuotanti di ghiaccio dovea più robustamente far fronte un legno grosso che non un piccolo. E così per l'appunto accadde. Quelle tante gal- leggianti isolette rendevano stranissimo l'aspetto di quell'orrido mare che parca piuttosto una terra scompaginata e disciolta, che non un volume di acque : ma il vento essendo, la Dio mercé, tenuissimo, le percosse di quei tavoloni nella mia barca riusci- vano piuttosto carezze che urti ; tuttavia la loro gran copia e mo- bilità spesso li facea da parti opposte incontrarsi davanti alla mia prora, e combaciandosi, tosto ne impedivano il solco; e su- bito altri ed altri vi concorreano, ed ammontandosi facean cenno di rimandarmi nel continente. Rimedio efficace ed unico, veniva allora ad essere l'ascia, castigatrice d'ogni insolente. Più d'una volta i marinai miei, ed anche io stesso scendemmo dalla barca sovra quei massi, e con delle scurì si andavano partendo, e stac- cando dalle pareti del legno, tanto che desser luogo ai remi e alla prora; poi risaltati noi dentro coli' impulso della risorta nave, si andavano cacciando dalla via quegli insistenti accompagna- tori: e in tal modo si navigò il tragitto primo di sette miglia svezzesi in dieci e più ore. La novità di un tal viaggio mi di- verti moltissimo; ma forse troppo fastidiosamente sminuzzandolo lo nel raccontarlo, non avrò egualmente divertito il lettore. La descrizione di cosa insolita per gl'Italiani, mi vi ha indotto. Fatto » Dantb, Inferno, XXXII, v. 30. 90 Vittorio Alfieri In tal guisa il primo tragitto, gli altri sei passi molto più brevi, ed oltre ciò oramai fatti più liberi dai ghiacci, riuscirono assai più facili. Nella sua salvatica ruvidezza. a?.enoJ_jin_dei_paesi d'Europa che mi siano andati più a genio^ e destate^più_ idee fantastiche, malinconiche, ed andiè grandjose,^per^n_certo vasto / indefinibile sU£nzÌo_che regna'in quell'atmosfera, ove ti parrebbe quasi di essere fuor del globo. ~~ '" Sbarcato per"? ùltima volta in Abo, capitale della Finlandia svezzese, continuai per ottime strade e con velocissimi cavalli il mio viaggio sino a Pietroborgo, dove giunsi verso gli ultimi di maggio ; e non saprei dire se di giorno vi giungessi o di notte ; perchè sendo in quella stagione annullate quasi le tenebre della notte in quel clima tanto boreale, e ritrovandomi assai stanco del non aver per più notti riposato se non se disagiatamente in carrozza, mi si era talmente confuso il capo, ed entrata una tal noja del veder sempre quella trista luce, ch'io non sapea più né qual dì della settimana, né qual ora del giorno, né in qual parte del mondo mi fossi in quel punto; tanto più che i costumi, abiti, e barbe dei Moscoviti mi rappresentavano assai più Tartari che non Europei. Io aveva letta la storia di Pietro il Grande nel Voltaire^; mi era trovato nell'Accademia di Torino con vari moscoviti, ed avea udito magnificare assai quella nascente nazione ^ Onde queste cose tutte, ingrandite poi anche dalla mia fantasia che sempre mi an- dava accattando nuovi disinganni, mi tenevano al mio arrivo in Pietroborgo in una certa straordinaria palpitazione dall'aspetta- tiva. Ma, oimè, che appena io posi il piede in quell'asiatico ac- campamento di allineate trabacche, ricordatomi allora di Roma, di Genova, di Venezia, e di Firenze, mi posi a ridere. E da quan- t' altro poi ho visto in quel paese, ho sempre più ricevuta la con- ferma di quella prima impressione ; e ne ho riportato la preziosa notizia ch'egli non meritava d'esser visto. E tanto mi vi andò a contragenio ogni cosa (fuorché le barbe e i cavalli), che in quasi sei settimane ch'io stetti fra quei barbari mascherati da Europei, ch'io non vi volli conoscere chi che sia, neppure rivedervi due o tre giovani dei primi del paese, con cui era stato in Accademia a Torino, e neppure mi volli far presentare a quella famosa au- 1 Cioè la di lui Histolrt de l'Empire de Russie sous Pierre le Grand. « Per la civiltà europea introdottavi da Tictro il Grande. La vita 91 tocratrice Caterina Seconda": ed in fine neppure vidi material- mente il viso di codesta regnante, che tanto ha stancata a' giorni nostri la fama. Esaminatomi poi dopo, per ritrovare il vero perchè di una così inutilmente selvaggia condotta, mi son ben convinto in me stesso che ciò fu una mera intolleranza di inflessibil ca- rattere, ed un odio purissimo della tirannide in astratto, appic- cicato poi sopra una persona giustamente tacciata del piìi orrendo delitto, la mandataria e proditoria uccisione dell'inerme marito. E mi ricordava benissimo di aver udito narrare, che tra i molti pretesti addotti dai difensori di un tal delitto, si adduceva anche questo: che Caterina Seconda nel subentrare all' impero, voleva, oltre i tanti altri danni fatti dal marito allo Stato, risarcire anche in parte i diritti dell'umanità lesa sì crudelmente dalla schiavitù universale e totale del popolo in Russia, col dare una giusta costituzione. Ora, trovandoli io in una servitù così intera dopo cinque o sei anni di regno di codesta Clitennestra" filosofessa; e vedendo la maladetta genia soldatesca sedersi sul trono di Pie- troborgo più forse ancora che su quel di Berlino ; questa fu senza dubbio la ragione che mi fé' pur tanto dispregiare quei popoli, e sì furiosamente abborrirne gli scellerati reggitori. Spia- ciutami dunque ogni moscoviteria, non volli altrimenti portarmi a Mosca, come avea disegnato di fare, e mi sapea mill'anni di rientrare in Europa. Partii nel finir di giugno, alla volta di Riga per Narva, e Rewel; nei di cui piani arenosi ignudi ed orribili scontai largamente i diletti che mi aveano dati le epiche ^elve immense della Svezia scoscesa. Proseguii per Konisberga e Danzica; questa città, fin allora libera e ricca, in quell'anno per l'appunto cominciava ad essere straziata dal mal vicino des- pota prussiano, che già vi avea intrusi a viva forza i suoi vili sgherri. Onde io bestemmiando e Russi e Prussi, e quanti altri sotto mentita faccia di uomini si lasciano più che bruti malme- nare in tal guisa dai loro tiranni; e sforzatamente seminando il mio nome, età, qualità e carattere, ed intenzioni (che tutte queste cose in ogni villaggiuzzo ti son domandate da un sergente al- l'entrare, al trapassare, allo stare, e all'uscire), mi ritrovai final- mente esser giunto una seconda volta in Berlino, dopo circa un I Dispotica e violenta seppe far dimenticare le sue sregolatezze colla pro- tezione liberale accordata ai letterati. > La quale aveva ucciso il marito Agamennone, mentre Caterina II il con- sorte Pietro IH. 92 Vittorio Alfieri mese di viaggio, il più spiacevole, tedioso e oppressivo di quanti mai se ne possano fare: inclusive lo scendere all'orcOj che piìi buio e sgradito ed. inospito non può esser mai. Passando per Zorendorff, visitai il campo di battaglia tra' Russi e Prussiani ', dove tante migliaia dell'uno e dell'altro armento rimasero libe- rate dal loro giogo lasciandovi l'ossa. Le fosse sepolcrali vastis- sime, vi erano manifestamente accennate dalla folta e verdissima bellezza del grano, il quale nel rimanente terreno arido per sé stesso ed ingrato vi era cresciuto e misero e rado. Dovei fare allora una trista ma pur troppo certa riflessione ; che gli schiavi son veramente nati a far concio. T.ittg gnoc^t. ppirriinnria mi f acean r>_seTnprg più e conoirfr° f dffgi^prnri" la hrntn TncJliJ]^'"^"'^ • Mi sgabellai^ dunque in tre giorni di questa mia berlinata se- conda; né per altra ragione mi vi trattenni che per riposarmivi un poco di un sì disagiato viaggio. Partii sul finir di luglio per Magdebourg, Brunswich, Gottinga, Cassel, e Francfort. Nell'en- trare in Gottinga, città come tutti sanno di Università fioritis- sima, mi abbattei in un asinelio ch'io moltissimo festeggiai per non averne più visti da circa un anno dacché m'era ingolfato nel settentrione estremo dove quell'animale non può né gene- rare, né campare. Di codesto incontro di un asino italiano con un asinelio tedesco in una così famosa Università, ne avrei fatto allora una qualche lieta e bizzarra poesia, se la lingua e la penna avessero in me potuto servire alla mente, ma la mia impotenza scrittoria era ogni dì più assoluta. Mi contentai dunque di fan- tasticarvi su fra me stesso, e passai così una festevolissima gior- nata, soletto sempre, con me e il mio asino. E le giornate fe- stive per me eran rare, passandomele io di continuo solo solis- simo, per lo più anche senza leggere né far nulla, e senza mai schiuder bocca. Stufo oramai di ogni qualunque tedescheria, lasciai dopo due giorni Francfort, e avviatomi verso Magonza, mi v' imbarcai sopra il Reno, e disceso con quell'epico fiumone* sino a Colonia, un qualche diletto lo ebbi navigando fra quelle amenissime 1 Vinta da Federico II nel 1758. Si rilevi la nobiltà del sentimento nmt- nitario dell'A. nelle parole che seguono. « Liberai. * Epico fiume maestoso: per le leggende che ad esso si ricollegano, le quali han fornito poi al Wagner argomento al prologo (L'oro del Rtno) della sua tetralogia L'Anello del Nibelung. La vita 93 sponde. Di Colonia per Aquisgrana ritornai a Spa, dove due anni prima a\eva passato qualche settimana; e quel luogo mi avea sempre lasciato un qualche desiderio di rivederlo a cuor libero; parendomi quella essere una vita adattata al mio umore, perchè riunisce rumore e solitudine, onde vi si può stare inos- servato ed ignoto infra le pubbliche veglie e festini. Ed in fatti talmente mi vi compiacqui, che ci stetti sin quasi al fin di set- tembre dal mezzo agosto: spazio lunghissimo di tempo per me che in nessun luogo mi potea posar mai. Comprai due cavalli da un Irlandese, dei quali l'uno era di non comune bellezza, e vi posi veramente il cuore. Onde cavalcando mattina e giorno e sera, pranzando in compagnia di otto o dieci altri forestieri di ogni paese, e vedendo seralmente ballare gentili donne e don- zelle, io passava (o per dir meglio logorava) il mio tempo be- nissimo. Ma guastatasi la stagione, ed i più dei bagnanti comin- ciando ad andarsene, partii anch' io e volli ritornare in Olanda per rivedervi l'amico D'Acunha, e ben certo di non rivedervi la già tanto amata donna, la quale sapeva non essere più all'Haja, ma da più d'un anno essere stabilita con il marito in Parigi. Non mi potendo staccare dai miei due ottimi cavalli, avviai in- nanzi Elia con il legno, ed io, parte a piedi parte a cavallo, mi avviai verso Liegi. In codesta città, presentandomisi l'occasione di un ministro di Francia mio conoscente, mi lasciai da esso introdurre al principe vescovo di Liegi, per condiscendenza e stranezza: che se non avea veduta la famosa Caterina Seconda, avessi almeno vista la corte del principe di Liegi. E nel sog- giorno di Spa era anche stato introdotto ad un altro principe ecclesiastico, assai più microscopico ancora, l'abate di Stavelò nell'Ardenna. Lo stesso ministro di Francia a Liegi mi avea pre- sentato alla corte di Stavelò, dove allegrissimamente si pranzò, ed anche assai bene. E meno mi ripugnavano le corti del pasto- rale che quelle dello schioppo e tamburo, perchè di questi due flagelli degli uomini non se ne può mai rider veramente di cuore. Di Liegi proseguii in compagnia de' miei cavalli a Brus- selle, Anversa, e varcato il passo del Mordick, a Roterdamo, ed all'Haja. L'amico, col quale io sempre avea carteggiato dappoi, mi ricevè a braccia aperte; e trovandomi un pocolin migliorato di senno egli sempre più mi andò assistendo dei suoi amorévoli, caldi e luminosi consigli. Stetti con esso circa due mesi, ma poi Infiammato come io era della smania di riveder ^4 Vittorio Alfieri 1» Inghilterra, e stringendo anche la stagione, ci separammo verso il fin di novembre. Per la stessa via fatta da me due e più anni prima giunsi, felicemente sbarcato in Harwich, in pochi giorni a Lond'ra. Ci ritrovai quasi tutti quei pochi amici che io avea praticati nel primo viaggio; tra i quali il principe di Masserano ambascìator di Spagna, ed il marchese Caraccioli ministro di Napoli, uomo di alto, sagace e faceto ingegno. Queste due per- sone mi furono più che padre in amore nel secondo soggiorno ch'io feci in Londra di circa sette mesi, nel quale mi trovai m alcuni frangenti straordinari e scabrosi, come si vedrà. CAPITOLO DECIMO Secondo fierissimo intoppo amoroso a Londra. Fin dal primo mio viaggio erami in Londra andata somma- mente a genio una bellissima signora» delle primarie, la di cui immagine tacitamente forse nel cuore mio introdottasi mi avea fatto in gran parte trovare sì bello e piacevole quel paese, ed anche accresciutami ora la voglia di rivederlo. Con tutto ciò, ancorché quella bellezza mi si fosse mostrata fin d'allora piut- tosto benigna, la mia ritrosa e selvaggia indole mi avea preser- vato dai di lei lacci. Ma in questo ritorno, ingentilitomi io d'al- quanto, ed essendo in età più suscettibil d' amore, e non abba- stanza rinsavito dal primo accesso di quell'infausto morbo, che sì male mi era riuscito nell' Maja, caddi allora in quest'altra rete, e con sì indicibil furore mi appassionai, che ancora rabbrividisco pensandovi adesso che lo sto descrivendo nel primo gelo del nono mio lustro. Mi si presentava spessissimo l'occasione di veder quella bella inglese, massimamente in casa del principe di Masserano S con la di cui moglie essa era compagna di palco al teatro dell'opera italiana. Non la vedeva in casa sua, perchè a - lora le dame inglesi non usavano ricevere visite, e principal- mente di forestieri. Oltre ciò il marito ne era gelosissimo, per quanto il possa e sappia essere un oltramontano. Questi ostacoletti vieppiù mi accendevano; onde io ogni mattina or& &\V Hyde-Park, 1 Penelope Pitt, figlia di Sir Giorgio Pitt, e moglie di Lord Edoardo Ligonier. [B.\. 2 Cfr. Ep. IH, cap. vi. La vita 05 ora in qualche altro passeggio mi incontrava con essa ; ogni sera in quelle affollate veglie, o al teatro, la vedea parimente; e la cosa si andava sempre più ristringendo. E venne finalmente a tale, che io, felicissimo dell'essere o credermi riamato, mi teneva pure infelicissimo, ed era dal non vedere modo con cui si po- tesse con securità continuare gran tempo quella pratica. Passa- vano, volavano i gforni ; inoltratasi la primavera, il fin di giugno al più al più era il termine, in cui attesa la partenza per la cam- pagna dove ella solca stare sette e più mesi, diveniva assoluta- mente impossibile il vederla né punto né poco. Io quindi vedeva arrivare quel giugno come 1' ultimo termine indubitabilmente della mia vita; non ammettendo io mai nel mio cuore, né nella mente mia inferma, la possibilità fisica di sopravvivere a un tale distacco, sendosi in tanto più lungo spazio di tempo rinforzata questa mia seconda passione tanto superiormente alla prima. In questo funesto pensiere del dover senza dubbio perire quando la dovrei lasciare, mi si era talmente inferocito' l'animo, ch'io non procedeva in quella mia pratica altrimenti che come chi non ha oramai più nulla che perdere. Ed a ciò contribuiva parimente non poco il carattere dell' amata donna, la quale pareva non gustar punto né intendere i partiti di mezzo. Essendo le cose in tal termine, e raddoppiandosi ogni giorno le imprudenze sì mie che sue, il di lei marito avvistosene già da qualche tempo avea più volte accennato di volermene fare un qualche risentimento'; ed io nessun'altra cosa ai mondo bramava quanto questa, poiché dal solo uscir esso dei gangheri potea nascere per me o alcuna via di salvamento, ovvero una total perdizione. In tale orribile stato io vissi circa cinque mesi, finché scoppiò la bomba nel modo seguente. Più volte già in diverse ore del giorno con grave rischio di ambedue noi io era stato da essa stessa introdotto in casa; inosservato sempre, attesa la piccolezza delle case di Londra, e il tenersi le porte chiuse, e la servitù stare per lo più nel piano sotterraneo, il che da campo di aprirsi la porta di strada da chi è dentro, e facilmente introdursi l'estraneo ad una qualche ca- mera terrena contìgua immediatamente alla porta. Quindi quelle mie introduzioni dì contrabbando erano tutte francamente riu- scite; tanto più ch'era in ore ove il marito era fuor di casa, e I Esaluto, esasperalo. ' Volermene chiedere soddisfazione. 06 Vittorio Al/ieri per lo più la gente di servizio a mangiare. Questo prospero esito ci inanimì a tentare maggiori rischi. Onde, venuto il maggio, avendola il marito condotta in una villa vicina, 16 miglia di Londra, per starci otto o dieci giorni e non più, subito si ap- puntò il giorno e l'ora in cui parimente nella villa verrei intro- dotto di furto; e si colse il giorno d'una rivista delle truppe a cui il marito, essendo uffiziale delle guardie, dovea intervenir senza fallo, e dormire in Londra. Io dunque mi ci avviai quella sera stessa, soletto, a cavallo; ed avendo avuto da essa l'esatta topografia del luogo, lasciato il mio cavallo ad un'osteria distante circa un miglio dalla villa, proseguii a piedi, sendo già notte, fino alla porticella del parco, di dove introdotto da essa stessa passai nella casa, non essendo, o credendomi tuttavia non essere, stato osservato da chi che fosse. Ma cotali visite erano zolfo sul fuoco, e nulla ci bastava se non ci assicurava del sempre. Si presero dunque alcune misure per replicare e spesseggiar quelle gite, finché durasse la villeggiatura breve, e disperatissimi poi se si pensava alla villeggiatura imminente e lunghissima che ci sovrastava. Ritornato io la mattina dopo in Londra, fremeva e impazziva pensando che altri due giorni dovrei stare senza ve- derla, e annoverava l'ore e i momenti. Io viveva in un contìnuo delirio, inesprimibile quanto incredibile da chi provato non l'abbia, e pochi certamente l'avranno provato a un tal segno. Non ritrovava mai pace se non se andando sempre, e senza saper dove; ma appena quetatomi o per riposarmi, o per nutrirmi, o per tentar di dormire, tosto con grida ed urli orribili era co- stretto di rimbalzare in piedi, e come un forsennato mi dibatteva almeno per la camera, se l'ora non permetteva di uscire. Aveva più cavalli, e tra gli altri quel bellissimo comprato a Spa, e fatto poi trasportare in Inghilterra. E su quello io andava facendo le più pazze cose, da atterrire i più temerarj cavalcatori di quel paese, saltando le più alte e larghe siepi di slancio, e fossi stra- larghì, e barriere quante mi si affacciavano. Una di quelle mat- tine intermedie tra una e l'altra mia gita in quella sospirata villa, cavalcando io col marchese Caraccioli, volli fargli vedere quanto bene saltava quel mio stupendo cavallo, e adocchiata una delle più alte barriere che separava un vasto prato dalla pubblica strada, ve Io cacciai di carriera ; ma essendo io mezzo alienato ', i S«mi-infermo di mente, non sapendomi quel che mi facessi. La vita ^1 e poco badando a dare in tempo i debiti aiuti e la mano al ca- vallo, egli toccò coi pie davanti la sbarra, ed entrambi in un fascio precipitati sul prato, ribalzò egli primo in piedi, io poi; né mi parve di essermi fatto male alcuno. Del resto il mio pazzo amore mi aveva quadruplicato il coraggio, e pareva ch'io a bella posta mendicassi ogni occasione di rompermi il collo. Onde, per quanto il Caraccìoli, rimasto su la strada di là dalla mal per me saltata barriera, gridassemi di non far*altro, e di andar cercare l'uscita naturale del prato per riunirmi a lui, io che poco sapeva quel che mi facessi, correndo dietro il cavallo che accennava di voler fuggire pel prato, ne afferrai in tempo le redini, e salta- tovi su di bel nuovo, lo rispinsi spronando contro la stessa bar- riera, e ristorando egli ampiamente il mio onore ed il suo la passò di volo. La giovenile superbia mia non godè lungamente di quel trionfo, che dopo fatti alcuni passi adagino, freddando- misi a poco a poco la mente ed il corpo, cominciai a provare un fiero dolore nella sinistra spalla, che era in fatti slogata, e rotto un ossuccjo che collega la punta di essa col collo. Il do- lore andava crescendo, e le poche miglia che mi trovava esser distante da casa mi parvero fieramente lunghe prima di ricon- durmivi a cavallo ad oncia ad oncia. Venuto il chirurgo, e stra- ziatomi per assai tempo, disse di aver riallogato ogni cosa, e fa- sciatomi, ordinò ch'io stessi in letto. Chi intende d'amore si rap- presenti le mie smanie e furore nel vedermi io così inchiodato in un letto, la vigilia per l'appunto di quel beato giorno che era prefisso alla mia seconda gita in villa. La slogatura del braccio era accaduta nella mattina del sabato ; pazientai per quel giorno, e la domenica sino verso la sera, onde quel poco di ri- poso mi rendè alcuna forza nel braccio, e più ardire nell'animo. Onde verso le ore sei del giorno mi volli a ogni conto alzare, e per quanto mi dicesse il mio semi-ajo Elia, entrai alla meglio in un carrozzino di posta soletto, e mi avviai verso il mio de- stino. Il cavalcare mi era fatto impossibile atteso il dolore del braccio, e l'impedimento della stringatissima fasciatura, onde non dovendo né potendo arrivare sino alla villa in quel carrozzino col postiglione, mi determinai di lasciare il legno alila distanza di circa due miglia, e feci il rimanente della strada a piedi con l'un braccio impedito, e l'altro sotto il pastrano con la spada impugnata, andando solo di notte in casa d'altri, non come amico. La scossa del legno mi avea frattanto rinnovato e raddoppiato T. - Classlei Italiani. N. 3. Oè Vittorio Alfieri il dolore della spalla, e scompostane la fasciatura a tal segno che la spalla in fatti non si riallogò poi in appresso mai più. Pareami pur tuttavia di essere il più felice uomo del mondo av- vicinandomi al sospirato oggetto. Arrivai finalmente, e con non poco stento (non avendo l'aiuto di chicchessia, poiché dei con- fidenti non v'era) pervenni pure ad accavalciare gli stecconi del parco per introdurmivi, poiché la porticella che la prima volta ritrovai socchiusa, in quella seconda mi riuscì inapribile. Il ma- rito, al solito per cagione della rivista dell'indomani lunedì, era ito anche quella sera a dormire in Londra. Pervenni dunque alla casa, trovai chi mi vi aspettava, e senza molto riflettere né essa né io all'accidente dell'essersi ritrovata chiusa la porticella ch'essa pure avea già più ore prima aperta da sé, mi vi trat- tenni fino all'alba nascente. Uscitone poi nello stesso modo, e tenendo per fermo di non essere stato veduto da anima vivente, per la stessa via fino al mio legno, e poi salito in esso mi ri- condussi in Londra verso le sette della mattina assai mal concio fra i due cocentissirai dolori dell'averla lasciata e di trovarmi assai peggiorata la spalla. Ma lo stato dell'animo mio era sì pazzo e frenetico, ch'io nulla curava qualunque cosa potesse ac- cadere, prevedendole pure tutte. Mi feci dal chirurgo ristringere di nuovo la fasciatura senza altrimenti toccare al riallogamento o slogamento che fosse. Il martedì sera, trovatomi alquanto meglio, non volli neppur più stare in casa, e andai al teatro 'ita- liano nel solito palco del principe di Masserano, che vi era con la sua moglie, e che credendomi mezzo storpio ed in letto, molto si maravigliarono di vedermi col solo braccio al collo. Frattanto io me ne stava, in apparenza tranquillo, ascoltando la musica, che mille tempeste terribili mi rinnovava nel cuore; ma il mio viso era, come suol essere, di vero marmo. Quand'ecco| ad un tratto io sentiva, o pareami, pronunziato il mio nome da qualcuno, che sembrava contrastare con un altro alla porta del chiuso palco. Io, per un semplice moto macchinale, balzo alla porta, l'apro, e richiudola dietro me in un attimo, e agli occhi| mi si presenta il marito della mia donna, che stava aspettandc che di fuori gli venisse aperto il palco chiuso a chiave da quegli usati custodi dei palchi, che nei teatri inglesi si trattengono a ' tal effetto nei corridori. Io già più e più volte mi era aspettato a quest'incontro, e non potendolo onoratamente provocare io primo, l'avea pure desiderato più che ogni cosa al mondo. Pre- I La vita 9Q dentatomi dunque in un baleno fuori del palco, le parole furon queste brevissime. Eccomi qua, gridai io; chi mi cerca? Io, mi rispos'egli, la cerco, che ho qualche cosa da dirle. Usciamo, io replico; sono ad udirla. Né altro aggiungendovi, uscimmo im- mediatamente dal teatro. Erano circa le ore ventitré e mezza d' Italia, nei lunghissimi giorni di maggio cominciando in Londra i teatri verso le ventidue. Dal teatro AtW Haymarket per un assai buon tratto di strada andavamo al Parco di San Giacomo, dove per un cancello si entra in un vasto prato, chiamato Green- park. Quivi, già quasi annottando, in un cantuccio appartato si sguainò senza dir altro le Spade. Era allor d'uso il portarla anch' essendo in frack, onde io mi ero trovato d' averla, ed egli appena tornato di villa era corso da uno spadajo a provveder- sela. A mezzo la via di Pallmall che ci guidava al Parco San Giacomo, egli due o tre volte mi andò rimproverando ch'io era stato pili volte in casa sua di nascosto, ed interrogavami del come. Ma io, malgrado la frenesia che mi dominava, presentis- simo a me, e sentendo nell'intimo del cuor mio quanto fosse giusto e sacrosanto lo sdegno dell'avversario, null'altro mai mi veniva fatto di rispondere; se non se: Non è vera tal cosa: ma quand'ella pure la crede son qui per dargliene buon conto. Ed egli ricominciava ad affermarlo, e massimamente di quella mia ultima gita in villa egli ne sminuzzava sì bene ogni particola- rità, ch'io rispondendo sempre. Non è vero, vedea pure benis- simo ch'egli era informato a puntino di tutto. Finalmente egli terminava col dirmi: A che vuol ella negarmi quanto mi ha con- fessato e narrato la stessa mia moglie? Strasecolai di un si fatto discorso, e risposi (benché feci male, e me ne pentii poi dopo): Quand'ella il confessi, non lo negherò io. Ma queste parole ar- ticolai, perché oramai era stufo di stare si lungamente sul ne- gare una cosa patente e verissima; parte che troppo mi ripu- gnava in faccia ad un nemico offeso da me; ma pure violen- tandomi, lo faceva per salvare, se era possibile, la donna. Questo tra stato il discorso tra noi prima di arrivar sul luogo ch'io accennai. Ma allorché nell'atto di sguainar la spada, egli osservò ch'Io aveva 11 manco braccio sospeso al collo, egli ebbe la gè- nerosità di domandarmi se questo non m'impedirebbe di bat- termi. Risposi ringraziandolo, ch'io sperava di no, e subito lo attaccai. Io sempre sono stato un pessimo schermitore; mi ci butUI dunque fuori d'ogni regola d'ai le come un disperato; e 100 Vittorio Alfieri q dJLJgrn ift nnn ffprray?t altro che di farmi ammazzare. Poco saprei descrivere quel ch'io mi facèS5Ì7 ma cunvléli pure che assai gagliardamente lo investissi, poiché io al principiare mi trovava aver il sole, che stava per tramontare, direttamente negli occhi a segno che quasi non ci vedeva; e in forse sette o otto minati di tempo io mi era talmente spinto innanzi ed egli ritrat- tosi e nel ritrarsi descritta una curva sì fatta, ch'io mi ritrovai col sole direttamente alle spalle. Così martellando gran tempo, io sempre portandogli colpi, ed egli sempre ribattendoli, giu- dico che egli non mi uccise perchè non volle, e ch'io non lo uccìsi perchè non seppi. Finalmente egli nel parare una botta, me ne allungò un'altra e mi colse nel braccio destro tra l'im- pugnatura ed il gomito, e tosto awisommi ch'io era ferito; io non me n'era punto avvisto, né la ferita era in fatti gran cosa. Allora abbassando egli primo la punta in terra, mi disse che egli era soddisfatto, e domandavami se lo era anch'io. Risposi, che io non era l'offeso, e che la cosa era in lui. Ringuainò egli allora, ed io pure. Tosto egli se n'andò ; ed io, rimasto un altro poco sul luogo voleva appurare cosa fosse quella mia ferita ; ma osservando l'abito essere squarciato per lo lungo, e non sentendo gran dolore, né sentendomi sgocciolare gran sangue la giudicai una scalfittura più che una piaga. Del resto non mi potendo, aiutare del braccio sinistro, non sarebbe stato possibile di ca- varmi l'abito da me solo. Aiutandomi dunque co' denti mi con- tentai di avvoltolarmi alla peggio un fazzoletto e annodarlo sul braccio destro per diminuire così la perdita del sangue. Quindi uscito dal parco, per la stessa strada di Pallmall, e ripassando davanti al Teatro, di donde era uscito tre quarti d'ora innanzi, ed al lume di alcune botteghe avendo veduto che non era in- sanguinato né l'abito, né le mani, scioltomi coi denti il fazzo- letto dal braccio e non provatone più dolore, mi venne la pazza voglia puerile di rientrare al teatro, e nel palco donde avea preso le mosse. Tosto entrando fui interrogato dal principe di Masse- rano, perché io mi fossi scagliato così pazzamente fuori del suo palco, e dove fossi stato. Vedendo che non aveano udito nulla del breve diverbio seguito fuori del loro palco, dissi che mi era sovvenuto a un tratto di dover parlare con qualcuno, e che perciò era uscito così: né altro dissi. Ma per quanto mi volessi far forza, il mio animo trovavasi jJure inuna__estrema_agilazIone, pensando'quàrpulesse fbbcie II Séguifó'drun JaLuffarc, e tutti La vita 101 I danni che stavano per accadere all'amata mia donna. Onde dopo un quarticello me n'andai, non sapendo quel che farei di me. Uscito dal teatro mi venne in pensiero (già che quella ferita non mi impediva di camminare) di portarmi in casa d'una cognata della mia donna, la quale ci secondava, e in casa di cui ci eramo anche veduti qualche volta. Opportunissimo riuscì quel mio accidentale pensiero, poiché entrando in camera di quella signora il primo oggetto che mi si presentò agli occhi, fu la stessa stessissima donna mia. Ad una vista sì inaspettata, ed in tanto e sì diverso tumulto di affetti, io m' ebbi quasi a svenire. Tosto ebbi da lei pienissimo schiari- mento del fatto, come pareva dover essere stato; ma non come egli era in effetto; che la verità poi mi era dal mio destino riserbata a sapersi per tutt'altro mezzo. Ella dunque mi disse, che il marito sin dal primo mio viaggio in villa n'avea avuta la certezza, dalla persona in fuori; avendo egli saputo soltanto che quaicu.- c'era stato, ma nessuno mi avea conosciuto. Egli avea appurato, che era stato lasciato un cavallo tutta la notte in tale albergo, tal giorno, e ripigliato poi in tal ora da persona che largamente avea pagato, né articolato una sola parola. Perciò all'occasione di questa seconda rivista, avea segretamente appo- stato alcun suo familiare perchè vegliasse, spiasse, ed a pun- tino poi lunedi sera al suo ritorno gli desse buon conto d'ogni cosa. Egli era partito la domenica il giorno, per Londra; ed io come dissi, la domenica al tardi di Londra per la villa sua, dove era giunto a piedi su l'imbrunire. La spia (o uno o più ch'ei si fossero), mi vide attraversare il cimitero del luogo, accostarmi alla porticella del parco, e non potendola aprire, accavalciarne gli stecconi di cinta. Così poi m'avea visio uscire su l'alba, ed avviarmi a piedi su la strada maestra verso Londra. Nessuno si era attentato né di mostrarmisi pure, non che di dirmi nulla; forse perchè vedendomi venire in aria risoluta con U s^aJa sotto il braccio, e non ci avendo e&v intc/rt»*» proprio, gli spassio- nati non si pareggiando mai cogli innamorati, pensarono esser meglio di lasciarmi andare a buon viaggio. Ma cerio si è, che se all'entrare o all'uscire a quel modo ladronesco dal parco, mi avessero voluto in due o tre arrestare, la cosa si riducea per me a mal partito; poiché se tentava fuggire, avea aspetto di ladro, 8e attaccarli o difendermi, avea aspetto di assassino: ed in me Stesso io ero ben risoluto di non mi lasciar prender vivo. Onde 102 Vittorio Alfieri bisognava subito menar la spada, ed in quel paese di savie e non mai deluse leggi queste cose hanno immancabilmente seve- rissimo gastigo. Inorridisco anche adesso, scrivendolo: ma punto non titubava io nell'atto di espormivi. Il marito dunque nel ritor- nare il lunedì giorno* in villa, già dallo stesso mio postiglione, che alle due miglia di là mi aveva aspettato tutta notte, gli venne raccontato il fatto come cosa insolita, e dal ritratto che egli avea fatto di mia statura, forme, e capelli, egli mi avea benissimo riconosciuto. Giunto poi a casa sua, ed avuto il referto della sua gente, ottenne al fine la tanto desiderata certezza dei danni suoi. Ma qui, nel descrivere gli effetti stranissimi di una gelosia inglese, la gelosia italiana si vede costretta di ridere : cotanto son diverse le passioni nei diversi caratteri e climi, e massime sotto diversissime leggi. Ogni lettore italiano qui sta aspettando pugnali, veleni, battiture, o almeno carcerazion della moglie, e simili ben giuste smanie. Nulla di questo. L'inglese marito, an- corché assaissimo al modo suo adorasse la moglie, non perde il tempo in invettive, in minacce, in querele. Subito la raffrontò, con quei testimonj di vista, che facilmente la convinsero del fatto innegabile. Venuta la mattina del martedì, il marito non celò alla moglie, ch'egli già da quel punto non la tenea più per sua, e che ben tosto il divorzio legittimo lo libererebbe di lei. Ag- giunse, che non gli bastando il divorzio, voleva anche che io scontassi amaramente l'oltraggio fattogli; ch'egli in quel giorno ' ripartirebbe per Londra, dove mi troverebbe senz'altro. Allora essa immediatamente per mezzo di qualche suo affidato^ mi avea segretamente scritto, e spedito l'avviso di quanto seguiva. Il mes- saggiere, largamente pagato, avea quasi che ammazzato il cavallo venendo a tutt' andare in meno di du' ore a Londra, e certa- mente vi giunse forse un'ora prima che non giungesse il marito. Ma per mia somma fortuna, non avendomi piìi trovato in casa né il messaggiero, né il marito, io non fui avvisato di nulla, ed il marito vedendomi uscito, s'immaginò ed indovinò ch'io fossi al teatro italiano ; e là, come io narrai, mi trovò. La fortuna in quest'accidente mi fece due sommi beneficii; che io non mi fossi slogato il braccio destro invece del manco; e ch'io non rice- vessi quella lettera dell'amata donna, se non se dopo l'incontro. > Il lunedì pomeriggio, < Fidato, ^a vita 103 Non so se non avrei in qualche parte forse operato men bene, ove l'una di queste due cose mi fosse accaduta. Ma intanto, par- tito appena il marito per Londra, per altra via era anche partita la moglie, e venuta direttamente a Londra in casa di quella sua cognata, che non molto lontana abitava dalla casa del suo ma- rito; quivi già avea saputo che il marito meno d'un' ora prima era tornato a casa in un fiacre; dal quale slanciatosi dentro si era chiuso in camera, senza voler né vedere né favellare con chi che si fosse di casa. Onde essa tenea per fermo eh' egli mi avesse incontrato, ed ucciso. Tutta questa narrazione a pezzi e bocconi mi veniva fatta da lei; interrotta, come si può credere, dall'im- mensa agitazione dei sì diversi affetti che ambedue ci travaglia- vano. Ma per allora però, il fine di tutto questo schiarimento scioglievasi in una felicità per noi inaspettata e quasi incredibile ; poiché, atteso l' imminente inevitabil divorzio, io mi trovava nel- r impegno (e null'altro bramava) di sottentrare ai lacci coniugali che ella stava per rompere. Ebro di un tal pensiero, quasi non mi ricordava più punto della mia feritnccia: ma in somma poi, alcune ore dopo, visitatomi il braccio in presenza dell'amata donna, si trovò la pelle scalfitta in lungo, e molto sangue rag- grumato nei pieghi della camicia, senz'altro danno. Medicato il braccio, ebbi la giovenile curiosità di visitare anche la mia spada, e la trovai, dalle gran ribattiture di colpi fatte dall'avversario, ridotta dai due terzi in giìi della lama a guisa di una sega adden- tellatissima; e la conservai poi quasi trofeo per più anni in ap- presso. Separatomi finalmente in quella notte del martedì assai inoltrata dalla mia donna, non volli tornare a casa mia senza passare dal marchese Caraccioli, per informarlo d'ogni cosa. Ed egli pure, dal modo in cui avea saputo il fatto in confuso, mi tenea fermamente per ucciso, e che fossi rimasto nel parco, che verso la mezz'ora di notte suol chiudersi. Come risuscitato dunque mi accolse, ed abbracciò caldamente, ed in varj discorsi si passarono ancora forse du' altre ore più della notte; talché arrivai a casa quasi al giorno'. Corcatomi dopo tante e sì strane peripezie d'un sol giorno, non ho dormito mai d'un sonno più tenace e più dolce. > In quella ste«M »er« l'A. indo ancora a racccnfare l'accaduto al conte di Sc^mafiifl, ambasciatore sardo, perchè non trasmettesse a Torino voci ^avi sul duello, e tali che potessero motivare un richiamo in patria. Lo Scamafigi, in un suo dispaccio del 10 maggio, accenna alla visita dell'A., 104 Vittorio Alfieri CAPITOLO UNDECIMO Disinganno orribile. Ecco Intanto a puntino come erano veramente accadute le cose del giorno dianzi. II fidato mio Elia, avendo veduto arrivare quel messaggiero col cavallo fradicio di sudore e trafelatissimo, e che tanto e poi tanto gli avea raccomandato di farmi avere immediatamente quella lettera, era subito uscito per rintrac- ciarmi; e cercatomi prima dal principe di Masserano dove mi credeva esser ito, poi dal Caraccioli, che abitavano a più miglia di distanza, avea così consumato più ore ; finalmente riaccostan- dosi verso casa mia che era in Suffolk Street, vicinissima al- VHay market dov'è il teatro dell'opera italiana, gli venne in capo di veder se io ci fossi ; benché non lo credesse, atteso che avea tuttora il braccio slogato fasciato al collo. Appena entrato egli al teatro, e chiesto di me a quei custodi dei palchi che benis- simo mi conoscevano, gli fu detto che un dieci minuti prima era uscito con tal persona, che era venuta a cercarmi espressamente nel palco dov'io era. Elia sapeva benissimo (benché non lo sa- pesse da me) quel mio disperato amore; onde udito appena il nome della persona che mi era venuta cercare, e combinato la letteja di donde veniva, subito entrò in chiaro d'ogni cosa. Al- lora Elia, sapendo benissimo quanto mal destro spadaccino io mi fossi, ed inoltre vedendomi impedito il braccio sinistro, mi reputò anch' egli certamente per un uomo morto; e subito corse al Parco San Giacomo, ma non essendosi rivolto verso il Green- park, non ci rinvenne; intanto annottò; ed egli fu costretto di uscir del parco, come ogni altra persona. Non sapendo che si fare per venir in chiaro della mia sorte, si avviò verso la casa del marito, credendo quivi poter raccapezzare qualcosa; e forse avendo egli azzeccato cavalli migliori al suo fiacre, che non erano stati quelli del marito; o che questi forse in quel frat- tempo fosse andato in qualch' altro luogo; fatto si è, che Elia si combinò di arrivar egli nel suo fiacre vicino alla porta del marito, nel punto istesso in cui esso marito era giunto a casa e, pur specificando 1 particolari del fatto dichiara che i due avversari hanno solo « ferraiilé sans se taire aucunc blessure >. [B.\. La vita 105 sna; e l'avea benissimo veduto ritornare colla spada, e slanciarsi in casa, e far chiuder la porta subito, ed in aspetto e modi molto turbati. Sempre più si confermò Elia nel sospetto, eh' egli m'avesse ucciso, e non potendo più far altro, era corso dal Caraccioli, e gli avea dato conto di quanto sapeva, e di quel che temeva. Io dunque, dopo una sì penosa giornata, rinfrancato da molte ore di placidissimo sonno, rimedicate alla meglio le mie due ferite, di cui quella della spalla mi dolca più che mai, e l'altra sempre meno, subito corsi dalla mia donna, e vi passai tutto in- tero quel giorno. Per via dei servitori si andava sentendo quello che faceva il marito, la di cui casa, come dissi, era assai vicina di quella della cognata, dove abitava per allora la mia donna. E benché io riputassi in me stesso ogni nostro guai terminato col prossimo divorzio; e ancorché il padre di lei (persona a me già notissima da più anni)* fosse venuto in quel giorno del mer- coledì a veder la figlia, e nella di lei disgrazia si congratulasse pur seco, che almeno ad un uom degno (così volle dire) le toc- asse di riunirsi in un secondo matrimonio ; con tutto ciò io scor- geva una foltissima nube su la bellissima fronte della mia donna, che un qualche sinistro mi vi parca presagire. Ed ella, sempre piangente, e sempre protestandomi che mi amava più d'oggi cosa; che lo scandalo dell'avvenimento suo e il disonore che glie ne ridondava nella di lei patria, le venivano largamente compensati s'ella potea pur vivere per sempre con me; ma ch'ella era più che certa che io non l'avrei mai presa per moglie mia. Questa sua perseverante e stranissima asserzione mi disperava veramente; e sapendo io benissimo ch'ella non mi reputava né mentitore né simulato, non poteva assolutamente intendere questa sua diffidenza di me. In queste funeste perplessità, che pur tvoppo turbavano ed annichilivano ogni mia soddisfazione del vederla Uberamente dalla mattina alla sera; ed inoltre fra le angustie d'un processo' già intavolato, ed assai spiacente per chiunque abbia onore o pudore; così si passarono i tre giorni dal mer- coledì a tutto il venerdì, finché il venerdì sera insistendo io for- temente per estrarre dalla mia donna una qualche più luce nel- > Il Pitt, padre della Penelope, era stato gU per qnaJcbe tempo amba- sciatore d' Injfhilfrrra proso la Corte di Torino. [B.\. * In seguito a domanda di divorzio. 106 Vittorio Alfieri l'orrido enimma dei di lei discorsi, delle sue malinconie, e diffidenze; finalmente con grave e lungo stento, previo un do- loroso proemio interrotto da sospiri e singhiozzi amarissimi, ella mi veniva dicendo che sapea purtroppo non poter essere in conto nessuno omai degna di me; e che io non la dovea né potea né vorrei sposar mai... perchè già prima... di amar me... ella avea amato... — E chi mai^? Soggiungeva io interrompendo rnn impeto. — \JnJjìrh(iy (fìncjiQj^^aix^mtrt)... ch^stava... in casa di mio marito. — Ci &tava ? ^ quando ? O Dio, mTsèiltó morire ! Ma pefcHèdirmi tal cosa? crudél donnaTTOépò era uccidermi. — Qui m'interrompe ancor essa; e a poco a poco alla per fine esce l'intera confessione sozzissima di quel brutto suo amore; di cui sentendo io le dolorose incredibili particolarità, gelido, immobile, insensato mi rimango qual pietra. Quel mio degnissimo rivai precursore stava tuttavia in casa del marito in quel punto in cui si parlava ; egli era stato quello che avea primo spiato gli andamenti dell'amante padrona; egli avea scoperto la mia prima gita in villa, e il cavallo lasciato tutta notte nell'albergo di cam- pagna ; ed egli con altri di casa, mi aveva poi visto e conosciuto nella seconda gita fatta in villa la domenica sera. Egli finalmente, udito il duello del marito con me, e la disperazione di esso di dover far divorzio con una donna ch'egli mostrava amar tanto, si era indotto nel giorno del giovedì a farsi introdurre presso al padrone, e per disingannar lui, vendicar sé stesso, e punire la infida donna e il nuovo rivale, quell'amante palafreniere avea spiattellatamente confessato e individuato tutta la storia de' suoi triennali amori con la padrona, ed esortato avea caldamente il padrone a non si disperar più a lungo per aver perduta una tal moglie, il che si dovea anzi recare a ventura. Queste orribili e crudeli particolarità, le seppi poi dopo ; da essa non seppi altro che il fatto, e menomato quanto più si potea. Il mio dolore e furore, le diverse mie risoluzioni, e tutte false e tutte funeste e tutte vanissime ch'io, andai quella sera facendo e disfacendo, e bestemmiando, e gemendo, e ruggendo, ed in njezzo a tant'ira e dolore amando pur sempre perdutamente un cosi indegno oggetto; non si possono tutti questi affetti ritrarre con parole: ed ancor vent'anni dopo mi sento ribollire il sangue pensandovi. La lasciai quella sera, dicendole: ch'ella troppo bene mi cono- sceva neiravermi detto e replicato sì spesso che io non l'avrei a vita 107 fatta mai mia moglie : e che se io mai fossi venuto in chiaro di tale infamia dopo averla sposata, l'avrei certamente uccisa di mia mano, e me stesso forse sovr'essa, se pure l'avessi ancor tanto amata in quel punto, quanto purtroppo in questo l'amava. Ag- giunsi; che io pure la dispregiava un po' meno, per l'aver essa avuta la lealtà e il coraggio di confessarmi spontaneamente tal cosa; che non l'abbandonerei mai come amico, e che in qua- lunque ignorata parte d'Europa o d'America io era pronto ad andare con essa e conviverci purch'essa non mi fosse né paresse mai d'esser moglie. Così lasciatala il venerdì sera, agitato da mille furie alzatomi all'alba del sabato, e vistomi sul~tavolinouno di quei TSTTtt-fo- glioni pubblici che usano in Londra, vi slancio cosi a caso i miei occhi, e la prima cosache mi vi camta sotto è il mio nome. Oli spalanco, leggo ufi^Eel lunghettoarticolo, in cui tutto il mio accidente è narrato, individuato minutamente e con verità, e v'imparo di più le funeste e risibili particolarità del rivale pala- freniere di cui leggo il nome, l'età, la figura, e l'ampissima con- fessione da lui stesso fatta al padrone. Io ebbi a cader morto ad una tal lettura; ed allora soltanto riacquistando la luce della mente, mi avvidi e toccai con mano, che la perfida donna mi avea spontaneamente confessato ogni cosa dopo che il gazzet- tiere, in data del venerdì mattina, l'avea confessata egli al pub- blico. Perdei allora ogni freno e misura, corsi a casa sua, dove dopo averla invettivata con tutte le più amare furibonde e spre- gianti espressioni, miste sempre di amore, di dolor mortalissimo, e di disperati partiti, ebbi pure la vii debolezza di ritornarvi dopo averle giurato ch'ella non mi rivedrebbe mai più. E tor- natovi, mi vi trattenni tutto quel giorno : e vi tornai il susse- guente, e più altri, finché risolvendosi essa di uscir d'Inghilterra, dove eli' era divenuta la favola di tutti, e di andare in Francia a porsi per alcun tempo in un monastero', io l'accompagnai, e si errò intanto per varie province dell'Inghilterra per prolun- gare di stare insieme, fremendo io e bestemmiando dell'esservi, e non me ne potendo pure a niun conto separare. Colto final- mente un istante in cui potè più la vergogna e lo sdegno che l'amore, la lasciai \n Rochester, d\ dove essa con quella di lei cognata si avviò per Douvres in Francia, ed io me ne tornai a Londra. > Era cattolica, essendo irland^e. ^^S Vittorio Alfieri Giungendovi seppi che il marito avea proseguito 11 processo divorziale in mio nome, e che in ciò mi avea accordata la pre- ferenza sul nostro triumviro terzo, il proprio palafreniere; che anzi gh stava ancora in servizio: tanto è veramente generosa ed evangelica la gelosia degli Inglesi. Ma ed io pure mi debbo non poco lodare del procedere di quell'offeso marito. Non mi volle uccidere, potendolo verisimilmente fare: né mi volle multare in danari, come portano le leggi di quel paese, dove ogni offesa ha la sua tariffa, e le corna ve l'hanno altissima; a segno che s egli in vece di farmi cacciar la spada mi avesse voluto far cacciar la borsa, mi avrebbe impoverito o dissestato di molto- perchè tassandosi l'indennità in proporzione del danno egli Uvea ricevuto sì grave, atteso l'amore sviscerato ch'egli por- tava alla moglie, ed atteso che l'aggiunta del danno recatogli dal palafreniere, che per essere nullatenente non glie l'avrebbe potuto ristorare, ch'io tengo per fermo che a recaria a zecchini IO non me ne sarei potuto uscir netto a meno di dieci o dodici mila zecchini, e forse anche più. Quel bennato e moderato gio- vme SI comportò dunque meco in questo sgradevole affare assai meglio ch'io non aveva meritato. E proseguitosi in mio nome U processo, la cosa essendo troppo palpabile dai molti tesHmonj e dalle confessioni dei diversi personaggi, senza neppure il mio intervento, ne il menomo impedimento alla mia partenza dall'In- ghilterra, seppi poi dopo ch'era stato ratificato il totale divorzio Indiscretamente forse, ma pure a bell'apposta ho voluto smi- nuzzare in tutti i suoi amminicoli questo straordinario e per me importante accidente, sì perchè se ne fece grap rumore in quel tempo, sì perchè essendo stata questa «na delle principali occa- sioni in cui mi è venuto fatto di ben conoscere e porre alla prova diversamente me stesso, mi è sembrato che analizzandolo con verità e minutezza verrei anche a dar luogo a chi volesse più intimamente conoscermi, di ritrovarne in questo fatto un ampissimo mezzo. CAPITOLO DUODECIMO Ripreso il viaggio in Olanda, Francia, Spagna, Portogallo, e ritorno in patria. Dopo aver sopportata una sì feroce borrasca, non potendo io più trovar pace finché mi cadeano giornalmente sotto gli occhi quel luoghi stessi ed oggetti, mi lasciai facilmente persua- dere da quei pochi che sentivano una qualche amichevole pietà La vita 109 HAl^|t|mvmiAp. llO Vittorio Alfieri cevuta una mezza scortesia glie n'avrei restituite dieci, perchè sempre così ho operato per istinto ed impeto di natura, di ren- dere con usura sì il male che il bene. Onde non se ne fece altro. Ma in vece del Rousseau, intavolai bensì allora una conoscenza per me assai più importante con sei o otto dei primi uomini dell' I- talia e del mondo. Comprai in Parigi una raccolta dei principali poeti e prosatori italiani in 36 volumi di picciol sesto, e di gra- ziosa stampa, dei quali neppur uno me ne trovava aver meco dopo quei due anni del secondo mio viaggio. E questi illustri maestri mi accompagnarono poi sempre da allora in poi dappertutto; benché in quei primi due o tre anni non ne facessi a dir vero grand'uso. Certo che allora comprai la raccolta più per averla che non per leg- gerla, non mi sentendo nessuna né voglia né possibilità di applicar la mente in nulla. E quanto alla lingua italiana, sempre più m'era uscita dall'animo e dall' intendimento a tal segno, che ogni qua- lunque autore sopra il Metastasio * mi dava molto imbroglio ad intenderlo. Tuttavia, così per ozio e per noja, squadernando alla sfuggita que' miei 36 volumetti mi maravigliai del gran numero di rimatori che in compagnia dei nostri quattro sommi poeti erano stati collocati a far numero: gente, di cui (tanta era la mia ignoranza) io non avea mai neppure udito il nome : ed erano un Torracchione, un Morgante, un Ricciardetto, un Orlandino, un Malmantile' e che so io; poemi, dei quali molti anni dopo deplorai la triviale facilità, e la fastidiosa abondanza. Ma carissima mi riuscì la mia nuova compra, poiché mi misi d'allora in poi in casa per sempre que' sei luminari della lingua nostra, in cui tutto c'è: dico Dante, Petrarca, Ariosto, Tasso, Boccaccio e Machiavelli; e di cui (pur troppo per mia disgrazia e vergogna) io era giunto all' età di circa ventidue anni senza averne punto mai letto, toltone alcuni squarci dell'Ariosto nella mia prima adolescenza essendo in accademia, come mi pare di aver detto a suo luogo. Munito in tal guisa di questi possenti scudi contro l'ozio e la noja (ma invano, poiché sempre ozioso e noioso altrui e a me 1 Più difficile del Metastasio. » It Torracchione desolato di Bartolomeo Corsini, scritto verso il 1C60 e pubblicato la prima volta nel 1768; il Morgante di Luigi Pulci (I-I83); il Ricciardetto di Nicolò Forteguerri, composto tra il 1716 e il 1725 e pub- blicato nel 1736; l'Orlandino di Teofilo Folengo (1526); il A'.almantile riacquistato di Lorenzo Lippi, uscito postumo nel 1676. La vita 111 stesso rimanevarai), partii per la Spagna verso il mezzo agosto. E per Orleans, Tours, Poitiers, Bordeaux e Toulouse, attraversata senza occhi la più bella e ridente parte della Francia, entrai in Ispagna per la via di Perpignano ; e Barcellona fu la prima città dove mi volli alquanto trattenere da Parigi in poi. In tutto questo lungo tratto di viaggio non facendo per lo più altro che piangere tra me e me soletto in carrozza, ovvero a cavano, di quando m quando andava pur ripigliando alcun tometto del mio Montaigne, il quale da più di un anno non avea più guardato in viso. Questa lettura spezzata mi andava restituendo un pocolino di senno e di coraggio, ed una qualche consolazione anche me la dava. Alcuni giorni dopo essere arrivato a Barcellona, siccome i miei cavalli inglesi erano rimasti in Inghilterra, fuorché il bellissimo lasciato in custodia al marchese Caraccioli; e siccome io senza cavalli non son neppur mezzo, subito comprai due cavalli, di cui uno d'Andalusia della razza dei certosini di Xerez, stupendo ani- male, castagno d'oro; l'altro un' Hacha cordovese, un piccolo, ma eccellente, e spiritosissimo. Dacché era nato sempre avea deside- rato cavalli di Spagna, che difficilmente si possono estrarre : onde non mi parea vero di averne due si belli; e questi mi solleva- vano assai più che Montaigne. E su questi io designava di fare tutto il mio viaggio di Spagna, dovendo la carrozza andare a corte giornate a passo di mula, stante che posta per le carrozze non v'é stabilita, né vi potrebbe essere attese le pessime strade di tutto quel regno affricanissimo. Qualche indisposizionuccia avendomi costretto di soggiornare in Barcellona sino ai primi di novembre, in quel frattempo col mezzo di una grammatica e vocabolario spa- gnuolo mi era messo da me a leggicchiare, quella bellissima lingua, che riesce facile a noi Italiani; ed in fatti tanto leggeva 11 Don Quixote^, e bastantemente lo intendeva e gustava; ma in ciò molto mi riusciva di aiuto l'averlo già altre volte letto in francese. Postomi in vi* per Saragozza e Madrid, mi andava a poco a poco avvezzando a quel nuovissimo modo di viaggiare f>er quei deserti ; dove chi non ha molta gioventù, salute, danari e pazienza, non ci può resistere. Pure io mi vi feci' in quei quindici giorni di viaggio sino a Madrid, in maniera che poi mi tediava assai meno • Il Don Chisciotte d» Michele Onantcs (1605). • Assuefeci, ihltuai. 112 Vittorio Alfieri l'andare, che il soggiornare in qualunque di quelle semibarbare città: ma per me l'andare era sempre il massimo dei piaceri; e lo stare, il massimo degli sforzi; così volendo la mia irrequieta indole. Quasi tutta la strada soleva farla a piedi col mio bell'anda- luso accanto, che mi accompagnava come un fedelissimo cane, e ce la discorravamo fra noi due; ed era il mio gran gusto d'es- sere solo con lui in quei vasti deserti dell'Arragona ; perciò sem- pre facea precedere la mia gente col legno e le mule, ed io segui- tava di lontano. Elia frattanto sopra un muletto andava con lo schioppo a dritta e sinistra della strada cacciando e tirando co- nigli, lepri ed uccelli, che quelli sono gli abitatori della Spagna; e precedendomi poi di qualch'ora mi facea trovare di che sfamarmi alla posata^ del mezzogiorno, e così a quella della sera. Disgrazia mia (ma forse fortuna d'altri) che io in quel tempo non avessi nessunissimo mezzo né possibilità oramai di stendere in versi i miei diversi pensieri ed affetti : che in quelle solitudini e moto continuato avrei versato un diluvio di rime : infinite es- sendo le riflessioni malinconiche e morali, come anche le imagini e terribili, e liete, e miste e pazze, che mi si andavano affacciando alla mente. Ma non possedendo io allora nessuna lingua, e non mi sognando neppure di dovere né poter mai scrivere nessuna cosa né in prosa né in versi, io mi contentava di ruminar fra me stesso, e di piangere alle volte dirottamente senza saper di che, e nello stesso modo di ridere: due cose che se non sono poi segui- tate da scritto nessuno, son tenute per mera pazzia, e lo sono ; se partoriscono scritti, si chiamano poesia, e lo sono. In questo modo me la passai in quel primo viaggio sino a Ma- drid ; e tanto era il genio che era andato prendendo per quella vita di zingaro, che subito in Madrid mi tediai, e non mi vi trat- tenni che a stento un mesetto ; né ci trattai né conobbivi anima al mondo, eccetto un oriuolaio, giovine spagnuolo che tornava allora di Olanda, dove era andato per l'arte sua. Questo giovinetto era pieno d'ingegno naturale, ed avendo un pocolino visto il mondo si mostrava meco addoloratissimo di tutte le tante e sì diverse bar- barie che ingombravano la di lui patria. E qui narrerò brevemente una mia pazza bestialità che mi accadde di (are contro il mio Elia, trovandovisi in terzo codesto giovine Spagnuolo. Una sera che questo oriuolajo avea cenato meco, e che ancora si stava discor- I Osteria, in spagnuolo posada. La vita 113 rendo a tavola dopo cenati, entrò Elia per ravviarmi al solito 1 capelli per poi andarcene tutti a letto ; e nello stringere col com- passo* una ciocca di capelli, me ne tirò un pochino più l'uno che l'altro. Io, senza dirgli parola, balzato in piedi più ratto che fol- gore, di un man rovescio con uno dei candelieri ch'avea impu- gnato glie ne menai un così fiero colpo su la tempia diritta, che il sangue zampillò ad uu tratto come da una fonte sin sopra il viso e tutta la persona di quel giovine che mi stava seduto in faccia dal- l'altra parte di quella assai ben larga tavola dove si era cenati. Quel giovane, che mi credè (con ragione) impazzito subitamente, non avendo osservato né potendo dubitare che un capello tirato avesse cagionato quel mio improvviso furore, saltò subito su egli pare come per tenermi. Ma già in quel frattempo l'animoso ed offeso e fieramente ferito Elia, mi era saltato addosso per pic- chiarmi ; e ben fece. Ma io allora snellissimo gli scivolai di sotto, ed era già saltato su la mia spada che stava in camera posata su un cassettone, ed avea avuto il tempo di sfoderarla. Ma Elia infe- rocito mi tornava incontro, ed io glie l'appuntava al petto ; e lo Spagnuolo a rattenere ora Elia, ed or me; e tutta la locanda a romore; e i camerieri saliti, e così separata la zuffa tragicomica e scandalosissima per parte mia. Rappaciati alquanto gli animi si entrò negli schiarimenti ; io dissi che l'essermi sentito tirar i capelli mi avea messo fuor di me; Elia disse di non essersene avvisto nep- pure; e lo Spagnuolo appurò ch'io non era impazzito, ma che pure savissimo non era. Così finì quella orribile rissa, di cui io rimasi dolentisimo e vergognosissimo, e dissi ad Elia ch'egli avrebbe fatto benissimo ad ammazzarmi. Ed era uomo da farlo; essendo egli di statura quasi un palmo più di me che sono altissimo; e di coraggio e forza niente inferiore all'aspetto. La piaga della tempia non fu profonda, ma sanguinò moltissimo, e poco più in su che l'avessi colto, io mi trovava aver ucciso un nomo che amavo mol- tissimo per via d'un capello più o meno tirato. Inorridii molto di un così bestiale eccesso di collera; e benché vedessi Elia al- quanto placato, ma non rasserenato meco, non volli pure né mo- strare né nutrire diffidenza alcuna di lui; e un par d'ore dopo, fasciata che fu la ferita, e rimessa in sesto ogni cosa me n'andai a Ietto, lasciando la porticina che metteva In camera di Elia, ade- 1 Strumento per spartire i capelU. 8. - CtanM ItaUaid. N. 2. 114 Vittorio Alfieri rente alla mia, aperta al solito, e senza voler ascoltai eie Spagnuolo che mi avvertiva di non invitare così un uomo offeso e irritato di fresco ad una qualche vendetta. Ma io anzi dissi forte ad Elia che era già stato posto a letto, che egli poteva volendo uccidermi quella notte se ciò gli tornava comodo, poiché io lo meritava. Ma egli era eroe per lo meno quanto me; né altra vendetta mai volle prendere, che di conservare poi sempre due fazzoletti pieni zeppi di sangue, coi quali s'era rasciutta da prima la fumante piaga; e di poi mostrarmeli qualche volta, che li serbò per degli anni ben molti. Questo reciproco misto di ferocia e di generosità per parte di entrambi di noi, non si potrà facilmente capire da chi non ha esperienza dei costumi e del sangue di noi Piemontesi. Io, nel rendere poi dopo ragione a me stesso del mio orribile ./ trasporto, fui chiaramente convinto, che aggiunta all'eccessivo ' irascibile della natura mia l'asprezza occasionata dalla continua solitudine ed ozio, quella tiratura di capello avea colmato il vaso, e fattolo in quell'attimo traboccare. Del resto io non ho mai battuto nessuno che mi servisse se non se come avrei fatto un mio eguale; e non mai con bastone né altr'arme, ma con pugni, o seggiole, o qualunque altra cosa mi fosse caduta sotto la mano, come accade quando da giovine altri, provocandoti ti sforzi a menar le mani. Ma nelle pochissime volte che tal cosa mi av- venne, avrei sempre approvato e stimato quei servi che mi aves- sero risalutato con lo stesso picchiare: atteso che io non inten- deva mai di battere il servo come padrone, ma di altercare da uomo ad uomo*. . , Vivendo così come orso terminai il mio breve soggiorno in Madrid, dove non vidi nessunissima delle non nioUe cose che poteano eccitare qualche curiosità; né il P^^-f /«"'^Xiwrf famosissimo, né Aranjuez^ né il palazzo pure del re ;« ^«^^ ^. non che vedervi il padrone di esso^ E cagione principale d questa straordinaria salvatichezza fu. l'essere io mezzo guasto col nostro > Per altri episodi che dimostrano la natura collenca ed «mPil^Jv» J'J A. rfr D S.LVAONi. La Corte e la società romana ecc Roma. 1834. I, p. 387 ; A D'Ancona, Varietà storiche e letterarie. 1- Serie, Milano, 1883. ''^. cÌ:„re monastero fatto erigere da Filippo II (1562 1584) In se^i.to ad un voto da lui fatto durante la battaglia di S. Quintìno. » Bel castello, residenza reale, sul Tago. « Carlo III, r« di Spagna dal 1759 al 1788. La vUa 115 arabasciator di Sardegna'; ch'io avea conosciuto in Londra dal primo viaggio ch'io ci avea fatto nel 1768, dove egli era allora ministro, e non c'eramo niente piaciuti l'un l'altro. Nell'arrivare io a Madrid, saputo ch'egli era con la corte in una di quelle ville reali, colsi subito il tempo ch'egli non v'era, e lasciai il polizzino di visita con una commendatizia della segreteria di stato che avea recato meco com'è d'uso. Tornato egli in Madrid fu da me, non mi trovò ; né io più mal cercai di lui, né egli di me. E tutto questo non contribuiva forse poco a sempre più innasprire il mio già bastantemente insoave ed irto carattere. Lasciai dunque Madrid verso i primi del dicembre, e per Toledo, e Badajoz, mi avviai a passo a passo verso Lisbona, dove dopo circa 20 giorni di viaggio arrivai la vigilia del Natale. Lo spettacolo di quella città la quale a chi vi approda, come io, da oltre il Tago, si presenta in aspetto teatrale e magnifico quasi quanto quello di Genova, con maggiore estensione e va- rietà, mi rapì veramente, massime in una certa distanza. La ma- raviglia poi e il diletto andavano scemando all'approssimar della ripa, e intieramente poi mi si trasmutavano in oggetto di tristezza e squallore allo sbarcare fra certe strade, intere isole di muriccie avanzi del terremoto *, accatastate e spartite allineate a guisa di isole di abitati edifizi. C di cotali strade se ne vedevano ancora moltissime nella parte bassa della città, benché fossero già oramai trascorsi 15 anni dopo quella funesta catastrofe. Quel mio breve soggiorno in Lisbona di circa cinque settimane, sarà p)er me un'epoca sempre memorabile e cara, per avervi io imparato a conoscere l'abate Tommaso di Caluso^, fratello minore del conte Valperga dì Masino allora nostro ministro in Portogallo. Quest'uomo, raro per l'indole, i costumi e la dottrina, mi rendè delizioso codesto soggiorno, a segno che, oltre al vederlo per lo più ogni mattina a pranzo dal fratello, anche le lunghe serate dell'inverno io preferiva pure di passarmele intere da solo a solo con lui, piuttosto che correre attorno pe' divertimenti sciocchis- simi del gran mondo. Con esso io imparava sempre qualche cosa; e tanta era la di lui bontà e tolleranza, che egli sapea per così > n conte di Viry. \B.\. » Rottami: laterizi, sassi, avanzi del terremoto del 1755 descritto dal Baretti {Lettere familiari, xiv). * Tommaso Valperga di Caluso, dotto astronomo ed orìentalitta, nato • morto « Torino (1737-18IS). 115 Vittorio Alfieri dire alleggerirmi la vergogna ed il peso della mia ignoranza estrema, la quale tanto più fastidiosa e stomachevole gh dovea pur comparire, quanto maggiore ed immenso era in esso il sapere Cosa, che non mi essendo fin allora accaduta con nessuno de non molti letterati ch'io avessi dovuto trattare, me h avea fa ti tutti prendere a noja. E ben dovea essere cos., non essendo n „,e niente minore l'orgoglio, che l'ignoranza. Fu m una di quelle dolcissime serate, ch'io ErovaLnel più intimo della mente^e del cuore un inmeiaJteramente febeo, di i^pimeato-entuciaetic- p-r l'artr^éirr^o^siT^^ pure non fu cH^ un brevissimo lampo, chThSSI^atamente si tornò a spegnere, e dormì poi sotto cenere ancora degli anni ben molti. Il degnissimo e compiacentissimo abate mi stava leggendo quella grandiosa ode del Ouidi alla Fortuna^ ; poeta, di cui sino a quel giorno io non avea neppur mai udito il nome. Alcune stanze di quella canzone, e specialmente la bellissima di Pompeo, mi trasportarono a un segno indicibile talché il buon abate si persuase e mi disse che io era nato per far versi, e che avrei potuto, studiando, pervenire a farne degl ottimi. Ma io, passato quel momentaneo furore, trovandomi così irrugginite tutte le facoltà della mente, non la credei oramai cosa possibile, e non ci pensai altrimenti. Intanto l'amicizia e la soave compagnia di quell'uomo unico, che è un Montaigne vivo, mi giovò assaissimo a riassestarmi un POCO l'animo; onde, ancorché non mi sentissi del tutto guanto L riavvezzai pure a poco a poco a legicchiare, e riflettere assa più che non avessi ciò fatto da circa diciotto mesi. Quanto po alla città di Lisbona, dove non mi sarei trattenuto neppur dieci giorni, se non vi fosse stato l'Abate, nulla me ne Pi-que uor.hè fn generale le donne, nelle quali veramente abonda 1 lubncus adspki di Orazio. Ma, essendomi ridivenuta mille volte più cara "a Se dell'animo che quella del corpo, io mi studiai e riuscii di sfueeire sempre le oneste. Verso i primi di febbraio partii alla volta di Siviglia e di Cadice; né portai meco altra cosa di Lisbona, se non una stima ed ami- cizia somma pel suddetto abate di Caluso. eh' io sperava di rived r poi, quando che fosse, in Torino. Di Siviglia me ne andò a gemo ilbel clima.e la faccia originalissima e spagnuolissima che tut- La vita 117 tavia conservavasi codesta città sovra ogni altra del regno. Ed lo sempre ho preferito originale anche tristo ad ottima copia. La nazione spagnuola, e la portoghese, sono infatti quasi oramai le sole di Europa che conservino i loro costumi, specialmente nel basso e medio ceto. E benché il buono vi sia quasi naufrago in un mare di storture di ogni genere che vi predominano, io credo tuttavia quel popolo una eccellente materia prima per potersi ad- dirizzar facilmente ad operar cose grandi, massimamente in virtù militare: avendone essi in sovrano grado tutti gli elementi; co- raggio, perseveranza, onore, sobrietà, obbedienza, pazienza, ed altezza d'animo. In Cadice terminai il carnevale bastantemente lieto. Ma mi av- vidi alcuni giorni dopo esserne partito alla volta di Cordova, che riportato n'avea meco delle memorie gaditane', che alcun tempo mi durerebbero. Quelle ferite poco gloriose mi amareg- giarono assai quel lunghissimo viaggio da Cadice a Torino, ch'io intrapresi di fare d'un sol fiato così ad oncia ad oncia per tutta la lunghezza della Spagna sino ai confini di Francia, di dove già v'era entrato. Ma pure a forza di robustezza, ostina- zione e sofferenza, cavalcando, sfangando a piedi, e strapazzan- domi d'ogni maniera, arrivai, assai mal concio a dir vero, a Per- pignano, di dove poi continuando per le poste ebbi a soffrir molto meno. In quel gran tratto di terra i due soli luoghi che mi diedero una qualche soddisfazione, furono Cordova e Valenza: massimamente poi tutto il regno di Valenza, che misurai per lo lungo sul finir di marzo, ed era per tutto una primavera tepida e deliziosissima, di quelle veramente descritte dai poeti. Le adia- cenze poi e i passeggi, e le limpide acque, e la posizione locale della città di Valenza, e il bellissimo azzurro del di lei cielo, e un non so che di elastico ed amoroso nell'atmosfera; e donne i di cui occhi protervi mi faceano bestemmiare le gaditane; e un tutto in somma, si fatto mi si appresentò in quel favoloso paese, che nessun'altra terra mi ha lasciato un tale desiderio di sé, né mi si riaffaccia si spesso alla fantasia quanto codesta. Giunto per la via di Toriosa una seconda volta in Barcellona, e tediatissimo del viaggiare a così lento passo, feci il gran di- stacco dal mio bellissimo cavallo andaluso, che per essere molto I Di Cadice; memorie che il Parini (Mattino, w. 16-19) dice ironica- ■ente < onorate >. "8 Vittorio Alfieri affaticato da quest'ultimo viaggio di trenta e piìi giorni conse- cutivi da Cadice a Barcellona, non lo volea strapazzar maggior- mente col farmelo trottar dietro il legno quando sarei partito per Perpignano a marcia duplicata. L'altro mio cavallo, il cordovesino, essendomisi azzoppito fra Cordova e Valenza, piuttosto che trat- tenermi due giorni che forse si sarebbe riavuto, lo avea regalato alle figlie di una ostessa molto belline, raccomandandolo che se lo curavano e gli davano un po' di riposo, rinsanito lo vendereb- bero benissimo; né mai più ne seppi altro. Quest'ultimo dunque rimastomi, non lo volendo io vendere, perchè sono per natura nemicissimo del vendere, lo regalai ad un banchiere francese do- miciliato in Barcellona, già mio conoscente sin dalla mia prima dimora in codesta città. E qui, per definire e dimostrare quel che sia il cuore di un pubblicano», aggiungerò una particolarità. Es- sendomi rimaste di più forse un trecento doppie d'oro di Spagna, che attese le severe perquisizioni che si fanno alle dogane di fron- tiera all'uscire di Spagna, difficilmente forse le avrei potuto estrarre 2, essendo cosa proibita; richiesi al suddetto banchiere, dopo avergli regalato il cavallo, che mi desse una cambiale di codesta somma pagabile a vista in Monpellieri di dove mi toc- cava passare. Ed egli, per testificarmi la sua gratitudine, ricevute le mie doppie sonanti, mi concepì la cambiale in tutto quel mas- simo rigore di cambio che f acea in quella settimana ; talché poi a JVlonpellieri riscotendo la somma in luigi, mi trovai aver meno circa il sette per cento di quello ch'io avrei ricavato se vi avessi portate e scambiate le mie doppie effettive. JV\a io non avea neppur bisogno di aver provato questa cortesia banchieresca per fissare la mia opinione su codesta classe di gente, che sempre mi è sem- brata l'una delle più vili e pessime del mondo sociale'; e ciò tanto più, quanto essi si van mascherando da signori, e mentre vi danno un lauto pranzo in casa loro per fasto, vi spogliano per uso d 'arte al loro banco; e sempre poi sono pronti ad impinguarsi delle calamità pubbliche. A fretta in furia, facendo con danari basto- nare le tardissime mule mi portai dunque in due giorni soli di Barcellona a Perpignano, dove ce n'avea impiegati quattro al venire. E la fretta poi mi era sì fattamente rientrata addosso, > Appaltatore delle pubbliche entrate; uomo d'affari. « Portar fuori. • Cfr. la «'«tir» dell'A. : // Commercia. La vUa 119 che di Perpignano in Antìbo volando per le poste, non mi trattenni mai, né in Narbona, né in Monpellieri, né in Alx. Ed in Antibo subito imbarcatomi per Genova, dove solo per ripo- sarmi soggiornai tre giorni, di lì mi restituiva in patria due altri giorni trattenendomi presso mia madre in Asti ; e quindi, dopo tre anni di assenza, in Torino, dove giunsi il dì quinto di maggio dell'anno 1772. Nel passare di Monpellieri io avea consultato un chirurgo di alto grido, su i miei incomodi incettati in Cadice. Costui mi ci voleri far trattenere; ma io, fidandomi alquanto su l'esperienza che avea ormai contratta di simili incomodi, e sul parere del mio Elia, che di queste cose intendeva benissimo, e m! avea già altre volte perfettamente guarito in Germania, ed altrove; senza dar retta all'ingordo chirurgo di Monpellieri, avea proseguito, come dissi, il mio viaggio rapidissimamente. Ma lo strapazzo stesso di due mesi di viaggio avea molto aggravato il male. Onde al mio arrivo in Torino, sendo assaijnaLEÌdotto,_ebbt che fare quasi tutta l'estate- per rimettgfmi.ln"sahite. E-ytesto fa il principal frutto dei tre anni di questo secondo mioj viaggio. CAPITOLO DECIMOTERZO Poco dopo essere rimpatriato, incappo nella terza rete amorosa. Primi tentativi di poesia. Ma benché agli occhi dei più, ed anche ai miei, nessun buon frutto avessi riportato da quei cinque anni di viaggi, mi si erano con tutto ciò assai allargate le ide, e rettificato non poco il pen- sare; talché, quando il mio cognato mi volle riparlare d'impieghi diplomatici che avrei dovuto sollecitare, io gli risposi : Che avendd veduti un pochino più da presso ed i re, e coloro che gli rap- presentano, e non li potendo stimare un jota nessuni, io non avrei voluto rappresentare né anche il Gran Mogol, non che pren- dessi mai a rappresentare il più piccolo di tutti i re dell'Europa, qual era il nostro: e che non rimaneva altro compenso a chi si trovava nato in simili paesi, se non di camparvi del suo, aven- dovelo, e d'impiegarsi da sé in una qualche lodevole occupa- zione sotto gli auspici i'avorevolissimi sem.Dre^H^lla hftat^l '".'l'- pendenza. Questi miei detti fecero torcere moltissimo il muso a quell'ottimo uomo che trovavasi essere uno dei gentiluomini di camera del re; né mai più avendomi egli parlato di ciò, io sempre più mi confermai nel mio proposito 120 Vittorio Alfieri Io mi trovava allora in età di ventitré anni; bastantemente ricco, pel mio paese; libero, quanto vi si può essere; esperto, benché così alla peggio, delle cose e morali e politiche, per aver veduti successivamente tanti diversi paesi e tanti uommi; pen- satore, più assai che non lo comportasse quell'età; e presumente anche più che ignorante. Con questi dati mi rimaneano neces- sariamente da farsi molti altri errori, prima che dovessi pur ntro- vare un qualche lodevole ed utile sfogo al bollore del mio impe- tuoso intollerante e superbo carattere. In fine di quell'anno del mio ripatriamento, provvistami in Torino una magnifica casa posta su la piazza bellissima di San Carlo \ e ammobiliatala con lusso e gusto e singolarità, mi posi a far vita di gaudente con gli amici, che allora me ne ritrovai averne a dovizia. Gli antichi miei compagni d'accademia, e di tutte quelle prime scappataggini di gioventù, furono di nuovo i miei intimi; etra quelli, forse un dodici e più di persone, strin- gendoci più assiduamente insieme, venimmo a stabilire una so- cietà permanente, con ammissione od esclusiva ad essa per via di voti e regole, e buffonerie diverse, che poteano forse somi- gliare, ma non erano però. Libera Muratoreria. Né di tal società altro fine ci proponevamo, fuorché divertirci, cenando spesso insieme (senza però nessunissimo scandalo); e del resto nell adu- nanze periodiche settimanali la sera, ragionando o sragionando sovra ogni cosa. Tenevansi queste auguste sessioni in casa mia, perchè era e più bella e più spaziosa di quelle dei compagm, e perchè essendovi io solo si rimaneva più Uberi. C'era fra questi giovani (che tutti erano ben nati e dei primarj della citta) un pò° d'ogni cosa; dei ricchi e dei poveri, dei buoni, dei cattivucc. e degli ottimi, degli ingegnosi, degli sciocchetti, e dei colt : onde da sì fatta mistura, che il caso la ^ornv^^^'^rò oii.r..ra..^^- perata, risultava che io né vi potea, né avrei voluto Potendolo primeggiare in niun modo, ancorché avessi veduto più cose di loro Quindi le leggi che vi si stabilirono furono discusse e non già dettate ; e riuscirono imparziali, egualissime, e giuste ; a segno c^e un corpo di persone come eramo noi, tanto PO «a foiidare una ben equilibrata repubblica, come una ben equilibrata bu fo- nerìa La sorte e le circostanze vollero che si fabbricasse piut- . Presso la chiesa di S. Carlo, nel palazzo che apparteneva ai conti di Villa. {B.\. La vita 121 tosto questa che quella. Sì era stabilito un ceppo assai ben capace, dalla di cui spaccatura superiore vi si introducevano scritti d'ogni specie, da leggersi poi dal presidente nostro elettivo ebdoma- dario, il qaaie tenea di esso eeppo la ihiivc. Fra quegli scritti se ne sentivano talvolta alcuni assai divertenti e bizzarri; se ne indovinavano per lo più gli autori, ma non portavano nome. Per nostra comune e più particolare sventura, quegli scritti erano tutti-in (non dirò lingua), ma in parole francesi. Io ebbi la sorte d'introdurre varie carte nel ceppo, le quali divertirono assai la brigata: ed erano cose facete miste di filosofia e d'impertinenza, scritte in francese che dovea essere almeno non buono, se pure non pessimo, ma riuscivano pure intelligibili e passabili per un uditorio che non era più dotto di me in quella lingua. E fra gli altri, uno ne introdussi, e tuttavia lo conservo, che fingeva la scena di un Giudizio Universale, in cui Dio domandando alle diverse anime un pieno conto di se stesse, ci avea rappresentate diverse persone che dipingevano i loro proprj caratteri; e questo ebbe molto incontro perchè era fatto con un qualche sale, e molta verità ; talché le allusioni, e i ritratti vivissimi e lieti e variati di molti sì uomini che donne della nostra città, venivano ricono- sciuti e nominati immediatamente da tutto l'uditorio. Questo piccolo saggio del mio poter mettere in carta le mie idee quali ch'elle fossero; e di potere, nel farlo, un qualche diletto recare ad altrui, mi andò poi di tempo in tempo saet- tando un qualche lampo confuso di desiderio e di speranza di scrivere quando che fosse qualcosa che potesse aver vita; ma non mi sapeva neppur io quale potrebbe mai essere la materia, vedendomi sprovvisto di quasi tutti i mezzi. Per natura mia prima, a nessuna altra cosa inclinava quanto alla satira, ed all'ap- piccicare il ridicolo si alle cose che alle persone. Ma pure poi riflettendo e pensando, ancorché mi vi paresse dovervi aver forse qualche destrezza, non apprezzava io nell'intimo cuore gran fatto questo si fallace genere; il di cui buon esito, spesso momentaneo, é posto e radicato assai più nella malignità e invidia naturale degli uomini gongolanti sempre allorché vedono mordere i loro simili, che non nel merito intrinseco^ del morditore. Intanto per allora la divagazione somma e continua, la libertà totale, le donne, i miei 24 anni, e i cavalli di cui avea spinto ti numero sino a dodici e più, tutti questi ostacoli potentissimi al non far nulla di buono, presto spegnevano od assopivano In me 122 Vittorio Alfieri ogni qualunque velleità di divenire autore. Vegetando io dunque così in questa vita giovenile oziosissima, non avendo mai un istante quasi di mio, né mai aprendo più un libro di sorte nes- suna, incappai (come ben dovea essere) di bel nuovo in un tristo amore ; dal quale poi dopo infinite angosce, ^^ergogae, e dolori, ne uscii finalmente col vero, fortissimo e frenetica a.m.orp~aST'ga- pere e del fare, il quale d'allora in poi_npn.-»i-abbandonò_mai piuT e c&e, se non altro, mi ha una volta s9ttratto.iLagli__££{^ della noja, della sazietàj^e dell'ozio; e^dirò piii, dalk dispera- , zionerVérs5'Tà~quale a poc5'Tt-po€o4o-«i--5enHva"stft'sciiM^ talmente,"che se non fili fossi ingólf afo~pòl ra~utia continua' e f aratssima occupazione di niente, non v^ra^-certaraèirt«rpSf~raè nessun altro compenso che mi potesse impedire ^p^ina_deijtren- t'anni dalL'JùffiipazzlrérQraflQgarinl. "~"~ Questa mia terza ebrezza d'amore fu veramente sconcia, e pur troppo lungamente anche durò. Era la mia nuova fiamma una donna \ distinta di nascita, ma di non troppo buon nome nel mondo galante, ed anche attempatetta ; cioè maggiore di me di circa nove in dieci anni. Una passeggiera amicizia era già stata tra noi, al mio primo uscire nel mondo, quando ancora era nel primo appartamento dell'Accademia. Saio più anni dopo, il trovarmi allog- giato di faccia a lei*, il vedermi da essa festeggiato moltissimo; il non far nulla; e l'essere io forse una di quelle anime di cui dice con tanta verità ed affetto il Petrarca: So di che poco canape si allaccia Un'anima gentil, quand'ella è sola, E non è chi per lei difesa faccia: ed in somma il mio buon padre Apollo che forse per tal via straordinaria mi volea chiamare a sé; fatto si è, ch'io, benché da principio non l'amassi, né mai poi la stimassi, e neppure la di lei bellezza non ordinaria mi andasse a genio; con tutto ciò credendo come un mentecatto al di lei immenso amore per me, a poco a poco l'amai davvero, e mi c'ingolfai sino agli occhi. Non vi fu più per me né divertimenti, né amici; per fino gli ado- rati cavalli furono da me trascurati. Dalla mattina all'otto fino » Gabriella Falletti di Villafalletto, moglie di Giovanni Antonio Ercole Turinettl marchese di Priero. [B.]. » Essa abitava sul lato opposto della piazza, accanto alla chiesa di 8. Cristina. 1^]. La vita i23 alle dodici della sera eternamente seco, scontento dell'esserci, e non potendo pnre non esserci: bizzarro e tormentosissimo stato, in cui vissi non ostante (o vegetai, per dir meglio) da circa il mezzo dell'anno 1773; sino a tutto il febbraio del 75; senza contar poi la coda* di questa per me fatale e ad tm tempo fausta cometa. CAPITOLO DECIMOQUARTO Malattia, e ravvedimento. Nel lungo tempo che durò questa pratica', arrabbiando io dalla mattina alla sera, facilmente mi alterai la salute. Ed in fatti nel fine del 73 ebbi una malattia non lunga ma fierissima, e straor- dinaria a segno che i maligni begl' ingegni, di cui Torino non manca, dissero argutamente ch'io l'avea inventata esclusivamente per me. Cominciò con lo dar di stomaco per ben trentasei ore continue, in cui non v'essendo più neppur umido da rigettare, si era risoluto il vomito in un singhiozzo sforzoso, con una or- rìbile convulsione del diaframma che neppur l'acqua in picco- lissimi sorsi mi permettea d'ingoiare. I medici, temendo l'infiam- mazione, mi cacciarono sangue dal piede, e immediatamente cessò lo sforzo di quel vomito asciutto, ma mi si impossessò una tal convulsione universale, e subsultazione dei nervi tutti, che a scosse terribili ora andava percuotendo il capo nella te- stiera del letto, se non me la teneano, ora le mani e massima- mente i gomiti, contro qualunque cosa vi fosse stata aderente. Né alcunissimo nutrimento, o bevanda, per nessuna via mi si potea far prendere, perchè all'avvicinarsi o vaso o istro- mento qualunque a qualunque orifizio, prima anche di toccare la patts, era tale lo scatto cagionato dai subsuiti nervosi, che nes- suna forza valeva a impedirli: anzi, se mi voleano tener fermo con violenza era assai peggio, ed io ammalato dopo anche quattro giorni di totale digiuno, estenuato di forze, conservava però un tale orgasmo di muscoli, che mi venivano fatti allora degli sforzi che non avrei mai potuti fare essendo in piena sa- lute. In questo modo passai cinque giorni interi In cui non mi vennero inghiottiti forse venti o trenta sorsetti di acqua presi « Il «ejfiiilo di quelli religione che veramenfe durò anrort fino ti *V * ReitTione itnoroM. 124 ^ ,, Vittorio Alfieri così a contrattempo di volo, e spesso immediatamente rigettati. Finalmente nel sesto la convulsione allentò, mediante le cinque e le sei ore il giorno clie fui tenuto in un bagno caldissimo di mezz'olio e mezz'acqua. Riapertasi la via dell'esofago in pochi giorni col bere moltissimo siere fui risanato. La lunghezza del digiuno e gli sforzi del vomito erano stati tali, che nella forcina dello stomaco fra quei due ossucci che la compongono vi si formò un tal vuoto, che un uovo di mezzana grandezza vi potea capire ; né mai poi mi si ripianò come prima. La rabbia, la ver- gogna, e il dolore, in cui mi facea sempre vivere queir indegno amore, mi aveano cagionata quella singoiar malattia. Ed io, non vedendo strada per me di uscire di quel sozzo laberinto, sperai, e desiderai di morirne. Nel quinto giorno del male, quando più si temeva dai medici che non ne ritornerei, mi fu messo intorno un degno cavaliere mio amico, ma assai più vecchio di me, per indurmi a ciò che il suo viso e i preamboli del suo dire mi fe- cero indovinare prima ch'egli parlasse; cioè a confessarmi e testare. Lo prevenni, col domandar l'uno e l'altro, né questo mi sturbò punto l'animo. In due o tre aspetti mi occorse di rimirare ben in faccia la morte nella mia gioventù; e mi pare di averia ricevuS" 'semirrF"con~tOTtcSS^ Chi sa poi, se quando ella mi si riaffaccierà irremissibile io nello stesso modo la rice- verò. Bisogna veramente che l'uomo muoia, perchè altri possa appurare, ed ei stesso, il di lui giusto valore. Risorto da quella malattia, ripigliai tristamente le mie catene amorose. Ma per levarmene pure qualcun'altra d'addosso, non volli più lungamente godermi i lacci militari, che sommamente mi erano sempre dispiaciuti, abborrendo io quell'infame mestiere dell'armi sotto un'autorità assoluta qualch'ella sia; cosa, che sempre esclude il sacrosanto nome di^^patrlaTNon negherò pure, che'TìTTrn^ Punto"TXTnTarVenere non fosse più assai per me opprobriosa che non era il mio Marte. In somma fui dal colon- nello, e allegando la salute domandai dimissione dal servìzio, che non avea a dir vero prestato mai; poiché in circa ott'anni che portai l'uniforme cinque gli avea passati fuor del paese, e nei tre altri appena cinque riviste avea passate, che due l'anno se ne passavano solo in quei reggimenti di milizie provinciali in cui avea preso servizio. Il colonnello volle ch'io ci pensassi del- l'altro prima di chiedere per me codesta dimissione; accettai per civiltà il suo invito, e simulando di avervi pensato altri 15 giorni, la ridomandai più fermamente, e l'ottenni. La vita 125 Io .frattanto strascinava i miei tnorni nel serventismo, vergo- ^ gnoso di me stesso, noioso e annoiato, sfuggendo ogni mio co- ^ noscente ed amico, sui di cui visi io benissimo leggeva tacita- J mente scolpita la mia opprobriosa dahenaggrine. Avvenne poi nel gennaio del 1774, che quella mia signora s'ammalò di un male di cui forse poteva esser io la cagione, benché non intieramente il credessi. E richiedendo il suo male ch'ella stesse in totale ri- poso e silenzio, fedelmente io le stava a pie del letto seduto per servirla ; e ci stava dalla mattina alla sera, senza pure aprir bocca per non le nuocere col farla parlare. In una di queste poco certo divertenti sedute, io mosso dal tedio, dato di piglio a cinque o sei fogli di carta che mi caddero sotto mano, cominciai così a caso, e senza aver piano nessuno, a schiccherare una scena di una non so come chiamarla, se tragedia, o commedia, se d'un sol atto, o di cinque, o di dieci; ma in somma delle parole a guisa di dialogo, e a guisa di versi, tra un Potino, una Donna ed una Cleopatra che poi sopravveniva dopo un lunghetto par- lare fra codesti due prima nominati. Ed a quella Donna, doven- dole pur dare un nome, né altro sovvenendomene, appiccicai quel di Lachesi, senza pur ricordarmi ch'ella delle tre Parche era l'una. E mi pare, ora esaminandola, tanto più strana quella mia subitanea impresa, quanto da circa sei e più anni io non aveva mai più scritto una parola italiana, pochissimo e assai di rado e con lunghissime interruzioni ne avea letto. Eppure così in un subito, né saprei dire né come né perchè, mi accinsi a sten- dere quelle scene in lingua italiana ed in versi. Ma, affinchè il lettore possa giudicar da sé stesso della scarsezza del mio patri- monio poetico in quel tempo, trascriverò qui in fondo di pagina a guisa di nota un bastante squarcio di codesta composizione', e fedelissimamente lo trascriverò dall'originale che tuttavia con- servo, con tutti gli spropositi per fino di ortografia con cui fu scritto : e spero, che se non altro questi versi potranno far ridere chi vorrà dar loro un'occhiata, come vanno facendo ridere me nell'atto del trascrìverli; e principalmente la scena fra Cleopatra e Photino. Aggiungerò una particolarità, ed è: che nessun' altra ragione in quel primo Istante ch'Io cominciai a imbrattar que' fogli mi indusse a far parlare Cleopatra piuttosto che Berenice, o Zenobia, o qualunque altra regina tragediabile, fuorché l'esser I V. Apptndict • questo capitolo. 128 Vittorio Alfieri io 1VTS320 da me^ ed anni a vedere nell'anticamera di queu* signora alcuni bellissimi arazzi, che rappresentavano varj fatti di Cleopatra e d'Antonio. Guarì poi la mia signort di codesta sua indisposizione; ed io senza mai più pensare a questa mia sceneggiatura risibile, la depositai sotto un cuscino della di lei poltroncina, dove ella si stette obbliata circa un anno; e così furono frattanto sì dalla signora che vi si sedea abitualmente, sì da qualunque altri a caso vi si adagiasse, covate in tal guisa fra la poltroncina e il sedere di molti quelle mie tragiche primizie. rMa, trovandomi vie più sempre tediato ed arrabbiato di far quella vita serventesca, nel maggio di quello stesso anno 74, \ presi subitaneamente la determinazione di partire per Roma, a provare se il viaggio e la lontananza mi guarirebbero di quella morbosa passione. Afferrai l'occasione d'una acerba disputa avuta con la mia signora (e queste non erano rare), e senza dir altro, tornato la sera a casa mia, nel giorno consecutivo feci tutte le mie disposizioni, e passato tutto queir intero giorno senza ca- pitar da lei, la mattina dopo per tempissimo me ne partii alla volta di Milano. Essa non lo seppe che la sera prima (credo il sapesse da qualcuno di casa mia), e subito quella sera stessa al tardi mi rimandò, come è d'uso, e lettere e ritratto. Quest'invio già principiò a guastarmi la testa, e la mia risoluzione già tea tennava. Tuttavia, fattomi buon animo, mi avviai, come dissi, per le poste verso Milano. Giunto la sera a Novara, saettato tutto il giorno da quella sguaiatissima passione, ecco che il pen- timento, il dolore e la viltà mi muovono un si feroce assalto al cuore, che fattasi ornai vana ogni ragion^:, sordo al vero, repen- tinamente mi cangio. Fo proseguire verso Milano un abate fran- cese ch'io m'era preso per compagno, con la carrozza e i miei servi, dicendo loro di aspettarmi in Milano. In tanto, io soletto, sei ore innanzi giorno salto a cavallo col postiglione per guida, corro tutta la notte, e il giorno poi di buon'ora mi ritrovo un'altra volta a Torino: ma per non mi vi far vedere, e non esser la favola di tutti, non entro in città; mi soffermo in una osteriaccia del sobborgo, e di là supplichevolmente scrivo alla mia signora adirata: perch'ella mi perdoni questa scappata, e mi voglia accordare un po' d'udienza. Ricevo tostamente risposta. Elia, che era rimasto in Torino per badare alle cose mie durante 11 mio viaggio che dovea essere d'un anno; Elia, destinato semprt La vtta 127 a medicare, o palliar le mie piaghe, mi riporta quella risposta. L'udienza mi vien accordata, entro in città come profugo, su Pimbrupir della notte; ottengo il mio intero vergog^noso per- dono, riparto all'alba consecutiva verso Milano, rimasti d'ac- cordo fra noi due che in capo di cinque o sei settimane sotto pretesco di salute me ne ritornerei in Torino. Ed io in tal g^isa 1 palleggiato a vicenda tra la ragione e l' insania, appena firmata ! la pace, trovandomi di bel nuovo soletto su la strada maestra J fra i miei pensamenti, fieramente mi sentiva riassalito dalla ver-" gogna di tanta mia debolezza. Così arrivai a Milano lacerato da questi rimorsi in uno stato compassionevole ad un tempo e risi- bile. Io non sapeva allora, ma provava per esperienza quel pro- fondo ed elegante bel detto del nostro maestro d'amore, il Petrarca: Che chi disceme è vinto da chi vuole. Due giorni appena mi trattenni in Milano, sempre fantasticando, ora come potrei abbreviare quel maledetto viaggio ; ed ora, come lo potrei far durare senza tener parola del ritomo: che libero avrei voluto trovarmi, ma liberarmi non sapea, né potea. Ma, non trovando mai un po' di pace se non se nel moto e divaga- zione del correr la posta, rapidamente per Parma, Modena, e Bologna mi rendei a Firenze : dove né pure potendomi trattener più di due giorni, subito ripartii per Pisa e Livorno. Quivi poi ricevute le prime lettere della mia signora, non potendo più du- rare lontano, ripartii subito per la via di Lerici e Genova, dove lasciatovi l'abate compagno, e il legno da risarcirsi, a spron bat- tuto a cavallo me ne ritornai a Torino, diciotto giorni dopo es- serne partito per fare il viaggio di un anno. C'entrai anche di notte per non farmi canzonar dalla gente. Viaggio veramente burlesco, che pure mi costò dei gran pianti. Sotto l'usbergo (non del sentirmi puro) ma del mio viso serio e marmoreo, scansai le canzonature dei miei conoscenti ed amici, che non si attentarono di darmi il ben tornato. Ed in fatti, troppo era mal tornato; e divenuto oramai disprezzabilissimo agli stessi occhi miei, io caddi in un tale avvilimento e malinconia, che se un tale stato fosse lungamente durato, avrei dovuto o impazzire, o scoppiare; come in fatti venni assai presso all'uno ed all'altro. Ma pure strascinai quelle vili catene ancora dal finir di giugno del 74, epoca del mio ritorno di quel semivl.iggio, sino al gen- laio del 75, quando alla per fine il bollore della mia compressa ^bbia giunto all'Mtremo scoppiò. 128 Vittorio Alfieri APPENDICB CLEOPATRA PRIMA Abbozzacelo. SCENA PRIMA LACHESI, PHOTINO. Photino. Della mesta regfìna i strazj e l'onte Chi nato è in riva al Nilo ornai non puote Di più soffrir, alla vendetta pronte Foran l'Egizie genti, ove il consiglio Destar potesse un negghittoso core Che alla vendetta non pospone amore: Lachesl. Sconzìgliata a te par l'alma regina, Son questi i sensi audaci e generosi Del tuo superbo cuor, ma più pietosi Gira ver ella i lumi, e allora in pianto Forse sciogliendo i detti giusti e amari Vedrai che pria fu donna e poi regina Vedrai Photino. T'accheta, non fu doglia pari A quella che mi strugge, e mi consuma. De' Tolomei, l'illustre ceppo ha fine, Con lor rovina il sventurato Egitto, Benché di corte all'aura infida, nato Nome non è per me finto, o sognato Quel bel di patria nome, che nel petto, Invan mi avvampa, qual divino fuoco: Ma de' stati la sorte allor che pende Da un sol, quell' un tutti infelici rende. Lachesl. Inutili riflessi ; ora fra' mali Sol fia d'uopo il minor, possenti Dei, Voi che de' miseri mortali > Reggete colassù le vite, e i fati » Verso brevino. {A,\, La vita Ah pria di me, se l'ire vostre io basto Tutte a placar, il pronto morir sia. La vittimai Dell'infelice antonio il rio destino. Dove mai, Ma che vedo, ecco s' avanza. Cleopatra, turbata. 129 SCENA SECONDA CLEOPATRA, PHOTINO, LACMESI. Cleopatra. Amici ah se albergate ancor pietade. Nel vostro sen, se fidi non sdeg^nate. Voi eh' alle glorie mie parte già aveste. Esser a mie sciagure anco compagni. Deh non v' incresca il gir per mare* Per monti, o piani o selve, meco in traccia Di chi piti della vita og^nor io preggio L'incauto pie del vacillante trono Rimosse amor, il vincitor già veggio alla foce approdar sull'orme audaci D'un ingiusta fortuna, a morte pria Amor mi meni che a scorno o ad onta ria.* Questi, lo so, son d'infelice amante Non di altiera Regina, i sensi, e l'opre Forse m'ban scelto i Dei per crudo esempio. Per far vedere alla piìi rozza gente Che talor chi li regge, indegno, ed empio. Fanne, per vii passion, barbaro scempio. Pkotino, Signora, il tuo patir, non che a pietade. Ma ad insania trarria uomini e fere, E qual fra i poli adamantino core* Resisterebbe a' tuoi aspri lamenti >, Il fallo emendi, in confessarlo, e forse Tu sé la prima fralli Ré superbi, Che pieghi alla ragion l'altera fronte, Alla ragione a' vostri pari ignota O non ben dalla forza ancor distinta; Sozza non fu la lingua mia giammai Dal basso stil d'adulatori iniqui,* Il ver ti dissi ognor. Regina, il sai, E lei dirò finché di vita il filo ' Verso Abortivo. \A.\. • o terra: rimasto nella penna. M.). » Verso lunghetto. Un dotto lo intitolerebbe, Upercatalectico. \A.\. • NoU quel Fra i poli, che i squisita espressione. \A.\. » Almeno il punto interrogativo ci fosse stato. \aI\. « Lo •crittore era nemico giurato del punto fermo. \A,\. 9. - CUuslel rioflarrl, N. a. 130 Vttiório Alfieri Lasso, terrammi, al tuo destino avvinto Cieco amor, vana gloria, al fin t' tian spinto a duro passo e non si torce il piede, altro scampo Photino oggi non vede Fuorché nel braccio e nell'ardir d'Antonio, Di lui si cerchi, a rintracciarlo volo - Non men di lui panni superbo, e fiero Ma assai piìi ingiusto il fortunato Ottavio, Ah se l'aspre querele, e i torti'espressi Sotto cui giace afflitta umanitade. Se vi son noti in ciel, sarìa pietade II fulminar color che ingiusti e rei Vonno quaggiù raffigurarvi, o dei. (part^\ SCENA TERZA CLEOPATRA, E LACHESI Lachesi. O veridico amico, o raro dono Del ciel co' Regi di tal dono avari* Cleopatra. Veri, ma inutil foran i tuoi detti Se più d'Antonio il braccio invitto a lato Non veglia in cura della gloria mia>. Disperata che fo ? dove m' aggiro ? A infame laccio, e a servii catena, Tenderò, dunque umile e supplicante E collo e braccia, al vincitore altiero,? Questi che già di s) bel nodo avvinti. Nodo fatai,!* funesto amor! che pria Tua serva femmi, e poi di tirannia. Lachesi. Signora, ancor della nemica corte Tentati ancor non hai li guadi estremi Forse, chi sa, s'alle nemiche turbe avesse la Fortuna volto il dorso. Se Antonio coi g^errìer fidi ed audaci. Rientrando in se, dalle lor mani inique. Non strappò la vittoria Cleopatra. Ab no che fido Solo all'amor, più non curò d'onore; L'incauta fuga mia tutto perdette, Sol sconsigliata io fui, sola infelice, almen del Ciel placar potessi io l'ira Ma se a pubblico scorno e! mi riserva, Saprò con mano generosa, e forte 1 Qui le Informi reminiscenze del Metastasio traevano l'autore a rimare senza avvedersene. [^4.]. * È venuto scritto avari in vece di avaro. {A.}. » Sia maladetto, se mai un punto ci casca. |/t.j. * Nascea quest' autore con una predilezione smaniosa per le virgole. \A.\t La vita làl Pone smentire i suoi decreti ingiusti; Non creder gii, che sol d'amante il core alberghi in sen, eh' ancor quel di Regina Nobile, e grande ad alto fin m'invita, L'infamia ai vii, morte nell'ardir si aspetta, Dubbia non è fra questi due la scelta, Ma almen, potessi, ancor di Marco i, Dimmi, noi rivedrò ? per lui rovino. Lassa, morir senza di lui degg'io? E su questo bell'andare proseguiva questo bel dramma, finché vi fu carta; e per^-enne sino a metà della prima scena dell'atto terzo, dove o cessasse la cat^ione che facea scriver l'autore, o non gli venisse più altro in penna, rimase per allora arrenata la di lui debìt barchetta, troppo anche mal allestita e scema d'ogni carico, perch'ella potesse neppur naufragare. E parmi che i versi fin qui ricopiati sian anche troppi, per dare on sagg^io non dubbio del saper fare dell'autore nel Oennajo dell'anno 1774. 1 Rimaste due sillabe nella penna, pel troppo delirante affetto [A.l. 132 Vittorio Alfieri CAPITOLO DECIMOQUINTO Liberazione vera. Primo sonetto. Tornato io una tal sera dall'opera (insulso e tediosissimo diver- timento di tutta l'Italia) dove per molte ore mi era trattenuto nel palco dell'odiosamata signora, mi trovai cosi esuberantem nte stufo che formai la immutabile risoluzione di rompere si fatti egami per sempre. Ed avendo io visto per prova che ,1 correre per le poste qua e là non mi avea prestato forza di proponimento, che anzi me l'avea subito indebolita e poi tolta, mi voli mettere a maggior prova, lusingandomi che in uno sforzo pm difficile riuS forse m glio. stante l'ostinazione naturale del mio erreo caratare Fermai dunque in me stesso di non muovere di casa mtch'come dissi le stava per l'appunto di faccia; di vedere ritardare ogni giorno le di lei finestre, di vederla passare; di uddn qualunque modo parlare; e con tutto dò, di non cedere n«mai a nulla né ad ambasciate dirette o indirette, ne alle rem - : sc™nze ^è cosa che fosse al mondo, a vedere se ci creperei. ,1 niscenze, ne vincerei. Formato in eh. poco ■"■P°f "2 • ° Heglralvi co„.rae„do con una qualche ™s: aTor:„ :S;,K df v.r.o.»a, scrusi un hi.He.,h,„ .d r„^.>co™.coe.ane e h ,^^^^^^^^^ Ubile ri»o -z.one^ e S'JS^rcrpelU, con,. n„ pegno di questo "'" ":Sn\o oaX edTnlp^'i"'"'" quasi che invincibile al mio subitaneo partito, eu u >: essendo allora lolle- TTiairrsrero roc'hf r^itlani :' .annan. finiva il rato un tale ^^^J^''^' .^^^^^ ^i snz presenza t cor^ggw, 'ptt biglietto col pregarlo d-^a^^^^^^^^^^^^ in casa mia. proibiti tutti rinfrancare '^ ^^ ^^f^^^^^^do.'passai i primi quindici giorni 'aiTuir mUstna liberazione. Alcuni amici mi visiUvano; . Col quale avevo trascorsa l'adolescenza. > Tosato. La vita 133 e mi parve anco mi compatissero ; forse appunto perchè io non diceva parola per lamentarmi, ma il mio contegno ed il volto parlavano in vece mia. Mi andava provando di leggere qualche cosuccia, ma non intendeva neppur la gazzetta, non che alcun menomo libro; e mi accadeva di aver letto delle pagine intere cogli occhi, e talor colle labbra, senza pure saper una parola di quel ch'avessi letto. Andava bensì cavalcando nei luoghi soli- tari, e questo soltanto mi giovava un poco sì allo spirito che al corpo. In questo semifrenetico stato passai più di due mesi sino al finir di marzo del 75 ; finché ad un tratto un'idea nuovamente insortami cominciò finalmente a svolgermi alquanto la mente ed il cuore da quell'unico e spiacevole e prosciugante pensiero di un sì fatto amore. Fantasticando un tal giorno così fra me stesso, se non sarei forse in tempo ancora di darmi al poetare, me n'era venuto, a stento ed a pezzi, fatto un piccolo saggio in quat- tordici rime, che io, riputandole un sonetto, inviava al gentile e dotto padre Paciaudi', che trattavami di quando in quando, e mi si era sempre mostrato ben affetto, e rincrescente di vedermi così ammazzare il tempo e me stesso nell'ozio. Trascriverò qui, oltre il sonetto, anco la di lui cortese risposta ^ Quest'ottimo uomo mi « Paolo Maria Paciaudi, dell'ordine dei Teatini, erudito torincse(1710-I785). » Ecco il primo sonetto: « Ho vinto alfin, si non m'inganno, ho vinto; I Spenta è la fiamma, che vorace ardeva | Questo mio cuor'da indegni lacci avvinto I I cui moti l'amor cieco reggeva. 1 Prima d'amarti, o Donna, io li«n sapeva | Ch'era iniquo tal foco, e tal respinto | L'ho mille*. fiate, e mille Amor vinceva | Sì che vivo non era, e non estinto. | Il lungo duol, e gli affannosi pianti, | Li aspri tormenti, e i crudei dubbj amari | e Onde s'intesse'il viver degli amanti > | Fisso con gli occhi non di pianto avari. | Stolto, che dissi? è la virtù fra' tanti { Sogni, la sola i cui'pensier siati cari. — Ed ecco la lettera del p. Paciaudi: « Messer Francesco s'accese d'amor per Monna Laura, e poi si disinnamorò, e cantò i suoi pentimenti. Tonio ad imbertonarsi della sua Diva, e fini i suoi giorni amandola non già filosoficamente, ma come tutti ^li uomini hann'usato. Ella, mio genti- linsimo Sig. Conte, si è dato a poetare: non vorrei che imitasse quel padre C rimatori italiani in questa amorosa faccenda. Se l'uscir dai ceppi è stato !)r/.a di virtù, com'clla.acrive, conviene sperare che non andrà ad incep- parsi altra volta. Comunque sia per avvenire, il Sonetto è buono, senten- zioso, vibrato, e corretto bastantemente. Io auguro bene per lei nella carriera poetica, e pel nostro Pamasso Piemontese, che abbisogna tanto di chi si levi un poco tu la turba voigsre. Le rimando Vfminentissima Cleopatra, che veramente non è che infima cosa. Tutte le osservazioni ch'ella vi ha aggiunte « mano, sono sensatissime, e vere. VI unisco i due volumi di Plutarco, e •'ella resta in casa, verrò lo stesso a star seco a desco per ricrearmi colla tua dolce società. Sono e colla più ferma stima ed osservanza suo ec. Nota manus ». 134 Vittorio AlfUrl era sempre andato suggerendo delle letture Italiane, or questa or quella, e tra l'altre, trovata un giorno su un muricciolo la Cleo- patra, ch'egli intitola eminentissima per essere del cardinal Del fino», ricordatosi ch'io gli avea detto parermi quello un soggetto di tragedia, e che lo avrei voluto tentare (senza pure avergli mai mostrato quel mio primo aborto, di cui ho mostrato qui addietro il soggetto), egli me la comprò e donò. Io in un momento di lucido intervallo avea avuta la pazienza di leggeria, e di postil- larla ; e glie l'avea così rimandata, stimandola in me stesso assai peggiore della mia quanto al piano e agli affetti, se io veniva mai a proseguiria, come di tempo in tempo me ne rinasceva il pensiero. Intanto il Paciaudi, per non farmi smarrire d'animo, finse di trovar buono il mio sonetto, benché né egli il credesse, né effettivamente lo fosse. Ed io poi di lì a pochi mesi ingolfa- tomi nello studio dei nosrtrì ottimi poeti tosto imparai a stimare codesto mio sonetto per quel giusto nulla ch'egli valeva. Professo con tutto ciò un grand'obbligo a quelle prime lodi non vere, e a chi cortesemente le mi donò, poiché molto mi incoraggirono a cercare di meritarne delle vere. Già parecchi giorni prima della rottura con la signora, veden- dola io indispensabile ed imminente, mi era sovvenuto di ripe- scare di sotto il cuscino della poltroncina quella mia mezza Cleopatra, stata ivi in macero quasi che un anno. Venne poi dunque quel giorno, in cui fra quelle mie smanie e solitudine quasi che continua, buttandovi gli occhi su, ed allora soltanto quasi come un lampo insortami la somiglianza del mio stato di cuore con quello di Antonio, dissi fra me ste^o: Va proseguita quest'impresa; rifarla, se non può star così; ma in somma sviluppare in questa tragedia gli affetti che mi divorano, e farla recitare questa primavera dai comici che ci verranno. Appena mi entrò questa idea, ch'io (quasiché vi avessi ritrovata la mia guarigione) cominciai a schiccherar fogli, rappezzare, ri- mutare, troncare, aggiungere, proseguire, ricominciare, ed in somma a impazzare in altro modo intorno a quella sventurata e mal nata mia Cleopatra. Né mi vergognai anco di consultare alcuni de' miei amici coetanei, che non avevano, come io, trascu- rata tanti anni la lingua e poesia italiana ; e tutti ricercava ed infastidiva, quanti mi poteano dar qualche lume su un'arte di 1 Giovanni DolHn, veneziano (1617-1699). La vita 135 cui cotaato io mi trovava al baio. E in questa guisa, null'altro desiderando io allora che imparare, e tentare se mi poteva riuscire quella pericolosissima e temeraria impresa, la mia casa si andava a poco a poco trasformando in una semiaccademia di letterati. Ma essendo io in quelle date circostanze bramoso d' imparare, e arrendevole, per accidente ; ma per natura, ed attesa l'incrostata ignoranza, essendo ad un tempo stesso agli ammaestramenti re> calcitrante ed indocile ; disperavami, annoiava altrui e me stesso, e quasiché nulla venivami a profitto. Era tuttavia sommo il gua- dagno dell'andarmi con questo nuovo impulso gancellando dal cuore quella non degna fiamma, e di andare ad oncia ad oncia riacquistando il mio già si lungamente allopiato* intelletto. Non mi trovava almeno più nella dura e risibile necessità di farmi legare su la mia seggiola, come avea praticato più volte fin ailora, per impedire in tal modo me stesso dal potere fuggir di casa, e ritornare al mio carcere. Questo era anche uno dei tanti compensi ch'io aveva ritrovati per rinsavirmi a viva forza. Stavano i miei legami nascosti sotto il mantellone in cui mi avviluppava, ed avendo libere le mani per leggere, o scrivere, o picchiarmi la testa, chiunque veniva a vedermi non s'accorgeva punto ch'io fossi at- taccato della persona alla seggiola. E cosi ci passava dell'ore non poche. Il solo Elia, che era il legatore, era a parte di questo segreto; e mi scioglieva egli poi, quando io sentendomi passato quell'eccesso di furiosa imbecillità, sicuro di me, e riassodato il proponimento, gli accennava di sciogliermi. Ed in tante e sì diverse maniere mi aiutai da codesti fierissimi assalti, che alla fine pure scampai dal ricadere in quel baratro. E tra le strane maniere che in ciò adoperai, fu certo stranissima quella di una mascherata ch'io feci nel finire di codesto carnevale', al pubblico ballo del teatro. Vestito da Apollo assai bene, osai di presentarmivi con la cetra, e strimpellando alla meglio, di cantarvi alcuni versacci fatti da me, i quali anche con mia confusione trascriverò qui in fondo di pagina *. Una tale sfacciataggine era in tutio contraria •Ila mia indole naturale. Ma sentendomi io pur troppo debole ancora a fronte di quella arrabbiata passione, poteva forse meri- tare un qualche compatimento la cagione che mi movca a fare I Alloppiato: vinto dal sonno, quasi intorpidito dall'oppio. • Nel feblraio del 1775. * V. Appendice I a quento capitolo. 136 Vittorio Alfieri simili scenate; che altro non era se non se il bisogno ch'io sen- tiva in me stesso di frapporre come ostacolo per me infrangibile la vergogna del ricadere in quei lacci che con tante pubblicità avrei vituperati io medesimo. E in questo modo senza avveder- mene, io per non dovermi vergognar di bel nuovo, in pubblico mi svergognava. Né queste ridicole e insulse colascionate avrei osate trascrivere, se non mi paresse di doverle, come un auten- tico monumento della mia imperizia in ogni convenienza e de- cenza, qui tributare alla verità. Fra queste sì fatte scede * io mi andava pure davvero infiam- mando a poco a poco del per me nuovo bellissimo ed altissimo anjgjiejdigloria. E finalmente dopo alcuni mesi di continui con- sulti poetTCl^ e di logorate grammatiche e stancati vocabolari, e di raccozzati spropositi, io pervenni ad appiccicare alla peggio cinque membri ch'io chiamai Atti, e il tutto intitolai, Cleopatra Tragedia. E avendo messo al pulito (senza forbirmene) il primo atto, lo mandai al benigno padre Paciaudi, perch'egli me lo spilluzzicasse, e dessemene il di lui parere in iscritto. E qui pure fedelmente trascriverò alcuni versi di esso, con la risposta del Paciaudi. Nelle postille da lui apposte a que' miei versi, alcune eran molto allegre e divertenti, e mi fecero ridere di vero cuore, benché fosse alle spalle mie: e questa tra l'altre. Verso 184 « // latrato del cor. Questa metafora è soverchiamente canina. La prego di torla». Le postille di quel primo atto, ed i consigli che nel paterno biglietto le accompagnavano, mi fecero risolvere a tornar rifare il tutto con più ostinazione ed arrabbiata pazienza. Dal che poi ne uscì la cosidetta Tragedia, quale si recitò in Torino a dì 16 giugno 1775: della quale pure trascriverò*, per terza ed ultima prova della mia asinità nella età non poca di anni venzei e mezzo, i primi versi, quanti bastino per osservare i lentissimi pro- gressi, e l'impossibilità di scrivere che tuttavia sussisteva, per mera mancanza dei più triviali^" studi. E nel modo stesso con cui avea tediato il buon padre Paciaudi per cavarne una censura di quella mia seconda prova, andai anche tediando molti altri, tra i quali il conte Agostino Tana* mio coe- » Sceda: beffa che si fa contraffacendo gli atti o il parlare altrui; buf- fonata in genere. * V, Appendice II e ///. » Elementari. « Il Tana (1745-1791) lasciò tre tragedie. Cfr. su di lui E. Levi-Malvano, Un consigliere dell'Alfieri, Alessandria, 1904. La vua 137 taneo, e stato paggio del re nel tempo ch'io stava nell'Accademia. L'educazione nostra era perciò stata a un di presso consimile, ma egli uscito di paggio avea costantemente poi applicato alle lettere sì italiane che francesi, ed erasi formato il gusto, massima- mente nella parte critica filosofica, e non grammaticale. L'acume, grazia e leggiadria delle di lui osservazioni su quella mia infelice Cleopatra farebbero ben bene ridere il lettore, se io avessi il coraggio di mostrargliele ; ma elle mi scotterebbero troppo, e non sarebbero anche ben intese, non avendo io ricopiato che i soli primi 40 versi di quel secondo aborto. Trascriverò bensì la di lui letterina con la quale mi rimandò le postille, e basterà a farlo conoscere. Io frattanto avea aggiunta una farsetta, che si recite- rebbe immediatamente dopo la mia Cleopatra; e la intitolai / Poeti. Per dare anco un saggio della mia incompetenza in prosa, ne trascrivo uno squarcio. Né la farsetta però, né la tra- gedia, erano le sciocchezze d'uno sciocco ; ma un qualche lampo e sale qua e là i.T tutte due traluceva. Nei Poeti aveva introdotto me stesso sotto il nome di Zeusippo, e primo io era a deridere la mia Cleopatra, la di cui ombra poi si evocava dall'Inferno, perch'ella desse sentenza in compagnia di alcune altre eroine da tragedia, su questa mia composizione paragonata ad alcune altre tragediesse di questi miei rivali poeti', le quali in tutto le poteano ben essere sorelle: col divario però, che le tragedie di costoro erano state il pario maturo di una incapacità erudita, e la mia era un parto affrettato di una ignoranza capace. Furono queste due composizioni recitate con applauso per due sere consecutive ; e richieste poi per la terza, essendo io già ben ravveduto e ripentito in cuore di essermi si temerariamente esposto al pubblico, ancorché mi si mostrasse soverchio indul- gente, io quanto potei mi adoprai con gli attori e con chi era loro superiore, per impedirne ogni ulteriore rappresentazione. Ma, da quella fatai serata in poi, mi entrò in ogni vena un sì fatto bol- lore e furore di conseguire un giorno meritatamente una vera palma teatrale, che non mai febbre alcuna di amore mi avea con tanta impetuosità assalito. In questa guisa comparvi io al pub- blico la prima volta. E se le mie tante, e pur troppe, composi- zioni drammatiche in appresso non si sono gran fatto dilungate > Cfr. E. BcRTANA, Teatro tragico italiano del see. XVIII prima del' l'Alfieri, in < Oiornale Storico della letteratura italiana >, suppl. n. 4, p. 19. 138 Vittorio AlfUrl da quelle due prime, certo alla mia incapacità ho dato principio in un modo assai pazzo e risibile. Ma se all'incontro poi, verrò quando che sia annoverato fra i non infimi autori s! di tragedie che di commedie, converrà pur dire, chi verrà dopo di noi, che il mio burlesco ingresso in Parnasso col socco e coturno ad un tempo, è riuscito poi una cosa assai seria. Ed a questo tratto fo punto a questa epoca di giovinezza, poiché la mia virilità non poteva da un istante più fausto ripeterà il suo cominciamento. La vUa 139 APPENDICE L COLASCIONATA PRIMA, tendo mastheraio da Poeta sadleio. Le vicende d'amor strane, ed amare Colla cetra m'appresto a voi cantare: Non vi spiacdale udir dal labro mio Che sìncero diroUe affé d'Iddio. Voi le provaste tutti, o le sentite. Onde te v'ingannassi, mi smentite. Sventurato è colui ch'ama davvero; Sol felice in amor è il menzognero. Ingannato è colui che non inganna, E le frodi donnesche ei si tracanna. Amor non è che un fanciullesco giuoco, Chi l'apprezza di più, quant' è da ' poco I Eppur, miseri noi, la quiete, e pace C'invola spesso il traditor rapace. Pria che d'amar, pajono dolci i lacci, Cosi credergli fan con finti abbracci. Cresce dappoi delle, catene il peso A misura che il sciocco resta acceso. E quando egli i ben bene innamorato, Che dura i la catena ha già scordato; O se la sente ancor, la scuote invano, Ch'allacciata le vien d'accorta mano. L'innamorato stolto, un uom si crede, E eh' un'liom non i più già non s'avvede. Delirando sen va sera, e mattina E da lui la ragion fugge tapina. Ogni giorno scemando il suo cervello, Oià non disceme più, ne il buon, né il bello. Va gli amici fuggendo, e ancor se stesso Fugge, per non sentir l'error commesso. Ni l'ardisce emendar, piange, sospira. Contro il perfido amor, stolto, si adira. La donna, ch'altro vuol ch'aspri lamenti. Con rimproveri accrcKC i rei tormenti; 140 Vittorio Alfieri E nel fiero contrasto ognor più sciocco, L'innamorato sta, come un allocco. Legge in viso ad ognun la sua sentenza, E si rode il suo fren con gran pazienza. La pazienza, virtti denominata, Ma specialmente all'asino accordata. L'innamorato almen sembrasse in tutto Al lascivo animai, immondo, e brutto. Spesso lo muove poi fredda pazzia, Quella nera passion di gelosia. Non sarebbe geloso, o il fora invano, Se palpasse la fronte con la mano. Anime de' mariti a me insegnate Per non esser gelose, eh come fate ? Ho capito, di già stufi ne siete. Né sempre invan recalcitrar volete. Il coniugale amor vien presto a noja, E nel letto sponsal forza è che muoja, E stuffarsi pur denno anco gli amanti Di gettare per donna all'aure i pianti. In somma: L' innamorato fa trista figura. Quando di farla buona ei s' assicura. Ognun ride di lui, e n' ha ragione, L'innamorato sempre è un gran beccone. Io finisco col dirvi, amici cari. Voi eh' inghiottite ancor boccon sì amari, Di spicciarvi al piti presto che possiate Delle donne che vosco strascinate. Io già rider vi ho fatto, e rido adesso Delle donne, di voi, e di me stèsso. COLASCIONATA SECONDA, sendo mascherato da Apollo. Cortesi donne, amati cavalieri, Cui non spiacque ascoltar la rauca cetra Di sporchissimo vate, il qual nell'etra Percosse sol, con li suoi detti veri ; Voi attendete già dal blando aspetto Ch'io ne venga a smentir quel vii cencioso Ch'ai sciapiti amator fu sì nojoso; No, diverso pensier racchiudo in petto. Io, ch'Apolline son ; ma voi ridete ? E sì lieve menzogna or vi stupisce ? Quando parla di sé ciascun mentisce, E ciò spesso v'accade, e non ridete. La vita 141 Io ch'ApoIline son, cantar disdegno Con stucchevoli canni il rancio amore; Da più strano pensier, più grand'onore Conseguir ne vorrei, se ne son degno. lo m'accingo a cantar della sciocchezza; Quest'è un vago soggetto, e non cantato Benché spesso dai vati adoperato; Or sentite da lui l'alta bellezza. Io comincio da voi, donne, e vi chieggio, Se non fossero sciocchi, i dolci sposi ; Come fareste p>oi cogli amorosi ? Ecco che già fra voi sciocchezza è in preggio. E dirov\i di più, se un scimunito Non scorgeste in chi v'ama al sol parlare. Impazzireste già, per non sfogare Quello di civettar dolce prurito. Oh quanto giubilate, voi zitelle, Se vi trovate aver le madri sciocche ! La scuola fate li di filastrocche, Che c'infilzate poi, leggiadre e belle. Dunque, o donne, negar non mi saprete Che la nostra sciocchezza vi fa liete. Passo agli uomini adesso, e ben distinti In moltissime schiere li ravviso. Oh quanta gioja appar dei figli in \'iso. Ch'aver stolidi i padri son convinti ! I lor vizj sen vanno nascondendo, E se avvien eh' un molesto creditore Stufo di passeggiar mova rumore. Il buon vecchietto allor paga ridendo. Ed all'incontro poi li padri avari Quanto godon d'aver figliuoli stolti, È vero che di questi non son molti. Che lor chiedan consigli e non danari. Da chi poi la stoltezza è più eh' amata. La cetra oscuramente qui li addita. Sono que' meschinelli, a cui la vita La dabenaggin nostra ha già donata. Che diremo de' brutti bacchettoni ; Percolendosi il petto, e lagrimuccie Costor spargon fri gonzi; alle donnuccie Di soppiatto facendo certi occhioni. E voi ricchi, ed ignari alti Signori Alla volgar stupiditi dovete Di comparire ognor quel che non siete. Via ergetele un tempio, e ogn* un 1' adori. Voi altri Zerbinotti casca-morti. Che nella testa, seppur testa avete. Altro che freddi semi non chiudete, Se non vi fosser stolti, siete morti. Voi famelici autori, e che fareste ? E te non fosse il volgo ignaro, e stolto 1*2 Vittorio Alfieri Vi si vedrla la fame pinta in volto, Chi sa, d'inanizion forse morreste. Voi d'ogni autor peggiori, che spiate Le faccende d'ognuno, e poi le dite. Ed a chi non le cura le ridite. Della stoltezza voi, quasi abusate. Voi che inimici al ver, già posto in bando Crudamente l'avete, a chi direste Le sciapite bugiuzze, tacereste Se i stolti non le stessero ascoltando. Le velenose lingue, e non acute Che di mordere han voglia, e mal lo fanno Cangieriano mestier, se il barbagianno Non le trovasse poi pronte ed argute. Insomma canterei tre ^omi interi. Né del ricco soggetto la bellezza. Ne degli ornati suoi la vaga ampiezza Io descriver saprei; voglionvi Omeri. In due versi però composti a stento Spiegherovvi il fallace mio pensiero. Dico, e ho inteso a dir che il mondo intiero Da stolidezza è retto a suo talento. E voi che qui l'orecchie spalancate Per burlarvi di me, Censor sevèri, E in vestigar miei carmi falsi e veri Se lo stolto non fossi, allor che fate ? Ma tu, cetra, cantasti già di tanti, E chi strider ti fa vuoi tralasciare, No che sarebbe ingiusto, hai da cantare; Per la soddisfazion di tutti quanti. Dirò dunque di me, per mia disgrazia Che senza la stoltezza avrei tacciuto, E forse molto meglio avria valsuto, Per conservar di voi la buona grazia. O né poeti innata impertinenza 1 Biasimare si vuó, m'innalzo al cielo, Eppur se penso a me io sudo e gelo Ed abusando vó della pazienza. Lascio giudici voi; sassi gettate S'un poeta vi pajo da sassate. Io confesso pian pian, che vado altero D'avervi detto scioccamente U vero. COLASCIONATA TERZA. Apolline già stufo di vagare, Né sapendo che far, s'infinge adesso Che l'ha pregato alcun di ricantare; Ma questo non è ver, se l'ha sognato. Chi conosce i Poeti ha già capito Cb' Apolline vuol esser corbellato» La vita 143 M'accingerò de' vizj a voi cantare. No, che reggono il mondo, e a me potrebbe Da ciò, biasimo e lutto ridondare. Della vnrtude adunque; è contrabbando, E tanta gli han imposta la gabella, Che quasi non si trova anche pagando. Dirò della bellezza delle donne ? A quanto dicon più quei dolci sguardi Che additan che son Angeli fra gonne. Canterò della vita ogni vicenda. Ma se la vita è un sogno molto breve, Le vicende d'un sogno, e chi le intende? De ricchi canterei se avessi fronte Come l'hanno i poeti tutti quanti, E poi già tai menzogne a voi sono conte. Dirovvi della morte; oh quanto é trista Non ne vorreste udir neppur parola. Ma nel pensarci mal, nulla s'acquista. Dirò di quest'alloro qualcosetta Il qual cingerai il crin modestamente. Zitto, ch'io mei donai, lo strappo in fretti. Farovvi di miseria un quadro bello È ver che non è vizio eppur si fugge. Ne se ne parla mai, dov'ho il cervello? Della felidtade, oh bel soggetto; La vi cercando ognun, chi l'ha trovata Di grazia me lo dica, eh' io l'aspetto. Tema più bello ancor; volete udirlo? Quest'è la vanità; ma non lo canto Potrei parlar di me senza sentirlo. Dirò che sono un pazzo e ben m' avvedo Che lo dite voi tutti anche tacendo, Finisco, per non dir, eh' anch' io lo credo. 144 Vittorio Alfieri APPENDICE II, CLEOPATRA SECONDA ATTO PRIMO SCENA PRIMA DIOMEDE, LAMIA. Diomede. E fia pur ver', che neghittosi, e vili Traggon gli Egizj, in ozio imbelle, i giorni Allor che i scorni replicati, e l'onte Dovrian destar l'alme a vendetta, e all'ire? Cleopatra, d'amor ebra, e d'orgoglio Del suo regno l'onor, deca, non cura, O se pure l'apprezza, incauta, giace Di rea fiducia in seno, e forse, ignora Ch'a lieve fi!, sta il suo destino appeso. M'affanna il duolo, a sì funesto aspetto, E benché avvezzo all'empia corte iniqua, Più cittadin, che servo, oggi compiango Le pubbliche sciagure. Un finto nome Quel di patria non è, che in cuor ben nato Arde, ed avvampa, qual divino fuoco, Ed invano i tiranni, un tanto amore Taccian' di reo delitto; al falso grido S'oppon natura, e dice, eh' è virtude. Lamia, Di Diomede son questi i sensi audaci. Ti diede il Cie!, forse per tua sventura Un'alma forte, generosa, e fiera: Inutil dono a chi fra Corti è nato. Poiché, dei Regi rispettando i falli Spesso adorar li deve; intanto i lumi Volgi men fieri, a mesta donna, inerme; Mira Cleopatra, impietosisci, e in pianto Scioglier ti vedo allor gli amari detti. In pianto sì, né rifiutar lo puote A si fatte miserie un'alma grande: E rivendica ognor l'umanitade Oli antichi suoi sacri diritti, e augusti t Son gli infelici di pietà ben degni, Ancor che rei. La vita 145 Diomede. Da me l'abbiano tutta; Ma quando sol desta pietà, chi impera, Si piange l'uora, ma si disprezza il Rege. Avvilita in Egitto è da molti anni La maestà del trono ec. ec, E basti di questa Seconda, per dimostrare che forse era peggio della Prima. LETTERA DEL PADRE PAQAUDL Pregiatis. mio sig. Conte. « Non le rendo ancora il suo originale, perchè qualche incomoduccio mi ha impedito di scrivere le mie sincere ed amichevoli osservazioni. Par- lando in generale io mi sono compiaciuto dei primi tratti della Tragedia. Spicca l'ingegno, l'immaginazione feconda, e il giudizio nella condotta. Ma con uguale schiettezza le dirò, che non sono contento della poesia. I versi sono molte volte mal torniti, e non hanno il giro italiano. Vi sono infinite voci, che non son buone, e sempre la ortografia è mancante e viziosa. Condoni alla mia naturai ingenuità, e all'interesse, che prendo a ciò che la risguarda, questo avviso. Bisogna saper bene la lingua in cui si vuole scrivere. Perchè non tiene ella sul tavolino la Ortografia italiana, picciol volume in ottavo ? Perchè non legge prima gli Avvertimenti gram- maticali, che vanno aggiunti ? Spero di restituirle prima di sabato il suo manoscritto: intanto le invio il Teatro Italiano raccolto dal marchese Maffei, libro piuttosto raro che ho fortunatamente trovato per sei lire dal libraio romano. Parm! necessario ch'ella legga quei primi autori stimati dal nostro teatro per facilità di una corretta versificazione. Vi troverà una Cleopatra del card. Delfino autore di tragedie. Se la rimembranza non m'inganna altri ha posto sulle scene quest' istesso soggetto: ma non posso suir istante accennarle chi sia, non avendo potuto rinvenire il libro italiano del Riccoboni tessente il catalogo di tutte le nostre cose teatrali. Toma bene osservare chi ha scritto prima di noi in un argomento medesimo per conoscerne le bellezze, come gli sbagli. Mi serbi la sua grazia che pregio assaissimo e consenta che io usurpi l'onorevol titol di suo > ec. 10. - Classici ttaUoHi. N. 3. 146 Vittorio Alfieri APPENDICE ni. CLEOPATRA TERZA Quale fu recitata nel Teatro Italiano. > ATTO PRIMO SCENA PRIMA CLEOPATRA, ISMENE. Cleopatra. Che farò ?... Giusti Dei... Scampo non veggo Ad {sfuggire il precipizio orrendo. Ogni stato, benché meschino, e vile, Mi raffiguro in mente; ogni periglio Stolta ravviso, e niun, fra tanti, ardisco Affrontare, o fuggir: dubbj crudeli Squarcianmi il petto, e non mi fan morire. Né mi lasciano pur riposo, e vita. Raccapriccio d'orror; l'onore, il regno Prezzo non son d'un tradimento atroce; Ambo mi par di aver perduti; e Antonio, Antonio, sì, vedo talor fra l'ombre Gridar vendetta, e trascinarmi seco. Tanto dunque, o rimorsi, è il poter vostro? Ismene. Se hai pietà di te stessa i moti affrena D'un disperato cuor: d'altro non temi. Che non piìi riveder quel fido amante ? Ma ignori ancor, se vincitore, o vinto. Se viva, o no Cleopatra. E s'ei vivesse ancora, Con qual fronte, in qua! modo, a lui davanti Presentanni potrò, se l'ho tradito? Della virtù qual è la forza ignota. Se un reo neppur può tollerarne i guardi ? Ismene. No, Regina, non è si reo quel core. Che sente ancor rimorsi Cleopatra. Ah! si, li sento; E notte, e di, e accompagnata, e sola, Sieguonmi ovunque, e il lor funesto aspetto Non mi lascia di pace un sol momento. i Teatro Carignano in Torino. La vita 147 Eppur, gridano invan; nell'alma mia Servir dovranno a più feroci affetti; Né scorgi tu questo mio cuor qual sia. Mille rivolgo atri pensieri in mente, Ma il crudel dubbio, d'ogni mal peggiore, Vietami ognor la necessaria scelta. tsmene*. Cleopatra, perchè prima sciogliesti L'Egpzie vele all'aura, allor che d'Azio N' ingombravano il mar le navi amiche ? E allor che il Mondo, alla gran lite intento, Pendea per darsi al vincitore in preda. Chi mai t' indusse a così incauta fuga ? Cleopatra. Amor non è che m'avvelena i pomi; Mossemi ognor l'ambizion d'impero. Tutte tentai, e niuna in van, le vie, Che all'alto fin trar mi dovean gloriosa; Og^i passione in me soggiacque a quella. Ed alla mia passion le altrui servirò. Cesare il primo, il crin mi cinse altero Del gran diadema; e non al solo Egitto Leggi dettai, che quanta terra oppressa Avea già Roma, e il vincitor di lei, Vidi talora ai cenni miei soggetta. Era il mio cor d'alta corona il prezzo. Ne l'ebbe alcun, fuorché reggesse il Mondo. Un trono, a cui da sì gran tempo avea La virtude, l'onor) la fé, donata. Non io volli affidare al dubbio evento, E alla sorte inegual dell'armi infide... Serbar lo volli; e lo perdei fuggendo; Vacilla il pie su questo inerme soglio; E a disarmar il vincitor nemico. Altro piìi non mi resta che il mio pianto Tardi m'affliggo, e non cancella il pianto Un tanto error, anzi lo fa più vile. Ismene, Regina, il tuo dolor desta pietade In ogni cor, ma la pietade è vana. Rientra in te, rasciuga il pianto, e mira Con più intrepido ciglio ogni sventura; _yè soggiacer; ch'alma regale è forza Si mostri ognor de' mali suoi maggiore. I mezzi adopra che parran più pronti Alla salute, od al riparo almeno Del tuo regno. Cleopatra. Mezzi non vedo, ignoto' Della gran pugna essendo ancor l'evento; ' Codeste Interrogazioni d' Ismene, più assai proprie di un giudice fiscale, che non di una dipendente amica, mi hanno pur rallegrato un pochino, e follevatami col riso li nnja di questa copiatura. |^.|. • Anche un verso falso di accenti, e da non potersi strascinare con sei par di buoi, mi toccò di far recitare nella mia primi comparsa su le scene ita- liane. (/l.|. 148 Ismene. Cleopatra. Vittorio Alfieri Né error novello, ai già commessi errori Aggiunger so, finché mi sia palese. D'Azzio lasciai l'instabil mar coperto. Di navi, e d'armi, e d'aguerrita gente, Sì che l'onda in quel dì vermiglia, e tinta Di sangue fu, di Roma a danno ed onta. Era lo stuol piìi numeroso, e forte. Quel ch'Antonio reggea, e le sue navi, Ergendo in mar i minaccevol rostri, Parean schernir coll'ampia mole i legni Piccioli, e frali del nemico altero; Sì, questo è ver; ma avea la Sorte, e i Numi Da gran tempo per lui Augusto amici; E chi amici non gli ha gli sfida invano. Or che d'Antonio la fortuna è stanca. Or che d'Augusto mal conosco i sensi, Or che, tremante, inutil voti io formo, Né so per chi, della futura sorte Fra i dubSj orror, sola smaniando, e in preda Ad un mortai dolor, che più sperare Mi lice omai? tutto nel cuor mi addita, Che vinta son, che non si scampa a morte, E a morte infame. Non é tempo ancora Di disperare appien del tuo destino. Chi può saper s'alle nemiche turbe Non avrà volto la fortuna il tergo; Ovver se Augusto vincitor pietoso A te non renderà quanto ti diero Un dì, Cesare, e Antonio. Il cor nutrirmi Potrò di speme, allor che ben distinti Ravviserò dal vincitore il vinto; JVla in fin che ondeggia infra i rivai la sorte Trapasserò i miei dì mesti e penosi In vano pianto; e di dolor non solo Io piangerò, ma ancor di sdegno, e d'onta. Ma Diomede s'appressa;... il cuor mi palpita. SCENA SECONDA DIOMEDE, CLEOPATRA, ISMENE. Cleopatra. Fedel Diomede, apportator di vita, 0 di morte mi sei?... Che rintracciasti? Si compì il mio destin ?... parla. — Diomede. Regina, 1 cenni tuoi ad adempir n'andava. Quando scendendo alla marina in riva Vidi affollar l'insana plebe al porto, La vita 149 Confuse grida udii, s'eran di pianto, Di gioia, o di stupor, nulla indagando, ^ V'andai io stesso, e la cagion funesta Di tal rumor, purtroppo a me fu nota. Poche, sdruscite, e fuggitive na\n. Miseri avanzi dell'audaci squadre, Eran l'oggetto de' perversi gridi Del basso volgo, che schernisce ognora Quei, che non teme. Cleopatra. E in essi eravi Antonio ? Diomede. Canidio, Duce alla fuggiasca gente Credea trovarlo ec. ec. E su questo andare proseguiva tutta intera, piuttosto lunghetta, essendo di versi 1641. Numero al quale poi non sono quasi mai più arrivato nelle susseguenti tragedie che ho scritte sino in venti, allorché forse mi trovava poi aver qualcosa più da dire. Tanto vagliono per l'essere breve i mezzi del poter dire in un modo piuttosto che in un altro. LETTERA DEL CONTE AGOSTINO TANA Aristarco all'Autore. € Voi m'avete scelto per lo vostro Aristarco, io contraccambio l'onore che m'avete fatto, col non ricusarlo. Preparatevi dunque alla più severa inesorabii censura; e quali pochi hanno il coraggio di farla, pochissimi di soffrirla. Io sarò fra i pochi, e voi fra i pochissimi annoverato. La Plebe letteraria, lusinghiera, mendace, e tracotante, non è avvezza certa- mente a comportarsi in simil guisa: presenti, si lodano senza ritegno; lon- tani si biasimano, e si tradiscono senza rossore. Tal cosa non potrà acca- dere giammai fra l'amico Censore, e l'autore di questa Tragedia ». 150 VUtono Alfieri APPENDICE IV. I POETI COMMEDIA IN UN ATTO, recitata nel Teatro stesso dopo la Cleopatrassa. SCENA PRIMA ZEUSIPPO, solo. Ah misero Zeusippo ! e a che ti serve di esserti nell'accademia degli stupidi alteramente denominato, // Sofocleo, mentre si avvicina l'ora in cui ti sarà forse barbaramente discinto il coturno ? io sudo e gelo nel pensare all'esito della mia povera tragedia. Ma che diavolo di capriccio fu questo, di voler balzar d'un salto in cima al Pamasso, e scrivere il poema il più difficile a ben eseguirsi, prima quasi d'aver finito d'impa- rare gli elementi grammaticali della toscana favella ? ardir veramente poe- tico. — Ma queste riflessioni bisognava farle avanti ; ora son tarde e ridi- cole. — Eppure non mi posso far animo, e tremo come se io avessi fatto lina bricconeria: ma è meglio assai di farla, che di scrivere una cattiva tragedia. Non tutti i bricconi tremano; è vero poi, che ne anche tutti i cattivi poeti. Zeusippo, segui tracotante le orme dei poetastri, e se spia- cerà la tragedia, concludi ad esempio loro, che il Pubblico non ha gusto, non ha discernimento ; che giudica per invidia ; e che tu sei un eccellente poeta. — Muse castissime, benché da tanti profanate; biondo Apollo, la di cui cetra è assai miglior della mia ; orgoglioso Pegaso, che sì sovente inciampi quando sei carico dal soverchio peso d'un cattivo cavalcatore; tu che sì raramente spieghi per noi le tue ale per innalzarti a volo: tutti, tutti v'imploro in queste penosissime circostanze. Affascinate gli occhi e gli orecchi de' spettatori, sì che l'infelice Cleopatra appaia loro degna almeno di compassione. — Ma voi barbare Deità, sorde vi mostrate: io vi abbandono, non fo più versi; siete troppo ingrate: dirò del male di voi, farò un madrigale; disonorerò tutta la vostra famiglia: tremate: Apollo al par di me tristo, e meschino Dal cielo in bando, esule, e ramingo Ti festi pastorello, poverino. In Tessalia d'Admeto; e ognor solingo Non ne sapesti pur serbare il gregge; Te l'involò Mercurio... te l'involò Mercurio;... Te l'involò Mercurio... diavolo, la rima egge m' è mancata, e la non vuol venire. Va che sci felice,- Apollo; che se la rima veniva... La vita 151 SCENA SECONDA ORPEO, ZEUSIPPO. Orfeo. Amatissimo Zeusippo, che fai ? mi par che sii turbato. Sempre naovi pensieri, eh ? componi componi Zeusippo. Signore Orfeo straccione, la non mi corbelli. Io g^à ho rinun- ziato alia poesia; e stavo facendo qualche rime per vendicarmi d'Apollo; e poi finisco; non ne vo' più sapere... Orfeo. Farete male, male assai, e qual disgrazia v'obbliga a rotolar dal Parnasso ? La vostra tragedia credo avrà un ottimo successo. Ho visto moltissima gente affollarsi all'entrata: questo è buon segno. Io ci sarei andato pure, se mi aveste regalato il biglietto; ma ve ne siete scordato. Eppure vi avrei potuto giovar molto, col battere delle mani a proposito, coU'escIamare con entusiasmo : Oh che bella parlata ! Che scena ! Che sentimenti ! Siccome ho ancor io (non fo per dire) un qualche g^do nella letteraria repubblica, quei pochi sciocchi che mi avrebbero circondato, avrebbero anch'essi caldamente applaudito; e forse, forse... Zeusippo. No, caro Orfeo ; questi son mezzi troppo vili ; e, dovendovi regalare, amico, non vi darei un biglietto d'ingresso; non avete bisogno di pascervi lo spirito ; sono altre necessità più essenziali a noi poeti ; e se fossi ricco, ricompenserei in altro modo la vostra sviscerata amicizia. Ma, credete, che pur troppo l' ingegno non fa fortuna ; e nel vederci accop- piati, chiunque ci prenderebbe per la Discordia e l' Invìdia, quali si dipin- gono dai poeti e pittori. Ah duro mestiere invero quello, che noi prati- chiamo. Come fate voi, Orfeo, per avere una faccia cosi allegra e giojosa ? credo, che né il Tasso, né il Petrarca, né alcun altro fra i più celebri poeti d'Italia, avessero mai un viso, un portamento così altero e così con- tento di sé medesimo. Io all'incontro poi, pallido, smunto, macilento, ed egro, porto scritti in fronte tutti I più funesti attribuiti della poesia infelice. Orfeo. Questo a voi sta benissimo. Così dev'essere il poeta tragico; sempre peKsieroso, guardar bieco, trattar la fame eroicamente ; lodar poco o di nascosto; domandar mercede nelle dedicatorie; scegliere i più alti Signori per indirizzarli i suoi componenti, sì perchè meno degl'altri gli intendono, si perché più d'ogni altri si mostrano generosi. Io all' incontro, devo aver faccia dì Lirico, e questa dev'essere gioviale, allegra, ridente, sardonica, ma non pìngue, perché non sarebbe poetica. Io con un sonetto mi rendo amico un innamorato sciapito che vuol lodare la sua Diva, ma che disgraziatamente non ha imparato nei suoi primi anni a leggere. Io con un epitalamio m'invito destramente ad nn convito di nozze, colà poe- ticamente mi sfamo per parecchi giorni. Io con un madrigaletto, con un epigramma, che so io, con altre simili bagatelle, mi vò procurando giorni felici, riputazion mediocre; e dal mio basso inalzo ridendo gli sguardi temerari «ino alle più alte piume del cimiero de' tragici e non le invidio. Zeusippo. Ah, non insultate così il coturno. Io, non volendo abbandonar la poesia, preferirei di gran lunga il morir di fame in compagnia de' miei attori al quint'atto di una mia mediocre tragedia, all'arricchirmi compo- nendo madrigali, e sonetti. — Ma qualcuno si appressa: io tremo di bel nuovo. Oh cielo ! vien l'emulo Leone; egli ha un'aria soddisfatta: la Cleo* patra non è piaciuta; io son perduto. 152 Vittorio Alfieri SCENA TERZA LEONE, ZEUSIPPO, ORFEO. Leone. Amici, oh che felice incontro ! Zeusippo, vi ho ascoltato con molto piacere, dovevate trovarvi anche voi al teatro, avreste fatto sob- bissar la platea dagli applausi. Zeusippo. Via, signor Leone, voi mi dite troppo ; non vi credo ; e non ho ancora il viso bastantamente sciacquato da Ippocrene, per presentarmi al pubblico senza arrossire: credo che sarei morto d'affanno, se io mi trovava alla rappresentazione. Leone. Eh, che rossore ? questo non è color poetico ; scacciate coteste fanciullesche imaginazioni. Componete, rappresentate voi stesso, seguite gl'impulsi del genio Febeo, e non arrossite mai. Zeusippo. Seguirò il consiglio che voi mi predicate ancor più efficace- mente con l'esempio, che colle vostre lusinghiere parole. Ma, alle corte; noi due ci corbelliamo l'un l'altro ; siamo entrambi poeti, tragici entrambi, entrambi forse cattivi: noi non ci possiamo amare, potressimo però gio- varci vicendevolmente, se volessimo francamente parlare l'uno dei com- ponimenti dell'altro ; e ciò, con quella pietosa f ratellevole discrezione, che sogliono aver fra loro gli autori ec. E basta : perchè non ce n'entra piìi ; e perchè troppo ce n'è entrato fin qui. i > Altri squarci della commedia / poeti pubblicò F. Novati, L'Alfieri poeta comico, in « Studi critici e letterari », Torino, 1900. EPOCA QUARTA VIRILITÀ ABBRACCIA TRENTA E PIÙ ANNI DI COMPOSIZIONI TRADUZIONI, E STUDI DIVERSI CAPITOLO PRIMO Ideate, e stese in prosa francese le due prime tragedie, il Filippo, e il Polinice. Intanto un diluvio di pessime rime. Eccomi ora dunque, sendo in età di quasi anni venzette, en« trato nel duro impegno e col pubblico e con me stesso, di f?7mi autor tragico. Per sostenere una sì fatta temerità, ecco quali erano per allora i miei capitali. Un animo risoluto, ostinatissimo, ed indomito; un cuore ridon- dante di affetti di ogni specie, tra' quali predominavano con biz- zarra mistura l'amore e tutte le sue furie, ed una profonda fero- cissima rabbia ed abborrtmento contraogni qualsivoglia tirannide. Aggiungevasi poi a questo semplice istinto della natura mia, una debolissima ed incerta ricordanza delle varie tragedie francesi da me viste in teatro molti anni addietro ; che debbo dir per il vero, che fin allora lette non ne avea mai nessuna, non che meditata: aggiungevasi una quasi totale ignoranza delle regole dell'arte *54 Vittorio Alfieri tragica, e l' imperizia quasi che totale (come può aver osservato il lettore negli addotti squarci) della divina e necessarissima arte del bene scrivere e padroneggiare la mia propria lingua. Il tutto poi si ravviluppava nell' indurita scorza di una presunzione, o per dir meglio, petulanza incredibile, e di un tale impeto di ca- rattere, che non mi lasciava, se non se a stento e di rado e fre- mendo, conoscere, investigare, ed ascoltare la verità. Capitali come ben vede il lettore, più adatti assai per estrarne un cattivo e volgare principe, che non un autor luminoso \ Ma pure una tale segreta voce mi si facea udire in fondo del cuore, ammonendomi in suono anche più energico che noi fa- ceano i miei pochi veri amici: E' ti convien di necessità retro- cedere, e per così dir, rimbambire, studiando ex professo da capo la grammatica, e susseguentemente tutto quel che ci vuole per sapere scrivere correttamente e con arte. E tanto gridò questa voce, eh' io finalmente mi persuasi e chinai il capo e le spalle. Cosa oltre ogni dire dolorosa e mortificante, nell'età in cui mi trovava, pensando e sentendo come uomo, di dover pure ristu- diare, e ricompitare come ragazzo. Ma la fiamma di gloria sì avvampante mi tralucea, e la vergogna dei recitati spropositi sì fortemente incalzavamiper essermi quando che fosse tolta di dosso, ch'io a poco a poco mi accinsi ad affrontare e trionfare di co^ desti possenti non meno che schifosi ostacoli. La recita della Cleopatra mi avea, come dissi, aperio gli occhi, e non tanto sul demerito intrinseco di quel tema per sé stesso infelice, e non tragediabile da chi che si fosse», non che da un ine- sperto autore per primo suo saggio; ma me gli avea anco spa- lancati a segno di farmi ben bene osservare in tutta la sua im- mensità lo spazio che mi conveniva percorrere all' indietro, prima di potermi, per così dire, ricollocare alle mosse, rientrare nell'a- ringo, e spingermi con maggiore o minor fortuna verso la meta. Cadutomi dunque pienamente dagli occhi quel velo che fino a quel punto me gli avea sì fortemente ingombrati, io feci con me stesso un solenne giuramento: Che non rispamiierei oramai né fatica né noja nessuna per mettermi in grado di sapere la mia lingua quant'uomo d'Italia. E a questo giurameftto m'indussi, perchè mi parve, che se io mai potessi giungere una volta al ben > Illustre. « V. il Sentimento dell'autore sulla tragedia Antonio e Cleopatra, edito dal Milanesi colle Tragedie, Firenze, 1866, v. II, p. 565. ■La vita 155 dire, non mi dovrebbero mai poi mancare né il ben ideare, né il ben comporre. Fatto il giuramento, mi inabissai nel vortice grammatichevole, come già Curzio * nella voragine, tutto armato, e guardandola. Quanto piìi mi trovava convinto di aver fatto male ogni cosa sino a quel punto, altrettanto mi andava tenendo per certo di poter col tempo far meglio ; e ciò tanto piìi tenen- done quasi una prova evidente nel mio scrigno. E questa prova erano le due tragedie, il Filippo, ed il Poiini/:t, le quali già tra il marzo e il maggio di quell'anno stesso 1775, cioè tre mesi circa prima che si recitasse la Cleopatra, erano state stese da me in prosa francese ; e parimente lette da me ad alcuni pochi, mi era sembrato che ne fossero rimasti colpiti. Né mi era persuaso di quest'effetto perché me l'avessero piìi o meno lodate; ma per l'attenzione non finta né comandata, con cui le aveano di capo in fondo ascoltate, e perché i taciti moti dei loro commossi aspetti mi parvero dire assai più che le loro parole. Ma per mia somma disgrazia, quali che si fossero quelle due tragedie, elle si trova- vano concepite e nate in prosa francese, onde rimanea loro lunga e difficile via da calcarsi, prima ch'elle si trasmutassero in poesia italiana. E in codesta spiacevole e meschina lingua le aveva io stese, non g^ià perchè io la sapessi, né punto ci pretendessi, ma perché in quel gergo da me per quei cinque anni di viaggio esclusivamente parlato e sentito, io mi veniva a spiegare un po' piti, ed a tradire un po' meno il pensiere mio; che sempre pur mi accadeva per via di non saper nessuna lingua ciò che acca- derebbe ad un volante' dei sommi d' Italia, che trovandosi infermo, e sognando di correre a competenza de' suoi eguali o inferiori, nuU'altro gli mancasse ad ottener la vittoria se non se le gambe. E questa impossibilità di spiegarmi, e tradurre me stesso, non che in versi ma anche in prosa italiana, era tale, che quando io rileggeva un atto, una scena, di quelle ch'eran piaciute ai miei ascoltatori, nessuno d'essi le riconosceva piti per le stesse, e mi domandavano sul serio, perché l'avessi mutate: tanta era l'in- fluenza dei cangiati abiti e panneggiamenti alla stessa figura, ch'ella non era più né conoscibile, né sopportabile. Io mi arrab- biava e piangeva : ma invano. Era forza pigliar pazienza, e rifare : I II leegendarìo patrizio romano che ti ucrlficò alla grandezza della patria. « S«rvo che di notte teguiva o precedeva, correndo a piedi, le carrozze, portando una fiaccola. 156 Vittorio Alfieri ed intanto ingoiarmi le più insulse e antitragiche letture dei nostri testi di lingua per invasarmi di modi toscani; e direi (se non temessi la sguaiataggine dell'espressione), in due parole direi che mi conveniva tutto il giorno spensare per poi ripensare. Tuttavia, l'aver io quelle due tragedie future nello scrigno, mi faceva prestare alquanto più pazientemente l'orecchio agli avvisi pedagogici, che d'ogni parte mi pioveano addosso. E parimente quelle due tragedie mi aveano prestata la forza necessaria per ascoltare la recita a' miei orecchi sgradevolissima della Cleopatra, che ogni verso che pronunziava l'attore mi risuonava nel core come la più amara critica dell'opera tutta, la quale già fin d'al- lora era divenuta un nulla ai miei occhi ; né la considerava per altro, se non se come lo sprone dell'altre avvenire. Onde, siccome non mi avvilirono punto le critiche (forse giuste in parte, ma più assai maligne ed indotte) che mi furono poi fatte su le tragedie della mia prima edizione di Siena del 1783'; così per l'appunto nulla affatto m'insuperbirono, né mi persuasero, quegli ingiusti e non meritati applausi che la platea dì Torino, mossa forse a compassione della mia giovenile fidanza e baldanza, mi volle pur tributare. Primo passo adunque verso la purità toscana essere doveva, e lo fu, di dare interissimo bando ad ogni qua- lunque lettura francese. Da quel luglio in poi non volli più mai proferire parola di codesta lingua, e mi diedi a sfuggire espres- samente ogni persona e compagnia da cui si parlasse. Con tutti questi mezzi non veniva perciò a capo d'italianizzarmi. Assai male mi piegava agli studi gradati e regolati ; ed essendo ogni terzo giorno da capo a ricalcitrare contro gli ammonimenti, io andava pur sempre ritentando di svolazzare coll'ali mie. Perciò, ogni qualunque pensiero mi cadesse nella fantasia, mi provava di porlo inversi; ed ogni genere, ed ogni metro andava tasteg- giando, ed in tutti io mi fiaccava le corna e l'orgoglio, ma l'osti- nata speranza non mai. Tra l'altre di queste rimerie (che poesie non ardirò di chiamarle) una me ne occorse di fare, da essere da me cantata ad un banchetto di liberi muratori 2. Era questa, o dovea essere un capitolo allusivo ai diversi utensili e gradi e offi- > Cfr. E. Bkrtana, Sulla pubblicazione delle prime dieci tragedie del- l'Alfieri, in Raccolta di studi critici dedicata ad A. D'Ancona, Firenze, 1901, pp. 59 sgg. ' Per la diffusione della Massoneria nella seconda metà del secolo XVIII cfr. O. Dito, Massoneria, Carboneria ed altre società segrete, Torino, 1905. La vita 157 ciali di questa buffonesca società. E benché io nel primo sonetto quassù trascritto avessi rubato un verso del Petrarca dai suoi capitoli; con tutto ciò, tanta era la mia disattenzione e ignoranza, che allora cominciai questo mio senza più ricordarmi, o noji l'a- vendo forse mai bene osservata, la regola delle terzine; e così me la proseguii sbagliando sino alla duodecima terzina; dove essendomene nato il dubbio, aperto Dante, conobbi l'errore, e lo corressi in appresso, ma lasciai le dodici terzine com'elle stavano; e cosi le cantai al banchetto ; ma quei liberi muratori tanto inten- devan di rime e di poesia, quanto dell'arte di fabbricare; e il mio capitolo passò. Per ultima prova e saggjio degli infruttuosi miei sforzi, trascriverò ancora qui, o gran parte, o tutto forse quel capitolo; secondo che mi basterà la carta, e la pazienza'. Verso l'agosto di quell'anno stesso 75, credendomi far vita troppo dissipata stando in città, e non potere perciò studiare abbastanza, me n'andai nei monti che confinano tra il Piemonte e il Delfinato, e passai quasi due mesi in un borguccio, chiamato Cezannes a' piedi del Monginevro, dove è fama che Annibale varcasse l'Alpi. Io benché riflessivo per natura, talvolta pure sconsiderato per impeto, non riflettei nel prendere quella risoluzione, che in quei monti mi tornerebbe fra i piedi la maladettissima lingua francese, che con si giusta e necessaria ostinazione io m'era proposto di sfuggir sempre. Ma a questo mi indusse quell'abate, ch'io dissi mi avea accompagnato in quel viaggio ridicolo fatto l'anno in- nanzi a Firenze. Era quest'abate nativo di Cfzannes; eh iamavasi Aillaud; era pieno d'ingegno, di una lieta filosofia, e di molta coltura nella letteratura latina e francese. Egli era stato aio di due fratelli coi quali io m'era trovato assai collegato nella prima gioventù, ed allora aveamo fatto amicizia l'Aillaud ed io; e con- tinuatala dappoi. Debbo dire pel vero, che codesto abate ne' miei primi anni avea fatto il possibile per ispirarmi l'amore delle lettere, dicendomi che ci avrei potuto riuscire; ma il tutto invano. E alle volte si era fatto fra noi il seguente risibile patto: Ch'egli mi dovrebbe leggere per un'ora intera del romanzo, o novelliere, intitolato Les Mille et une Nuits, con che poi io mi sottomet- tessi a sentirmi leggere per soli dieci minuti uno squarcio delle tragedie di Racine. Ed io me ne stavo tutto orecchi nel tempo di quella prima insulsa lettura, e mi addormentava poi al suono dei > V. Appendice. , /.• 158 ViUorio Alfieri dolcissimi versi di quel gran tragico ; cosa di cui l'Aillaud arrab- biava, e vituperavami, con gran ragione. Questa era la mia dispo- sizione a diventar tragico, quando stava nel primo appartamento della reale Accademia. Ma neppur dappoi ho potuto ingoiar mai la cantilena metodica muta e gelidissima dei versi francesi, che non mi sono sembrati mai versi; né quando non mi sapea che cosa si fosse un verso, né quando poi mi parve di saperlo. Torno a quel mio ritiro estivo in Cezannes, dove, oltre l'abate letterato, aveva anche meco un abate citarista, che m'insegnava suonar la chitarra, stromento che mi parea -inspirare poesia, e pel quale una qualche disposizione avea; ma non poi la stabile volontà, che si agguagliasse al trasporto che quel suono mi ca- gionava. Onde né in questo stromento^ né sul cimbalo, che da giovane avea imparato, non ho mai ecceduta la mediocrità, an- corché l'orecchio e la fantasia fossero in me musichevoli nel sommo grado. Passai così quell'estate fra codesti due abati, di cui l'uno mi sollevava dalla angoscia per me sì nuova (dell'ap- plicar seriamente allo studio) col suonarmi la' cetra; l'altro poi mi facea dar al diavolo col suo francese. Con tutto ciò delizio- sissimi momenti mi furono, ed utilissimi, quelli in cui mi venne pur fatto di raccogliermi in me stesso, e di lavorare efficacemente a disrugginire il mio povero intelletto, e dischiudere nella memoria le facoltà dell' imparare, le quali oltre ogni credere mi si erano oppilate^ in quei quasi dieci anni continui d'incallimento nel più vituperoso letargico ozio. Subito mi accinsi a tradurre o ridurre in prosa e frase italiana quel Filippo e quel Polinice, nati in veste spuria. Ma, per quanto mi ci arrovellassi, quelle due tragedie mi rimanevano pur sempre due cose anfibie, ed erano tra il fran- cese e l'italiano senza essere né l'una cosa né l'altra; appunto come dice il poeta nostro della carta avvampante: Un color bruno, Che non è nero ancora, e il bianco muore. In quest'angoscia di dover fare versi italiani di pensieri francesi mi era già travagliato aspramente anche nel rifare la terza Cleo- patra', talché alcune scene di essa, ch'io avea stese e poi lette in francese al mio censor tragico e non grammatico, al conte Agostino Tana, e ch'egli avea trovate forli, e bellissime, tra cui quella d'Antonio con Augusto, allorché poi vennero trasmutate > Ostruite. La vita 159 ne' miei versacci poco italiani, slombati, facili e cantanti, esse gli comparvero una cosa men che mediocre; e me lo disse chiara- mente; ed io lo credei ; e dirò di pivi, che lo sentii anche io. Tanto è pur vero che in ogni poesia il vestito fa la metà del corpo, ed in alcune (come nella lirica) l'abito fa il tutto: a segno che alcuni versi Con la lor vanità che par persona trionfano di parecchi altri in cui Fosser gemme legate in vile anello. E noterò pure qui, che sì al padre Paciaudi, che al conte Tana, e principalmente a questo secondo, io professerò eternamente una riconoscenza somma per le verità che mi dissero, e per avermi a viva forza fatto rientrare nel buon sentiero delle sane lettere. E tanta era in me la fiducia in questi due soggetti, che il mio destino letterario è stato interamente ad arbitrio loro; ed avrei ad ogni lor minimo cenno buttata al fuoco ogni mia composi- zione che avessero biasimata, come feci di tante rime, che altra correzione non meritavano. Sicché, se io ne sono uscito poeta, mi debbo intitolare, per grazia di Dio, e del Paciaudi, e del Tana. Questi furono i miei santi protettori nella feroce continua bat- taglia in cui mi convenne passare p^r ben tutto il primo anno della mia vita letteraria, di sempre dar la caccia alle parole e forme francesi, di spogliare per dir così le mie idee per rivestirle di nuovo sotto altro aspetto, di riunire in somma nello stesso punto lo studio d'un uomo maturissimo con quello di un ragazzaccio alle prime scuole. Fatica indicibile, ingratissima, e da ributtare chiunque avesse avuto (ardirò dirlo) una fiamma minor della mia. Tradotte dunque in mala prosa le due tragedie, come dissi, mi posi all'impresa di leggere e studiare verso a verso per ordine d'anzianità tutti i nostri poeti primari, e postillarli in margine, non di parole, ma di uno o più tratticelli perpendicolari ai versi; per accennare a me stesso se più o meno mi andassero a genio quei pensieri, o quelle espressioni, o quei suoni. Ma trovando a bella prima Dante riuscirmi pur troppo difficile, cominciai dal Tasso, che non avea mai neppure aperto fino a quel punto. Ed io leggeva con sì pazza attenzione, volendo osservar tante e sì diverse e sì contrarie cose, che dopo dieci stanze non sapea più quello ch'io avessi letto, e mi trovava essere più stanco e rifinito assai che se le avessi io stesso composte. Ma a poco a poco mi 160 Vittorio Alfieri andai formando e l'occhio e la mente a quel faticosissimo genere di lettura ; e così tutto il Tasso, la Qerusalemme ; poi l'Ariosto, // Furioso ; poi Dante senza commenti, poi il Petrarca, tutti me li invasai d'un fiato postillandoli tutti, e v'impiegai forse un anno. Le difficoltà di Dante, se erano istoriche, poco mi curava di intenderle, se di espressione, di modi, o di voci, tutto faceva per superarle indovinando ; ed in molte non riuscendo, le poche ch'io vinceva mi insuperbivano tanto più. In quella prima let- tura io mi cacciai piuttosto in corpo un' indigestione che non una vera quintessenza di quei quattro gran luminari ; ma mi preparai così a ben intenderli poi nelle letture susseguenti, a sviscerarli, gustarli, e forse anche rassomigliarli'. Il Petrarca però mi riuscì ancor più difficile che Dante; e da principio mi piacque meno; perchè il sommo diletto dai poeti non si può mai estrarre, finché si combatte coli' intenderli. Ma dovendo io scrivere in verso sciolto, anche di questo cercai di formarmi dei modelli. Mi fu consigliata la traduzione di Stazio del Bentivoglio *. Con somma avidità la lessi, studiai, e postillai tutta ; ma alquanto fiacca me ne parve la struttura del verso per adattarla al dialogo tragico. Poi mi fecero i miei amici censori capitare alle mani VOssian del Cesarotti'; e questi furono i versi sciolti che davvero mi piacquero, mi colpi- rono e m'invasarono. Questi mi parvero, con poca modificazione, un eccellente modello pel verso di dialogo. Alcune altre tragedie o nostre italiane, o tradotte dal francese, che io volli pur leggere sperando d'impararvi almeno quanto allo stile, mi cadevano dalle mani per la languidezza, trivialità, e prolissità dei modi e del verso, senza parlare poi della snervatezza dei pensieri. Tra le men cattive lessi e postillai le quattro traduzioni del Paradisi dal francese*, e la Merope originale del Maffei. E questa, a luoghi mi piacque bastantemente per lo stile, ancorché mi lasciasse pur tanto desiderare per adempirne la perfettibilità, o vera, o sognata, ch'io me n'andava fabbricando nella fantasia. E spesso andava interrogando me stesso: Or, perché mai questa nostra divina lingua, sì maschia anco ed energica e feroce in bocca di Dante, dovrà ella farsi così sbiadata ed eunuca nel dialogo tragico? Perchè il Cesarotti, che sì vibratamente verseggia ntWOssian, cosi fiaccamente poi sermoneggia nella Semiramide e nel Mao- 1 Imitarli, uguagliarli. * Il cardinale Cornelio Bentivoglio d'Aragona (1668-1732). » Cfr. Epoca, III, cap. Vili. « Scelta di etctllenti tragedie francesi tradotte, Liegi [Modena], 1764. La vita 161 metto del Voltaire da esso tradotte? Perchè quel pomposo galleg- giante scioltista caposcuola, il Frugoni, nella sua traduzione del Radamisto del Crebillon \ è egli sì immensamente minore del Cre- billon e di sé medesimo? Certo, ogni altra cosa ne incolperò che la nostra pieghevole e proteiforme favella. E questi dubbi eh' io proponeva ai miei amici e censori, nissuno me li sciogliea. L'ot- timo Paciaudi mi raccomandava frattanto di non trascurare nelle mie laboriose letture la prosa, ch'egli dottamente denominava la nutrice del verso. Mi sovviene a questo proposito, che un tal giorno egli mi portò il Galateo del Casa, raccomandandomi di ben meditarlo quanto ai modi, che certo ben pretti toscani erano, ed il contrario d'ogni franceseria. Io, che da ragazzo lo aveva (come abbiam fatto tutti) maledetto, poco inteso, e niente gfusta- tolo, mi tenni quasi offeso di questo puerile o pedantesco con- siglio. Onde, pieno di mal talento contro quel Galateo, lo apersi. Ed alla vista di quel primo Conciossiacosaché, a cui poi si accoda quel lungo periodo cotanto pomposo e sì poco sugoso, mi prese un tal impeto di collera, che scagliato per la finestra il libro, gridai quasi maniaco: * Ella è pur dura e stucchevole necessità, che per € iscrivere tragedie in età di venzett'anni mi convenga ingoiare « di nuovo codeste baie fanciullesche, e prosciugarmi il cervello « con sì fatte pedanterie ». Sorrise di questo mio poetico inedu- cato furore ; e mi profetizzò che io leggerei poi il Galateo, e più d'una volta. E così fu infatti; ma parecchi anni dopo, quando poi mi era ben bene incallite le spalle ed il collo a sopportare il gioco grammatico. E non il solo Galateo, ma presso che tutti quei nostri prosatori del trecento, lessi e postillai poi, con quanto frutto, noi so. Ma fatto si è, che chi gli avesse ben letti quanto ai lor modi, e fosse venuto a capo di prevalersi con giudizio e destrezza dell'oro dei loro abiti, scartando i cenci delle loro idee, quegli potrebbe poi ne' suoi scritti si filosofici che poetici, o isto- rici, o d'altro qualunque genere, dare una ricchezza, brevità, pro- prietà, e forza di colorito allo stile di cui non ho visto finora nessuno scrittore italiano veramente andar corredato. Forse, perchè la fa- tica è ìmproba; e chi avrebbe l' ingegno e la capacità di sapersene giovare, non la vuol fare, e chi non ha questi dati', la fa invano. > Prospero Crebillon (1674-1762), poeta tragico francese, padre del più ■oto romanziere Claudio (1707-1777). « Requisiti, doti. 11. CUtS'.fcì Ita'! -• •>' 7 162 Vittorio Alfieri APPENDICE CAPITOLO PRIMO Cetra, che a mormorar soltanto avvezza, Indagasti finor spietatamente I vizj, e n'hai dimostra la laidezza; Tu che in mano ad un vate impertinente Che le pubbliche risa nulla apprezza, Benché stolta, credesti esser sapiente, E di che canterai, e con qual fronte? Infra uno stuol sì venerando e augusto ? Tu che neppur vedesti il sacro fonte. O temeraria cetra; e vuoi dar gusto Cicalando di cose a te mal conte Sacre al gelido Scita e al Libio adusto ? Chi condottier ti fora all'alta impresa ? Nelle Muse non spera; a te già sorde S'armerebbero in van per tua difesa. Rompi, stritola, o abbrucia le tue corde Se da fuoco divin non vieni accesa ; Deluderai così le Parche ingorde. Quanti Numi in inferno, o in cielo, o in onda I favolosi Greci un dì creare, Tutti forano vani, ognun si asconda. Tu, chi invocar non sai; io te l'imparo: Inalza il voi dalla terrena sponda. Scorgi un Nume maggior, e a noi più caro. Il supremo Fattor dell'orbe intero Rimira, e poi impallidisci, e trema, E se, tant'osi, a luì richiedi il vero. Per lui fia in te già l'ignoranza scema Egli ti additi il murator primiero. Del grand' Ordine infin l'origo estrema. E se pur ti svelasse un tanto arcano, Avresti tu sì nobili concetti E ad inalzare il voi bastante mano? Ah scusatela sì, fratei diletti, Non ragiona l'insana, oppur delira Quando canta di voi con versi inetti. Cetra, di già tu m'hai destato all'ira. Taci, rispetta, credi, e umil t'inchina. Tanto e non piti concede or chi t'inspira. La vita 163 Tu cantar de' misteri, tu meschina ? Che la semplice Loggia, e quanto accfiiude. Mal descriver sapresti, ahi poverina ! Di quel raggio d'angelica virtude. Che in viso al Venerabile sfavilla, Come cantar con le tue voci crude ? Come, quella di noi dolce pupilla. Il Primo Vigilante, in cui s'arresta Quando emana dal Trono ogni scintilla ? Come il Secondo, che la Loggia assesta Colla fida presenza, ed implorato Di avvicinarci al Trono, a ciò s'appresta ? Come di quei che al gran Maestro a lato Siedono maestosi Consiglieri, Che il tempo infra i Misterj han consumato ? Come, di quei ch'armato il braccio, e fieri Ai Profani vietando ognor l'ingresso Oiustamente sen van di tanto altieri ? Come, di quel che all'opra si indefesso. Necessario Censor,"vi molce e accheta, E sì nobile esempio dà lui stesso ? Come, di quel che nella sterìl meta Di vane Cerimonie a cui presiede N' adempisce il dover con faccia lieta ? Come, di quel, cui l' instancabil piede, (A noi non Servo, ma Fratel diletto) La lautissima mensa oggi provvede ? Come di quel che con sì dolce affetto Serve e v'illustra con la penna arguta Secretaro gentile, a tutti accetto ? — Cetra, ti veggo già stupida e muta Se intraprendi parlar del Sacro Quadro Che i Profani in Fratelli ci commuta. Che diresti tu poi di quel leggiadro Baldacchin del Maestro, il quale al cielo Di coprirlo divieta, invido ladro ? Fora Inutile, e stolto anche il tuo zelo. Se facci-^gessi a dir dell'alma Stella, Cui più lucido il Mastro oggi dà velo. L'emblematica ancor Trina Facella, E le Sante Colonne, e il Tempio antico, Richiederìan piìi nobile favella. Dunque taci, balorda, io tei ridico; E tei dicono pure a un tempo istesso Color che l'Architetto han per amico. Se d'arrossir ti fora ancor concesso, Pensando solo alla scabrosa impresa. Cetra, davver tu arrossiresti adesso. E qui finiva questa etema invocazione alla Cetra, la quale rispondeva da par sua. Strano è che fatti tanti Versi inutili, non ve ne aggiungessi uno in line necessario, per chiudere il Capitolo con la rima secondo le regole. Ma ninna regola mi s'era a.nTr fitta in capo. 164 Vittorio Al/Uri CAPITOLO SECONDO Rimessomi sotto il pedagogo a spiegare Orazio. Primo viaggio letterario in Toscana. Verso il principio dell'anno 76, trovandomi già da sei e più mesi ingolfato negli studii italiani, mi nacque una onesta e cocente vergogna di non più intendere quasi affatto il latino ; a segno che, trovando qua e là, come accade, delle citazioni, anco le più brevi e comuni, mi trovava costretto di saltarle a pie pari, pei non perder tempo a diciferarle. Trovandomi inoltre inibita ogni lettura francese, ridotto al solo italiano, io mi vedeva affatto prive d'ogni soccorso per la lettura teatrale. Questa ragione, aggiun- tasi al rossore, mi sforzò ad intraprendere questa seconda fatica, per poter leggere le tragedie di Seneca \ di cui alcuni sublim; tratti mi aveano rapito; e leggere anche le traduzioni Ietterai latine dei tragici greci, che sogliono essere più fedeli e meno te diose di quelle tante italiane che sì inutilmente possediamo. M presi dunque pazientemente un ottimo pedagogo, il quale postom Fedro in mano, con molta sorpresa sua e rossore mio, vide e m disse che non l'intendeva, ancorché l'avessi già spiegato in eti di dieci anni; ed in fatti provandomici a leggerlo traducendok in italiano, io pigliava dei grossissimi granchi, e degli sconc equivoci. Ma il valente pedagogo, avuto ch'egli ebbe così ad ur tempo stesso il non dubbio saggio e della mia asinità, e della m'u tenacissima risoluzione, m' incoraggi molto, e in vece di lasciarm il Fedro mi diede l'Orazio, dicendomi : < Dal difficile si viene a < facile; e così sarà cosa più degna di lei..Facciamo degli spro € positi su questo scabrosissimo principe dei lirici latini e quest «ci appianeran la via per scendere agli altri ». E così si fece; < si prese un Orazio senza commenti nessuni; ed io spropositando costruendo, indovinando, tradussi a voce tutte l'Odi dal principic di gennaio a tutto il marzo. Questo studio mi costò moltissimi fatica, ma mi fruttò anche bene, poiché mi rimise in grammatici senza farmi uscire di poesia. 1 Le mediocri ed enfatiche tragedie che vanno sotto il nome di Seneci sono generalmente considerate come opera del filosofo L. Anneo Sencci (2-66), precettore di Nerone. La vita 165 In quel frattempo non tralasciava però di leggere e postillare sempre i poeti italiani, aggiungendone qualcuno dei nuovi, come il Poliziano, il Casa, e ricominciando poi da capo i primarii; tal- ché il Petrarca e Dante nello spazio di quattr'anni lessi e po- stillai forse cinque volte. E riprovandomi di tempo in tempo a far versi tragici, avea già verseggiato tutto il Filippo. Ma, benché fosse venuto alquanto men fiacco e men sudicio della Cleopatra, pure quella versificazione mi riusciva languida, prolissa, fasti- diosa e triviale. Ed in fatti quel primo Filippo, che poi alla stampa si contentò di annoiare il pubblico con soli 1400 e qualche versi, nei due primi tentativi pertinacemente volle annoiare e disperare il suo autore con piìi di due mila versi, in cui egli diceva allora assai meno cose, che nei 1400 dappoi. Quella lungaggine e fiacchezza di stile, ch'io attribuiva assai più alla penna che alla mente mia, persuadendomi finalmente ch'io non potrei mai air bene italiano finché andava traducendo me stesso dal francese, mi fece finalmente risolvere di andare in Toscana per avvezzarmi a parlare, udire, pensare, e sognare in toscano, e non altrimenti mai più. Partii dunque nell'aprile del 76, coli' intenzione di starvi sei mesi, lusingandomi che basterebbero a disfranciosarmi. Ma sei mesi non disfanno una triste abitudine di dieci e più anni. Avviatomi alla volta di Piacenza e di Parma, me n'andava a passo tardo e lento, ora in biroccio, ora a cavallo, in compagnia dei miei poetini tascabili, con pochissimo altro ba- gaglio, tre soli cavalli, due uomini, la chitarra, e le molte speranze della futura gloria. Per mezzo del Paciaudi conobbi in Parma, in Modena, in Bologna e in Toscana, quasi tutti gli uomini di un qualche grido nelle lettere. E quanto io era stato non curante di tal mercanzia ne' miei primi viaggi; altrettanto e più era poi divenuto curioso di conoscere i grandi, e i medi in qualunque genere. Allora conobbi in Parma il celebre nostro stampatore Bo- doni', e fu quella la prima stamperia in cui ponessi mai i piedi, benché fossi stato a Madrid, e a Birmingham, dove erano le due più insigni stamperie d' Europa, dopo il Bodoni. Talché io non aveva mai visto un a di metallo, né alcuno di quei tanti ordigni che mi doveano poi col tempo acquistare o celebrità o canzona- tura. Ma certo in nessuna più augusta officina io potea mai capi- tare per la prima volta, né mai ritrovare un più benigno, più ' O. B. Bodoni, il tipografo piemontese nato a Saluzzo (1740-J813). 166 Vittorio Al/ieri esperto, e più ingegnoso espositore di quell'arte maravigliosa che il Bodoni, da cui tanto lustro e accrescimento ha ricevuto e riceve. Così a poco a poco ogni giorno più ridestandomi dal mio lungo e crasso letargo, io andava vedendo e imparando (un po' tardetto) assai cose. Ma la più importante si era per m^, ch'io andava ben conoscendo, appurando e pesando le mie facoltà in- tettuali letterarie, per non isbagliar poi, se poteva, nella scelta del genere. Né in questo studio di me medesimo io era tanto novizio come negli altri; atteso che piuttosto precedendo l'età che aspettandola, io fin da anni addietro avea talvolta impreso a diciferare a me stesso la mia morale entità; e l'avea fatto anche con penna, non che col pensiero. Ed ancora conservo una specie di diario^ che per alcuni mesi avea avuta la costanza di scrivere annoverandovi non solo le mie sciocchezze abituali di giorno in giorno, ma anche i pensieri, e le cagioni intime che mi faceano operare o parlare; il tutto per vedere, se in così appannato specchio mirandomi, il migliorare d'alquanto mi venisse poi a riuscire. Avea cominciato il diario in francese; lo continuai in italiano, non era bene scritto né in questa lingua, né in quella ; era piuttosto originalmente sentito e pensato. Me ne stufai presto; e feci benissimo; perché ci perdeva il tempo e l'inchio- stro, trovandomi essere tuttavia un giorno peggiore dell'altro. Serva questo per prova, ch'io poteva forse ben per l'appunto co- noscere e giudicare la mia capacità e incapacità letteraria in tutti i suoi punti. Parendomi dunque oramai discernere appieno tutto quello che mi mancava e quel poco ch'io aveva in proprio dalla natura, io sottilizzava anche più in là per discernere tra le parti che mi mancavano, quali fossero quelle che mi sarei potute ac- quistar nell'intero, quali a mezzo soltanto, e quali niente affatto. A questo sì fatto studio di me stesso io forse sarò poi tenuto (se non di essere riuscito) di non avere almeno tentato mai nessun genere di composizione al quale non mi sentissi irresistibilmente spinto da un violento impulso naturale; impulso, i di cui getti sempre poi in ogni qualunque bell'arte, ancorché l'opera non riesca perfetta, si distinguono di gran lunga dai getti dell'im- pulso comandato, ancorché potessero pur procreare un'opera in tutte le sue parti perfetta. > I Oiornall, incominciati nel '74 e ripresi nel '77, La vita lo7 Giunto in Pisa, vi conobbi tutti i più celebri professori, e ne andai cavando per l'arte mia tutto quell'utile che si poteva. Nel fregarmi con costoro, la piìi disastrosa fatica eh ' io provassi, ell'era d' interrogarli con quel riguardo e destrezza necessaria per non smascherar loro spiattellatamente la mia ignoranza; ed in somma, dirò con fratesca metafora, per parer loro professo, essendo tuttavìa novizio*. Non già ch'io potessi né volessi spac- ciarmi per dotto ; ma era al buio di tante e poi tante e poi tante cose, che coi visi nuovi me ne vergognava; e pareami, a misura che mi si andavano dissipando le tenebre, di vedermi sempre piìi gigantesca apparire questa mia fatale e pertinace ignoranza. Ma non meno forse gigantesco era e facevasi il mio ardimento. Quindi, mentr'io per una parte tributava il dovuto omaggio al sapere d'altrui, non mi atterriva punto per l'altra il mio non sapere ; sentendomi ben convinto che al far tragedie il primo sa- pere richiesto, si è il forte sentire; il qual non s'impara. Resta» vami da imparare (e non era certo poco) l'arte di fare agli altri sentire quello che mi parea di sentir io. Nelle sei o sette settimane ch'io dimorai in Pisa, ideai e distesi a dirittura in sufficiente prosa toscana la tragedia di Antigone, e verseggiai il Polinice un po' men male che il Filippo. E subito mi parve di poter leggere il Polinice ad alcuni di quei barbassori dell'Università, i quali mi si mostrarono assai soddisfatti della tragedia, e ne censurarono qua e là l'espressioni, ma neppure con quella severità che avrebbe meritata. In quei versi, a luoghi si trovavan dette cose felicemente; ma il totale della pasta ne riusciva ancora languida, lunga e triviale a giudizio mio: a giudizio dei Barbassori, riusciva scorretta qualche volta, ma fluida diceano e sonante. Non e' intendevamo, lo chiamava languido e triviale ciò ch'essi diceano fluidoe sonante ; quanto poi alle scorrezioni, essendo cosa di fatto e non di gusto, non ci cadea contrasto. Ma neppure su le cose di gusto cadeva contrasto fra noi, perchè io a maraviglia tenea la mia parte di discente, come essi la loro di docenti: era però ben fermo di volere prima d'ogni cosa piacere a me stesso. Da quei signori dunque io mi contentava d' imparare negativamente, ciò che non va fatto; dal tempo, dall'esercizio, dall'ostinazione, e da me, lo mi lusingava poi d'imparare quel che va fatto. E s'io volessi far ridere a spese di quei dotti, com'essi forse avran riso > Il novìxio diventa professo dopo aver pronunciato i voti. 168 Vittorio Alfieri allora alle mie, potrei nominare taluno fra essi, e dei più petto- ruti, che mi consigliava, e portava egli stesso la Tancia^ del Buo- narroti, non dirò per modello, ma per aiuto al mio tragico ver- seggiare, dicendomi che gran dovizia di lingua e di modi vi troverei. Il che equivarrebbe a chi proponesse a un pittore di storia di studiare il Callotta". Altri mi lodava lo stile del Meta- stasio come l'ottimo per la tragedia. Altri, altro. E nessun di quei dotti era dotto in tragedia. Nel soggiorno di Pisa tradussi anche la Poetica d'Orazio* in prosa con chiarezza e semplicità per invasarmi que' suoi veridici e ingegnosi precetti. Mi diedi anche molto a leggere le tragedie di Seneca, benché in tutto mi avvedessi esser quelle il contrario dei precetti d'Orazio. Ma alcuni tratti di sublime vero mi tras- portavano, e cercava di renderli in versi sciolti per mio doppio studio di latino, e d'italiano, di verseggiare e grandeggiare. E nel fare questi tentativi mi veniva evidentemente sotto gli occhi la gran differenza tra il verso giambo* ed il verso epico, i cui diversi metri bastano per distinguere ampiamente le ragioni del dialogo da quelle di ogni altra poesia; e nel tempo stesso mi veniva evidentemente dimostrato che noi italiani non avendo altro verso che l'endecasillabo per ogni componimento eroico, biso- gnava creare una giacitura di parole, un rompere sempre variato di suono, un fraseggiare di brevità e di forza, che venissero a distinguere assolutamente, il verso sciolto tragico da ogni altro verso sciolto e rimato sì epico che lirico. I giambi di Seneca mi convinsero di questa verità, e forse in parte me ne procacciarono i mezzi. Che alcuni tratti maschi e feroci di quell'autore debbono per metà la loro sublime energia al metro poco sonante, e spez- zato. Ed in fatti qual'è sì sprovvisto di sentimento e d'udito, che non noti l'enorme differenza che passa tra questi due versi? l'uno, di Virgilio, che vuol dilettare e rapire il lettore: Quadrupedante putrem sanità qaatit ungala campum; 1 Commedia rusticale di Michelangelo Buonarroti (1568-1646), figlio d'un fratello del grande artefice. « Giacomo Callot, incisore e pittore francese il cui genio ardito e fan^ tastico si manifesta in composizioni di finitezza e disegno mirabili. » Molti versi della Poetica, o Hpistola ai Pisani, di Orazio sono dive- nuti proverbiali. * Usato nelle tragedie di Seneca: ad esso, proprio della poesia dram- matica, si contrappone l'esametro, versa epico, metro di quella narrativa. La vtta 169 'altro, di Seneca che vuole stupire, e atterrir l'uditore ; e carat- erizzare in due sole parole due personaggi diversi: Concede mortem. Si recusares, darem.^ Per questa ragione stessa non dovrà dunque un autor tragico italiano net punti più appassionati e fieri porre in bocca de' suoi dialogizzanti personaggi dei versi, che quanto al suono in nulla somiglino a quei per altro stupendi e grandiosissimi del nostro epico' : Chiama gli abitator dell'ombre eteme Il rauco suon della tartarea tromba. Convinto io nell' intimo del cuore della necessità di questa total differenza da serbarsi nei due stili, e tanto più difficile per noi italiani, quanto è giuoco forza crearsela nei limiti dello stesso metro, io dava dunque poco retta ai saccenti di Pisa quanto al fondo dell'arte drammatica, e quanto allo stile da adoperarvisi : gli ascoltava beasi con umiltà e pazienza su la purità toscanesca e grammaticale; ancorché neppure in questo i presenti toscani gran cosa la sfoggino. Eccomi intanto in meno d'un anno dopo la recita della Cleo- patra, possessore in proprio del patrimonietto di tre altre tragedie. E qui mi tocca di confessare, pel vero, di quai fonti le avessi tratte. Il Filippo, nato francese, e figlio di francese, mi venne di ricordo dall'aver letto più anni prima il romanzo di Don Carlos, dell'Abate di San Reale'. 11 Polinice, gallo ancli'egli, lo trassi dai Fratelli nemici, del Racine*. V Antigone, prima non imbrattata di origine esotica, mi venne fatta leggendo il duodecimo libro di Stazio nella traduzione su mentovata, del Bentivoglio. Nel Polinice l'avere io inserito alcuni tratti presi nel Racine, ed altri presi dai Sette Prodi di Eschilo, che legicchiai nella traduzion francese del padre Brumoy*, mi fece far voto in appresso, di » Neir 0^/aWa. • T. Tasso. • Cfr. N. Impallomcni, // Filippo dell' A., Cosenza, 1890. L'abate Cesare di Saint-Réal (I63<)-1642) è più noto per la sua Histotre de la conspiration des Espagnols cantre Venise. « Cfr. N. Impailohcni, // Polinice di V. A., In Olornale storico della letteratura italiana, XXI, pp. 75 sgg. • Pietro Brumoy, gesuita francese (1638-1743), collaborò al Journal de Trévoux ; è noto pel suo THe'àtte des Orecs. 170 Vittorio Alfieri non più mai leggere tragedie d'altri prima d'aver fatte le mie, allorché trattava soggetti trattati, per non incorrere così nella taccia di ladro, ed errare o far bene, del mio. Chi molto legge prima di comporre, ruba senza avvedersene, e perde l'origina- lità, se l'avea. E per questa ragione anche avea abbandonato fin dall'anno innanzi la lettura di Shakespeare (oltre che mi toccava di leggerlo tradotto in francese). Ma quanto più mi andava a sangue quell'autore (di cui però benissimo distingueva tutti i difetti), tanto più me ne volli astenere. Appena ebbi stesa \* Antigone in prosa, che la lettura di Seneca ■m'infiammò e sforzò^d' ideare ad un parto le due gemelle tra- gedie, V Agamennone e V Oreste. Non mi pare con tutto ciò, ch'elle mi siano riuscite in nulla un furto fatto da Seneca^ Nel fin di giugno sloggiai di Pisa, e venni in Firenze, dove mi trat- tenni tutto il settembre. Mi vi applicai moltissimo all' imposses- sarmi della lingua parlabile; e conversando giornalmente coi Fiorentini, ci pervenni bastantemente. Onde cominciai da quel tempo a pensare quasi esclusivamente in quella doviziosissima ed elegante lingua; prima indispensabile base per bene scriverla. Nel soggiorno in Firenze verseggiai per la seconda volta il Fi- lippo da capo a fondo, senza neppur più guardare quei primi versi, ma rifacendoli dalla prosa. Ma i progressi mi pareano lentissimi, e spesso mi parea anzi di scapitare che di migliorare. Nel corrente di agosto, trovandomi una mattina in un crocchio di letterati, udii a caso rammentare l'anecdoto storico di Don Garzia ucciso dal proprio padre Cosimo Primo. Questo fatto mi colpì; e siccome stampato non è, me lo procurai manoscritto, estratto dai pubblici archivi di Firenze, e fin d'allora ne ideai la tra- gedia. Continuava intanto a schiccherare molte rime, ma tutte mi riuscivano infelici. E benché non avessi in Firenze nessun amico censore che equivalesse al Tana e al Paciaudi, pure ebbi abba- stanza senno e criterio di non ne dar copia a chi che si fosse, e anche la sobrietà di pochissimo andarle recitando. Il mal esito delle rime non mi scoraggiva con tutto ciò; ma bensì convince- vami che non bisognava mai restare di leggerne dell'ottime, e d'impararne a memoria, per invasarmi di forme poetiche. Onde in quell'estate m' inondai il cervello di versi del Petrarca, di Dante, del Tasso, e sino ai tre primi canti interi dell'Ariosto ; con- > Un furto fatto a Seneca. Lu Vita 171 vinto in me stesso, che il giorno verrebbe infallibilmente, in cui tutte quelle forme, frasi, e parole d'altri mi tornerebbero poi fuori dalle cellule di esso miste e immedesimate coi miei proprii pensieri ed affetti. CAPITOLO TERZO Ostinazione negli studj più ingrati. Nell'ottobre tomai a Torino, perchè non avea prese le misure necessarie per soggiornare più lungamente fuor di casa, non già perchè io mi presumessi intoscanito abbastanza. Ed anche molte altre frivole ragioni mi fecero tornare. Tutti i miei cavalli lasciati in Torino mi vi aspettavano e richiamavano; passione che in me contrastò lungamente con le Muse, e non rimase poi perdente davvero, se non se più d'un anno dopo. Né mi premeva allora tanto Io studio e la gloria, che non mi pungesse anco molto a ri- prese la smania del divertirmi ; il che mi riusciva assai più facile in Torino dove ci avea buona casa, aderenze d'ogni sorta, bestie' a sufficienza, divagazioni ed amici più del bisogno. Malgrado tutti questi ostacoli, non rallentai punto lo studio in quell'in- verno; ed anzi mi accrebbi le occupazioni e gl'impegni. Dopo Orazio intero, avea letti e studiati ad oncia ad oncia più altri autori, e tra questi Sallustio. La brevità ed eleganza di quel- I' «storico mi avea rapito talmente, che mi accinsi con molta appli- cazione a tradurlo ; e ne venni a capo in quel!' inverno. Molto, anzi infinito obbligo io debbo a quel lavoro; che poi più e più volte ho rifatto, mutato e limato, non so se con miglioramento del l'opera, ma certamente con molto mio lucro sì nell'intelligenza della lingua latina, che nella padronanza di maneggiar l'italiana. Era frattanto ritornato di Portogallo l' incomparabile abate Tom- maso di Caluso ; e trovatomi contro la sua aspettativa ingolfato davvero nella letteratura, e ostinato nello scabroso proposito di farmi autor tragico, egli mi secondò, consigliò, e soccorse di tutti i suol lumi con benignità e amorevolezza indicibile. E cosi pure fece reruditissimo conte di San Raffaele*, ch'io appresi in quel- > Cavalli. « Benvenuto Robbio di S. Raffaele (1733-1794); su dì lui cfr. O. B. Oerini, Oli scrittori pedagogici italiani dtl Sec. XVIll, Torino, 1901, pp. 352-381. 172 Vittorio Alfieri l'anno a conoscere, e altri coltissimi individui*, i quali tutti a me superiori di età, di dottrina, e d'esperienza nell'arte, mi compa- tivano pure, ed incoraggivano ; ancorché non ne avessi bisogno atteso il bollore del mio carattere. Ma la gratitudine che sovra ogni altra professo e sempre professerò a tutti i suddetti perso- naggi, si è per aver essi umanamente comportata la mia incom- portabile petulanza d'allora; la quale, a dir anche il vero, mi andava però di giorno in giorno scemando, a misura che riac- quistava lume. Sul finir di quell'anno 76, ebbi una grandissima e lungamente sospirata consolazione. Una mattina andando dal Tana, a cui sempre palpitante e tremante io solca portare le mie rime, ap- pena partorite che fossero, gli portai finalmente un Sonetto al quale pochissimo trovò che ridire, e lo lodò anzi molto come i primi versi ch'io mi facessi meritevoli di un tal nome. Dopo le tante e continue afflizioni e umiliazioni ch'io avea provate nel leggergli da più d'un anno le mie sconce rime, ch'egli da vero e generoso amico senza misericordia nessuna censurava, e di- ceva il perchè, e il suo perchè mi appagava; giudichi ciascuno qual soave nettare mi giunsero all'anima quelle insolite sincere lodi. Era il sonetto una descrizione del ratto di Ganimede, fatto a imitazione dell' inimitabile del Cassiani" sul ratto di Proserpina. Egli è stampato da me il primo tra le mie rime. E invaghito della lode, tosto ne feci anche due altri, tratto il soggetto dalla favola, e imitati anch'essi come il primo, a cui immediatamente anche nella stampa ho voluto poi che seguitassero. Tutti e tre si risentono un po' troppo della loro serva origine imitativa, ma pure (s'io non erro) hanno il merito d'essere scritti con una certa evidenza, e bastante eleganza, quale in somma non mi era venuta mai fin allora. E come tali ho voluto serbarli, e stamparli con pochissime mutazioni molti anni dopo. In seguito poi di quei tre primi sufficienti sonetti, come se mi si fosse dischiusa una nuova fonte, ne scaturii in quell'inverno troppi altri; i più amo- rosi: ma senza amore che li dettasse. Per esercizio mero di lin- gua e di rime avea impreso a descrivere a parte a parte le bel- lezze palesi d'una amabilissima e leggiadra Signora'; né per essa Cfr. E. Bf.rtana, V. A. cit., pp. 8Q e 300. * Il modenese Giuliano Cassiani {I7rj-17:^8) delle cui rime un Saggio era stato pubblicato a Lucca nel 1770. • La marchesa di Ozà. La vita 173 io sentiva neppure la minima favìlluzza nel cuore ; e forse ci si parrà in quei sonetti piìi descritti^ che affettuosi. Tuttavia, siccome non mal verseggiati, ho voluto quasi che tutti conservarli, e dar loro luogo nelle mie rime; dove agli intendenti dell'arte possono forse andare additando i progressi ch'io allora andava facendo gradatamente nella difficilissima arte del dir bene, senza la quale per quanto sia ben concepito e condotto il sonetto, non può aver vita. Alcuni evidenti progressi nel rimare, e la prosa del Sallustio ridotta a molta brevità con sufficiente chiarezza (ma priva an- cora di quella variata armonia, tutta propria sua, della ben con- cepita prosa), mi aveano ripieno il cuore di ardenti speranze. Ma siccome ogni altra cosa ch'io faceva, o tentava, tutte aveano sempre per primo ed allora unico scopo, di formarmi uno stile proprio ed ottimo per la tragedia, da quelle occupazioni secon- darie di tempo in tempo mi riprovava a risalire alla prima. Nel- l'aprile del 77 verseggiai perciò V Antigone, ch'io come dissi, avea ideata e stesa ad un tempo, circa un anno prima, essendo in Pisa. La verseggiai tutta in meno di tre settimane, e parendomi aver acquistata facilità, mi tenni di aver fatta gran cosa. Ma appena l'ebbi io letta in una società letteraria, dove quasi ogni sera ci radunavamo, ch'io ravvedutomi (benché lodato dagli altri) con mio sommo dolore mi trovai veramente lontanissimo da quel modo di dire ch'io avea tanto profondamente fitto nell'intelletto, senza pur quasi mai ritrovarmelo poi nella penna. Le lodi di quei colti amici uditori mi persuasero che forse la Tragedia quanto agli affetti e condotta ci fosse ; ma i miei orecchi e intelletto mi convinsero ch'ella non c'era quanto allo stile. E nessun altri di ciò poteva a una prima lettura essere giudice competente quanto io stesso, perchè quella sospensione, commozione, e curiosità che porta con sé una" non conosciuta tragedia, fa si che l'uditore^ ancorché di buon gusto dotato, non può e non vuole, né deve, soverchiamente badare alla locuzione. Quindi tutto ciò che non è pessimo, passa inosservato, e non spiace. Ma io che la leggeva conoscendola, fino a un puntino mi dovea avvedere ogni qual volta il pensiero o l'affetto venivano o traditi o menomati dalla non abbastanza o vera, o calda, o breve, o forte, o pomposa espressione. > Descrìttivi. 174 Vittorio Alfieri Persuaso io dunque che non era al punto, e non ci arrivava, perchè in Torino viveva ancor troppo divagato, e non abbastanza solo e con l'arte, subito mi risolvei di tornare in Toscana, dove anche sempre più mi italianizzerei il concetto. Che se in Torino non parlava francese, con tutto ciò il nostro gergaccio piemon- tese ch'io sempre parlava e sendva tutto il giorno, in nulla riu- sciva favorevole al pensare e scrivere italiano. CAPITOLO QUARTO Secondo viaggio letterario in Toscana, macchiato di stolida pompa caval- lina. Amicizia contratta col Gandellini. Lavori fatti o ideati in Siena. Partii nei primi di maggio, previa la consueta permissione che bisognava ottenere dal re per uscire dai suoi felicissimi stati. Il ministro a chi la domandai, mi rispose che io era stato anco l'anno innanzi in Toscana. Soggiunsi: E perciò mi propongo di ritornarvi quest'anno. Ottenni il permesso; ma quella parola mi fece entrar in pensieri, e bollire nella fantasia il disegno che io poi in meno d'un anno mandai pienamente ad effetto, e per cui non mi occorse d'allora in poi mai più di chiedere permis- sione nissuna. In questo secondo viaggio, proponendomi di stare più tempo, e fra i miei delirj di vera gloria frammischiandone pur tuttavia non pochi di vanagloria, ci volli condur più cavalli e più gente ; per recitare in tal guisa le due parti che di rado si maritano insieme, di poeta e di signore. Con un treno dunque di otto cavalli, ed il rimanente non discordante da esso, mi avviai alla volta di Genova. Di là imbarcatomi io col bagaglio e il bi- roccino, mandai per la via di terra verso Lerici e Sarzana i ca- valli. Questi arrivarono felicemente avendomi preceduto. Io nella feluca essendo già quasi alla vista di Lerici, fui rimandato indietro dal vento, e costretto di sbarcare a Rapallo, due sole poste di- stante da Genova. Sbarcato quivi, e tediatomi di aspettare che il vento tornasse favorevole per ritornare a Lerici, lasciai la feluca con la roba mia, e prese alcune camicie, i miei scritti (dai quali non mi separava mai più) ed un sol uomo, per le poste a cavallo a traverso a quei rompicolli di strade del nudo' Apennino me ne » Brullo. La vita 175 venni a Sarzana, dove trovai i cavalli, e dovei poi aspettar la feluca più di otto giorni. Ancorché io ci avessi il divertimento dei cavalli, pure non avendo altri libri che l'Orazietto e il Petrar- chino di tasca, mi tediava non poco il soggiorno di Sarzana. Da un prete fratello del mastro di posta mi feci prestare un Tito Livio, autore che (dalle scuole in poi, dove non l'avea né inteso né gustato) non m'era piìi capitato alle mani. Ancorché io smo- deratamente mi fossi appassionato della brevità sallustiana, pure la sublimità dei soggetti, e la maestà delle concioni di Livio mi colpirono assai. Lettovi il fatto di Virginia, e gl'infiammati di- scorsi d'Icilio, mi trasportai talmente per essi, che tosto ne ideai la tragedia; e l'avrei stesa d'un fiato, se non fossi stato sturbato dalla continua espettativa di quella maledetta feluca, il di cui arrivo mi avrebbe interrotto la composizione. E qui per l'intelligenza del lettore mi conviene spiegare queste mie parole di cui mi vo servendo si spesso, ideare, stendere e verseggiare. Questi tre respiri con cui ho sempre dato l'essere alle mie tragedie, mi hanno per lo piì» procurato il beneficio del tempo, così necessario a ben ponderare un componimento di quella importanza; il quale se mai nasce male, difficilmente poi si raddrizza. Ideare dunque io chiamo, il distribuire il soggetto in atti e scene, stabilire e fissare il numero dei personaggi, e in due paginucce di prosacela farne quasi l'estratto a scena per scena di quel che diranno o faranno. Chiamo poi stendere; qua- lora ripigliando quel primo foglio, a norma della traccia accen- nata ne riempio le scene dialogizzando in prosa come viene la tragedia intera, senza rifiutar un pensiero, qualunque ei siasi, e scrivendo con impeto quanto ne posso avere, senza badare al come. Verseggiare finalmente chiamo non solamente porre in versi quella prosa, ma col riposato intelletto assai tempo dopo scernere tra quelle lungaggini del primo getto i migliori pen- sieri, ridurli a poesia, e leggìbili. Segue poi come di ogni altro componimento il dover successivamente limare, levare, mutare; ma se la tragedia non v'è nell' idearla e distenderla, non si ritrova certo mai più con le fatiche posteriori. Questo meccanismo io l'ho osservato in tutte le mie composizione drammatiche comin- ciando dal Filippo, e mi son ben convinto ch'egli è per sé stesso più che i due terzi dell'opera. Ed in fatti, dopo un certo inter- vallo, quanto bastasse a non più ricordarmi affatto di quella prima distribuzione di scene, se io, ripreso in mano quel foglia, alla 176 Vittorio AlfUri descrizione di ciascuna scena mi sentiva repentinamente affollaf- misi al cuore e alla mente un tumulto di pensieri e di affetti che per così dire a viva forza mi spingessero a scrivere, io tosto rice- veva quella prima sceneggiatura per buona, e cavata dai visceri del soggetto. Se non mi si ridestava quest'entusiasmo, pari e maggiore di quando l'avea ideata, io la cangiava od ardeva. Ri- cevuta per buona la prima idea, l'adombrarla era rapidissimo, e un atto al giorno ne scriveva, talvolta più, raramente meno; e quasi sempre nel sesto giorno la tragedia era, non dirò fatta, ma nata. In tal guisa, non ammettendo io altro giudice che il mio proprio sentire, tutte quelle che non ho potuto scriver così, di ridondanza e furore, non le ho poi finite; o, se pur finite, non le ho mai poi verseggiate. Così mi avvenne di un Carlo Primo che immediatamenie dopo il Filippo intrapresi di stendere in fran- cese; nel quale abbozzo a mezzo il terz'atto mi si agghiacciò sì fattamente il cuore e la mano, che non fu più possibile alla penna il proseguirlo. Così d'un Romeo e Giulietta, ch'io pur stesi in intero, ma con qualche stento, e con delle pause. Onde più mesi dopo, ripreso in mano quel!' infelice abbozzo, mi cagionò un tal gelo nell'animo rileggendolo, e tosto poi m' infiammò di tal ira contro me stesso, che senza altrimenti proseguirne la tediosa let- tura, lo buttai sul fuoco. Dal metodo eh' io qui ho prolissamente voluto individuare, ne è poi nato l'effetto seguente: che le mie tragedie prese in totalità, tra i difetti non pochi eh' io vi scorgo, e i molti che forse non vedo, elle hanno pure il pregio di essere, o di parere ai più, fatte di getto, e di un solo attacco collegate in sé stesse, talché ogni parola e pensiero ed azione del quint'atto strettamente s'immedesima con ogni pensiero, parola e disposi- zione del quarto risalendo sino ai primi versi del primo; cosa, che, se non altro, genera necessariamente attenzione nell'uditore, e calor nell'azione. Quindi è, che stesa così la tragedia, non ri- manendo poi all'autore altro pensiere che di pacatamente ver- seggiarla scegliendo l'oro dal piombo, la sollecitudine che suol dare alla mente il lavoro dei versi e l'incontentabile passione dell'eleganza, non può più nuocer punto al trasporto e furore a cui bisogna ciecamente obbedire nell' ideare e creare cose d'af- fetto e terribili. Se chi verrà dopo me giudicherà ch'io con questo metodo abbia ottenuto più ch'altri efficacemente il mio intento, la presente digressioncella potrà forse col tempo ilhiminare e gio- vare a qualcuno che professi quest'arte: ove lo l'abbia sbagliato, servirà perchè altri ne inventi un migliore. La vita 177 Kipiglip il filo della narrazione. Giunse finalmente a Lerici quella tanto aspettata feluca ; ed io, avuta la mia robba, imme- diatamente partii dì Sarzana alla volta di Pisa, accresciuto il mio poetico patrimonio di quella Virginia di più ; soggetto che mi andava veramente a sangue. Già avea disegnato in me di non trattenermi questa volta in Pisa più di due giorni' ; sì perchè mi lusingava che per la lingua io profitterei più in Siena dove si parla meglio, e vi son meno forestieri ; sì perchè nel soggiorno fattovi l'anno innanzi io mi vi era quasi mezzo invaghito di una bella e nobile signorina, la quale anche agiata di beni di fortuna mi sarebbe stata accordata in moglie dai suoi parenti, se io l'avessi chiesta. Ma su tal punto io era allora d'assai migliorato di al- cuni anni prima in Torino, allorché avea consentito che il mio cognato chiedesse per me quella ragazza che poi non mi volle. Questa volta non volli io lasciar chiedere per me quella che mi avrebbe pur forse voluto, e che sì per l'indole, che per ogni altra ragione mi sarebbe convenuta, e mi piaceva anche non poco. Ma ott'anni di più ch'io m'aveva, e tutta l'Europa quasi eh' io avea o bene o male veduta, e l'amor della gloria che m'era entrato addosso, e la passion dello studioi e la necessità di essere, o di farmi libero, per poter essere intrepido e veridico autore, tutti questi caldissimi sproni mi facean passar oltre, e gridavanmi fe- rocemente nel cuore, che nella tirannide basta bene ed è anche troppo il viverci solo, ma che mai, riflettendo, vi si può né si dee diventare marito né padre. Perciò passai l'Arno, e mi trovai tosto in Siena. E sempre ho benedetto quel punto in cui ci ca- pitai, perchè in codesta città combinai un crocchietto di sei o sette individui dotati di un senno, giudizio, gusto e cultura, da non credersi in cosi picciol paese. Fra questi poi primeggiava di gran lunga ì! degnissimo Francesco Gori Gandellini*, di cui più d'una volta mi è occorso di parlare in varj miei scritti', e la di cui dolce e cara memoria non mi uscirà mal dal cuore. Una certa somi- glianza nei nostri caratteri, lo stesso pensare e sentire (tanto più raro e pregevole in riii che in me, attese le di lui circostanze tanto diverse dalle mie) ed un reciproco bisogno di sfogare il > Cfr. V. Cuv, Vittorio Alfieri a Pisa In IVaova Antologia, 17 ott. 1003. » Ricco mercantf di »eta, di drca dieci anni maggiore dell'A., morì il 3 Kttcmbre 1784. » Allude 8peci.\!nientc alle dediche deW'Antigone e della Congiura dei Pani, e al dialoi^o La virtù sconosciuta. 12. - Classici ItaiianL N. 2 178 Vittorio Alfieri cuore ridondante delle passioni stesse, ci riunirono ben tosto in vera e calda amicizia. Questo santo legame della schietta ami- cizia era, ed è tuttavia, nel mio modo di pensare e di vivere un bisogno di prima necessità: ma la mia ritrosa e difficile e severa naturami rende e renderà finch'io viva, poco atto ad inspirarla in altrui, e oltre modo ritenuto nel porre in altri la mia. Perciò nel corso del mio vivere pochissimi amici avrò avuti; ma mi vanto di averli avuti tutti buoni e stimabili assai più di me. Né io mai altro ho cercato nell'amicizia se non se il reciproco sfogo delle umane debolezze, affinchè il senno e amorevolezza dell'amico venisse attenuando in me e migliorando le non lodevoli, e cor- roborando all'incontro e sublimando le poche lodevoli, dalle quali l'uomo può trarre utile per altri ed onore per sé. Tale è la debo- lezza del volersi far autore. Ed in questa principalmente, i consigli generosi ed ardenti del Gandellini mi hanno certo prestato non piccolo soccorso ed impulso. Il desiderio vivissimo ch'io con- trassi di meritarmi la stima di codesto raro uomo, mi diede subito una quasi nuova elasticità di mente, un'alacrità d'intelletto, che non mi lasciava trovar luogo né pace, s'io non procreava prima qualche opera che fosse, o mi paresse degna di lui. Né mai io ho goduto 'dell'intero esercizio delle mie facoltà intellettuali e inventive, se non se quando il mio cuore si ritrovava ripieno e appagato, e l'animo mio per così dire appoggiato o sorretto da un qualche altro ente gradito e stimabile. Che all'incontro quand'io mi vedeva senza un sì fatto appoggio quasi solo nel mondo, con- siderandomi come inutile a tutti e caro a nessuno, gli accessi di malinconia, di disinganno e disgusto d'ogni umana cosa, eran tali e si spessi ch'io passava allora dei giorni interi, e anco delle settimane senza né volere né potere toccar libro né penna. Per ottenere dunque e meritare la lode di un uomo così sti- mabile agli occhi miei quanto era il Qori, io mi posi in quel- l'estate a lavorare con un ardore assai maggiore di prima. Da lui ebbi il pensiero di porre in tragedia la Congiura de' Pazzi. Il fatto m'era affatto ignoto, ed egli mi suggerì di cercarlo nel Machiavelli a preferenza di qualunque altro storico. Così, per per una strana combinazione, quel divino autore che dovea poi in appresso farmisi una delle mie piìi care delizie, mi veniva la seconda volta posto in mano da un altro veracissimo amico, simile in molte cose al già tanto a me caro D'Acunha, ma molto più erudito e colto di lui. Ed in fatti, benché il mio terreno non La vita 179 fosse preparato abbastanza per ricevere e fruttificare un tal seme, pure in quel luglio ne lessi di molti squarci qua e là, oltre la narrazione del fatto della congiura. Quindi, non solo la tragedia ne ideai immediatamente, ma invasato da quel suo dire origina- lissimo e sugoso, di lì a pochi giorni mi sentii costretto a lasciare ogni altro studio, e come inspirato e sforzato a scrivere d'un sol fiato i due libri della Tirannide^ ; quasi per l'appunto quali poi molti anni appresso gli stampai. Fu quello uno sfogo di un animo ridondante e piagato fin dall'infanzia dalle saette dell'abborrita e universale oppressione. Se in età più matura io avessi dovuto trattar di nuovo un tal tema, l'avrei forse trattato alquanto più dottamente, corroborando l'opinione mia colla storia. Ma nello stamparlo non ho però voluto, col gelo degli anni e la pedan- teria del mio sapere, indebolire in quel libro la fiamma di gio- ventù e di nobile e giusto sdegno, che ad ogni pagina d'esso mi parve avvampare, senza scompagnarsi da un vero e incalzante raziocinio che mi par dominare. Che se poi vi ho scorti degli sbagli, o delle amplificazioni, come figli d' inesperienza e non mai di mal animo, ce li ho voluti lasciare. Nessun fine secondo, nes- suna privata vendetta mi ispirò quello scritto. Forse ch'io avrò o male, o falsamente sentito, ovvero con troppa passione. Ma e quando mai la passione pei vero e pel retto fu troppa, allorché massimamente si tratta di immedesimarla in altrui? Non ho detto che quanto ho sentito, e forse meno che più. Ed in quella bol- lente età il giudicare e raziocinare non eran fors'altro che un puro e generoso sentire. CAPITOLO QUINTO Degno amore mi allaccia finalmente per sempre. Sgravato in tal guisa l'esacerbato mio animo dal lungo e tra- boccante odio ingenito suo contro la tirannide, io mi sentii tosto richiamato alle opere teatrali; e quel libercoletto, dopo averlo letto all'amico, ed a pochissimi altri, sigillai e posi da parte', né mìù ci pensai per molti anni. Intanto, ripreso il coturno, rapidis- simamente distesi ad un tratto V Agamennone, l'Oreste, e la Vir- > Son dedicati alla < divina liberti >; l'A. vi esamina la costituzione di nn governo assoluto, ne svela i mali e vi contrappone i rimedi. * Perchè pericoloso. 180 Vittorio Alfieri ginia. E circa aWOreste, mi era nato un dubbio prima di sten- derlo, ma il dubbio essendo per sé stesso picciolo e vile, mi venne in magnanima guisa disciolto dall'amico. Questa tragedia era stata da me ideata in Pisa l'anno innanzi, e mi avea infiam- mato di tal soggetto la lettura del pessimo Agamennone di Seneca. Nell'inverno poi, trovandomi io in Torino, squadernando un giorno i miei libri, mi venne aperto un volume delle tragedie del Voltaire, dove la prima parola che mi si presentò fu, Oreste tra- gedia. Chiusi subito il libro, indispettito di ritrovarmi un tal com- petitore fra i moderni, di cui non avea mai saputo che questa tragedia esistesse. Ne domandai allora ad alcuni, e mi dissero esser quella una delle buone tragedie di quell'autore ; il che mi avea molto raffreddato nell'intenzione di dar corpo alla mia. Trovandomi io dunque poi in Siena, come dissi, ed avendo già steso V Agamennone, senza più nemmeno aprire quello di Seneca per non divenir plagiario, allorché fui sul punto di dover stender l'Oreste, mi consigliai con l'amico raccontandogli il fatto e chie- dendogli in imprestìto quello del Voltaire per dargli una scorsa, e quindi o fare il mio o non farlo. Il Oori, negandomi l' impre- stito dell'Oreste francese, soggiunse: • Scriva il suo senza legger quello; e se ella é nato per far tragedie, il suo sarà peggiore o migliore od uguale a quell'altro Oreste, ma sarà almeno ben suo ». E cosi feci. E quel nobile ed alto consiglio divenne d'allora in poi per me un sistema ; onde, ogni qual volta mi sono accinto a trattar soggetti già trattati da altri moderni, non li lessi mai se non dopo avere steso e verseggiato il mio; e se gli avea visti in palco, cercai di non me ne ricordar punto; e se mal mio grado me ne ricordava, cercai di fare, dove fosse possibile, in tutto il contrario di quelli. Dal che mi è sembrato che me ne sia ridon- data in totalità una faccia ed un tragico andamento, se non buono, almeno ben mio. Quel soggiorno di circa cinque mesi in Siena fu dunque vera- mente un balsamo pel mio intelletto e pel mio animo ad un tempo. Ed oltre tutte le accennate composizioni, vi continuai anche con ostinazione e con frutto lo studio dei classici latini, tra cui OÌo^ venale, che mi fece gran colpo, e lo rilessi poi sempre in ap- presso non meno di Orazio. Ma approssimandosi l'inverno, che in Siena non è punto piacevole, e non essendo io ancora ben sanato dalia giovanile impazienza di luogo, mi determinai nel- l'ottobre di andare a Firenze, non ancora ben certo se vi passerei La vita 181 pur l'inverno, o se me ne tornerei a Torino. Ed ecco, che appena mi vi fui collocato cosi alla peggio per provarmici un mese, nacque tale accidente, che mi vi collocò e inchiodò per molti anni ; accidente, per cui determinatomi per mia buona sorte ad espa- triarmi per sempre, io venni fra quelle nuove spontanee ed auree catene ad acquistare davvero l'ultima mia letteraria libertà, senza la quale non avrei mai fatto nulla di buono, se pur l'ho fatto. Fin dall'estate innanzi, ch'io avea come dissi passato intero a Firenze, mi era senza ch'io *1 volessi occorsa più volte agli occhi una gentilissima e bella signora, che per esservi anch'essa fore- stiera e distinta, non era possibile di non vederla e osservarla ; e più ancora impossibile, che osservata e veduta non piacesse ella sommamente a ciascuno. Con tutto ciò, ancorché gran parte dei signori di Firenze, e tutti i forestieri di nascita da lei capitassero, io immerso negli studi e nella malinconia, ritroso e selvaggio per indole, e tanto più sempre intento a sfuggire tra il bel sesso quelle che più aggradevoii e belle mi pareano, io perciò in quel- l'estate innanzi non mi feci punto introdurre nella di lei casa: ma nei teatri e passeggi mi era accaduto di vederla spessissimo. L'impression prima me n'era rimasta negli occhi, e nella mente ad un tempo, piacevolissima. Un dolce focoso negli occhi neris- simi accoppiatosi (che raro addiviene) con candidissima pelle e biondi capelli, davano alla di lei bellezza un risalto, da cui dif- ficile era di non rimanere colpito e conquiso. Età di anni venti- cinque; molta propensione alle bell'arti e alle lettere; indole d'oro; e, malgrado gli agj di cui abondava, penose e dispiace- voli circostanze domestiche, che poco la lasciavano essere, come il dovea, avventurata e contenta'. Troppi pregi eran questi, per affrontarli. In quell'autunno dunque sendomi da un mio conoscente pro- posto più volte d'introdurmivi, io credutomi forte abbastanza mi arrischiai di accostarmivi ; né molto andò, ch'io mi trovai quasi senza avvedermene preso. Tuttavia titubando io ancora tra il si e il no di quella fiamma novella, nel decembre feci una scorsa a Roma per le poste a cavallo; viaggio pazzo e strapazzatissimo, che non mi fruttò altro che d'aver fatto il Sonetto di Roma' per- « Era cortei la contessa Luis» d'Albany, figlia di Gustavo Adolfo prin- cipe di Stolberg-Ocldcrn, sposata nel 1772 a Carlo Odoardo Stuart, pre- tendente al trono di Scozia. Cfr. E. Bertana, V. A. cit., p. IW sgg. ' Cfr. O. Del Finto, Il sonetto dell'A. contro Roma in Nuova Rassegna, 22 aprile 1894, p. 500 sgg. 182 Vittorio Alfieri nettando in una bettolaccia di Baccano, dove non mi riuscì mai di poter chiuder occhio. L'andare, lo stare e il. tornare, furono circa dodici giorni. Rividi nelle due passate da Siena l'amico Gori, il quale non mi sconsigliò da quei nuovi ceppi, in cui già era più che mezzo allacciato; onde il ritorno a Firenze me li ribadì ben tosto per sempre. Ma l'approssimazione di questa mia quarta ed ultima febbre del cuore si veniva felicemente per me manifestando con sintomi assai diversi dalle tre prime. In quelle io non m'era ritrovato allora agitato da una passione dell'intel- letto la quale contrappesando e frammischiandosi a quella del cuore venisse e formare (per esprimermi col poeta)' un misto in- cognito indistinto, che meno d'alquanto impetuoso e fervente, ne riusciva però più profondo, sentito e durevole. Tale fu la fiamma che da quel punto in poi si andò a poco a poco ponendo in cima d'ogni mio affetto e pensiero, e che non si spegnerà oramai più in me se non colla vita. Avvistomi in capo a due mesi che la mia vera donna era quella, poiché in vece di ritrovare in essa, come in tutte le volgari donne, un ostacolo alla gloria letteraria, un disturbo alle utili occupazioni, ed un rimpicciolimento direi di pensieri, io ci ritrovava e sprone e conforto ed esempio ad ogni bell'opera ; io, conosciuto ed apprezzato un sì raro tesoro, mi diedi allora perdutissimamente a lei. E non errai per certo, poiché più di dodici anni dopo, mentr'io sto scrivendo queste chiacchiere, en- trato oramai nella sgradita stagione dei disinganni, vieppiù sempre di essa mi accendo quanto più vanno per legge di tempo sce- mando in lei quei non suoi pregi passeggieri della caduca bel- lezza. Ma in lei si innalza, addolcisce, e migliorasi di giorno in giorno il mio animo, ed ardirò dire e creder lo stesso di essa, la quale in me forse appoggia e corrobora il suo. CAPITOLO SESTO Donazione intera di tutto il mio alla sorella. Seconda avarizia. Cominciai dunque allora a lavorar lietamente, cioè con animo pacato e securo, come di chf ha ritrovato al fine e scopo ed ap- poggio. Già era fermo in me stesso di non mi muover più di Firenze, fintanto almeno che ci rimarrebbe la mia donna a dimora. » Aliqhieri, Divina Commedia, Purg., VII, 81. La vita 183 Quindi mi convenne mandare ad effetto un disegno ch'io già da gran tempo avea direi abbozzato nella mia mente, e che poi mi si era fatto necessità assoluta dacché avea sì indissolubilmente posto il cuore in sì degno oggetto. Mi erano sempre oltre modo pesate e spiaciute le catene della mia natia servitù, e quella tra l'altre, per cui, con privilegio non invidiabile, i nobili feudatari sono esclusivamente tenuti a chie- dere licenza ?al re di uscire per ogni minimo tempo dagli Stati suoi ; e questa licenza si otteneva con qualche difficoltà, o sgar- betto, dal Ministro, e sempre poi si ottenea limitata. Quattro o cinque volte mi era accaduto di doverla chiedere, e benché sempre l'avessi ottenuta, tuttavia trovandola io ingiusta (poiché ne i cadetti, né i cittadini di nessuna classe, quando non fossero stati impiegati, erano costretti di ottenerla) sempre con maggior ribrezzo mi vi era piegato, quanto più in quel frattempo mi si era rinforzata la barba. L'ultima poi, che mi era venuta chiesta, e che, come di sopra accennai, mi era stata accordata con una spiacevol parola, mi era riuscita assai dura a inghiottirsi. Cre- sceano, oltre ciò, di giorno in giorno i miei scritti. La Virginia, ch'io avea distesa con quella dovuta libertà e forza che richiede il soggetto; l'avere steso quel libro della Tirannide come se io fossi nato e domiciliato in paese di giusta e verace libertà; il leg- gere, gustare, e sentir vivamente Tacito e il Machiavelli, e i pochi altri simili sublimi e liberi autori; il riflettere e conoscere pro- fondamente quale si fosse il mio vero stato, e quanta l' impossi- bilità di rimanere in Torino stampando', o di stampare rimanen- dovi; l'essere pur troppo convinto che anche con molti guai e pericoli mi sarebbe avvenuto di stampar fuori, dovunque ch'io mi trovassi, finché io rimaneva pur suddito di una legge nostra, che quaggiù citerò: aggiunto poi finalmente a tutte queste non lievi e manifeste ragioni la passione che di me nuovamente si era, con tanta mia'felicità ed utilità, impadronita; non dubitai punto, ciò visto, di lavorare con la maggior pertinacia ed ardore all'im- portante opera di spiemontìzzarmi per quanto fosse possibile; ed •T lasciare per sempre, ed anche a qualunque costo il mio mal sortito nido natio. * L« leggi del Piemonte ordinavano che nessun professore potesse stam- pare senza il permesso del Magistrato della Riforma, e niun suddito stam- pare all'estero senza licenza dei regj censori. 184 Vittorio Aljieri Più d'un modo di farlo mi si presentava alla mente. Quello, di andar prolungando d'anno in anno la licenza, chiedendola; ed era forse il più savio, ma rimaneva anche dubbio, né mai mi vi potea pienamente affidare, dipendendo dall'arbitrio altrui. Quello di usar sottigliezze, raggiri, e lungaggini, simulando dei debiti, con vendite clandestine, e altri simili compensi per realizzare il fatto mio, ed estrarlo da quel nobil carcere. Ma questi mezzi eran vili, ed incerti; né mi piacevano punto, fors'anche perché estremi non erano. Del resto, avvezzo io per carattere a sempre presupporre le cose al peggio, assolutamente voleva anticipando schiarire e decidere questo fatto, al quale mi conveniva poi a ogni modo un giorno o l'altro venirci, o rinunziare all'arte e alla gloria di indipendente e veridico autore. Determinato dunque di appurar la cosa, e fissare se avrei potuto salvare parte del mio per campare e stampare fuor di paese, mi accinsi vigorosamente all'impresa. E feci saviamente, ancorché giovine fossi, ed appas- sionato in tante maniere. E certo, se io mai (visto il dispotico governo sotto cui mi era toccato di nascere), s' io mai mi fossi lasciato avvantaggiare dal tempo, e trovatomi nel caso di avere stampato fuori paese anche i più innocenti scritti, la cosa diveniva assai problematica allora, e la mia sussistenza, la mia gloria, la mia libertà, rimanevano interamente ad arbitrio di quell'autorità assoluta, che necessariamente offesa dal mio pensare, scrivere ed operare dispettosamente generoso e libero, non mi avrebbe poi certamente favorito nell' impresa di rendermi indipendente da essa. Esisteva in quel tempo una legge in Piemonte, che dice : « Sarà « pur anche proibito a chicchessia di far stampar libri o altri scritti « fuori de' nostri Stati, senza licenza de' revisori, sotto pena di « scudi sessanta, od altra maggiore, ed eziandio corporale, se così «esigesse qualche circostanza per un pubblico esempio >'. Alla qual legge aggiungendo quest'altra: « I vassalli abitanti ne' nostri Stati non potranno assentarsi dai medesimi senza nostra licenza in iscritto ». E fra questi due ceppi si vien facilmente a conchiu- dere, che io non poteva essere ad un tempo vassallo ed autore. Io dunque prescelsi di essere autore. E, nemicissimo coni' io era d'ogni sotterfugio ed indugio, presi per disvassallarmi la più corta e la più piana via, di fare una interissima donazione in vita d'ogni mio stabile sì infeudato che libero (e questo era più > Leggi e costituzioni di S. M. del 7 aprile 1770, capo XVI, § 13. La vita 185 che 1 due terzi del tutto) al mio erede naturale, che era la mia sorella Giulia, maritata come dissi col conte di Cumiana. É cosi feci nella più solenne e irrevocabile maniera, rìserbandomi una pensione annua di lire quattordici mila di Piemonte, cioè zecchini fiorentini 1400, che venivano ad essere poco più in circa della metà della mia totale entrata d'allora. E contentone io rimanevami di perdere l'altra metà, o di comprare con essa l' indipendenza della mia opinione, e la scelta del mio soggiorno, e la libertà dello scrivere. Ma il dare stabile ed intero compimento a codesto affare mi cagionò molte noie e disturbi, attese le molte formalità legali, che trattandosi l'affare da lontano per lettere, consuma- rono necessariamente assai più tempo. Ci vollero oltre ciò le con- suete permissioni del re; che in ogni più privata cosa In quel benedetto paese sempre c'entra il re. E fu d'uopo che il mio cognato, facendo per se e per me, ottenesse dal re la licenza di accettare la mia donazione, e venisse autorizzato a corrisponder- mene queir^nuale prestazione in qualsivoglia paese mi fosse piaciuto dimorare. Agli occhi pur anche dei meno accorti mani- festissima cosa era, che la principal cagione della mia donazione era stata la determinazione di non abitar più nel paese: quindi era necessarissimo di ottenerne la permissione dal governo, il quale ad arbitrio suo si sarebbe sempre potuto opporre allo sborso della pensione in paese estero. Ma, per mia somma fortuna, il re d'allora', il quale certamente avea notizia del mio pensare (aven- done io dati non pochi cenni) egli ebbe molto più piacere di darmi l'andare che non di tenermi. Onde egli consenti subito a quella mia spontanea spogliazione; ed ambedue fummo conten- tissimi: egli di perdermi, io di ritrovarmi. Ma mi par giusto di aggiungere qui una particolarità bastan- temente strana, per consolare con essa i malevoli miei, e nello stesso tempo far ridere alle spalle mie chiunque esaminando sé «tesso si riconoscerà meno infermo d'animo, e meno bambino ch'io non mi fossi. In questa particolarità, la quale in me si tro- verà accoppiata con gli atti di forza che io andava pure facendo, si scorgerà da chi ben osserva e riflette, che talvolta l'uomo, o almeno, che io riuniva in me, per cosi dire, il gigante ed il nano. Fatto si è, che nel tempo stesso eh' io scriveva la Virginia, ed il liDro della Tirannide; nel tempo stesso ch'io scuoteva così robu- > Vittorio Amedeo III, il quale regnava dal febbraio del 1773. 186 Vittorio Alfieri stamente e scioglieva le mie originarie catene, io continuava pure di vestire l' uniforme del re di Sardegna, essendo fuori paese, e non mi trovando più da circa quattr'anni al servizio. E che diran poi i saggi, quand' io confesserò candidamente la ragione perchè lo portassi? Perchè mi persuadeva di essere in codesto assetto assai più snello e avvenente della persona. Ridi, o lettore, che tu n' hai ben donde. Ed aggiungi del tuo: Che io dunque in ciò fare, puerilmente e sconclusionatamente preferiva di forse parere agli altrui occhi più bello, all'essere stimabile ai miei. La conclusione di quel mio affare andò frattanto in lunga dal gennaio al novembre di quell'anno 78; atteso che intavolai poi e ultimai come un secondo trattato la permuta di lire cinque mila della prestazione annuale in un capitale di lire cento mila di Pie- monte da sborsarmisi dalla sorella. E questo soffrì qualche diffi- coltà più che il primo. Ma finalmente consentì anche il re che mi fosse mandata tal somma; ed io poi con altre la collocai in uno di quei tanti insidiosi vitalizi di Francia*. Non già ch'io mi fidassi molto più nel cristianissimo che nel sardo re ; ma perchè mi pareva intanto che dimezzato così il mio avere fra due diverse tirannidi, ne riuscirei alquanto meno precario, e che salverei in tal guisa, se non la borsa, almeno l' intelletto e la penna. Di questo passo della donazione, epoca per me decisiva e im- portante (e di cui ho sempre dappoi benedetto il pensiero e l'e- sito), io non ne feci parte alla donna mia, se non se dopo che l'atto principale fu consolidato e perfetto. Non volli esporre il delicato suo animo al cimento di dovermi, o biasimare di ciò, e come con- trario al mio utile, impedirmelo; ovvero di lodarlo e approvar- melo, come giovevole in un qualche aspetto al sempre più dar base e durata al nostro reciproco amore ; poiché questa sola de- terminazione mia potevami porre in grado di non la dovere ab- bandonare mai più. Quand'ella lo seppe, biasimollo con quella candida ingenuità tutta sua. Ma non potendolo più impedire, ella vi si acquetò, perdonandomi d'averglielo taciuto. E tanto più forse mi riamò, né mi stimò niente meno. Frattanto, mentre io stava scrivendo letfere a Torino, e riscri- vendo, e tornando a scrivere, perchè si conchiudessero codeste noie e stitichezze reali, legali, e parentevoli; io, risoluto di non dar addietro, qualunque fosse per essere l' esito, avea ordinato i Vitalizi divenuti insidiosi ai tempi della Rivoluzione. La vita 187 la mio Elia che avea lasciato in Torino, dì vendere tutti i mobili ed argenti. Egli in due mesi di tempo, lavorando indefessamente a ciò, mi avea messi insieme da sei e più mila zecchini, che tosto gli ordinai di farmi sborsare per mezzo di cambiali in Firenze. Non so per qual caso nascesse, che fra l'avermi egli scritto d'aver questa mia somma nelle mani, e l'eseguire poi l'incarico ch'io gli avea dato rispondendogli a posta corrente di mandar le cam- biali, corsero più di tre settimane in cui non ricevei più né let- tere di lui, né altro; né avviso di banchiere nessuno. Benché io non sia per carattere molto diffidente, tuttavia potea pur ragione- volmente entrare in qualche sospetto, vedendo in circostanze così urgenti una sì strana tardanza per parte di un uomo così solle- cito ed esatto come l'Elia. Mi entrò dunque non poca diffidenza nel cuore; e la fantasia (in me sempre ardentissima) mi fabbricò questo danno che era tra i possibili, come se veramente g^à mi fosse accaduto. Onde io credei fermamente per più di quindici giorni che i miei sei mila zecchini fossero iti all'aria insieme con l'ottima opinione ch'io mi era sempre giustamente tenuta di quel- l'Elia. Ciò posto io mi trovava allora in dure circostanze. L'af- fare con la sorella che non era sistemato ancora ; e sempre ricevendo nuove cavillazioni dal cognato, che tutte le sue private obbiezioni me le andava sempre facendo in nome e autorità del re; io gli avea finalmente risposto con ira e disprezzo: che se essi non voleano Donato, pigliassero pure Pigliato; perchè io a ogni modo non ci tornerei mai, e poco m' importava di essi, dei lor danari e del loro re, che si tenessero il tutto e fosse cosa finita. Ed io era in fatti risolutissimo all'espatriazione perpetua, a costo pur anche del mendicare. Dunque per questa parte trovandomi in dubbio d'ogni cosa, e per quella dei mobili realizzati non mi vedendo sicuro di nulla, io me la passai così fantasticando e vedendomi sempre la squallida povertà innanzi agli occhi, finché mi perven- nero le cambiali d' Elia, e vistomi possessore di quella piccola somma non dovei più temere per la sussistenza. In quei deliri di fantasia, l'arte che mi si presentava come la più propria per farmi campare, era quella del domacavalli', in cui sono o mi par d'es- sere maestro; ed è certamente una delle meno servili. Ed anche mi sembrava che questa dovesse riuscirmi la più combinabile con quella di poeta, potendosi assai più facilmente scriver tragedie nella stalla che in corte. > Cavallerizzo. 188 Vittorio Alfieri Ma già, prima di trovarmi in queste angustie più immaginate che vere, appena ebbi fatta la donazione, io avea congedato tutti i miei servi meno uno per me, ed uno per cucinarmi, che poco dopo anche licenziai. E da quel punto in poi, benché io fossi già assai parco nel vitto, contrassi l'egregia e salutare abitudine di una sobrietà non comune ; lasciato interamente il vino, il caffè, e simili, e ristrettomi ai semplicissimi cibi di riso, e lesso, ed arrosto, senza mai variare le specie per anni interi. Dei cavalli, quattro ne avea rimandati a Torino perchè si vendessero con quelli che ci avea lasciati partendone ; ed altri quattro lì regalai ciascuno a diversi signori fiorentini, i quali benché fossero sem- plicemente miei conoscenti e non già amici, avendo tuttavia assai meno orgoglio di me gli accettarono. Tutti gli abiti parimente donai al mio cameriere, ed allora poi anche sagrificai l'uniforme' ; e indossai l'abito nero per la sera, e un turchinaccio per la mat- tina, colori che non ho poi deposti mai più, e che mi vestiranno fino alla tomba. E così in ogni altro genere mi andai sempre più restrìngendo anche grettamente al semplicissimo necessario, a tal segno ch'io mi ritrovai ad un medesimo tempo e donator d'ogni cosa ed avaro. Dispostissimo in questa guisa a tutto ciò che mai mi potrebbe accadere di peggio, non mi tenendo aver altro che quei sei mila zecchini, che subito inabissai in uno dei vitalizi di Francia; ed essendo la mìa natura sempre inclinata agli estremi, la mia eco- nomia e indipendenza andò a poco a poco tant'oltre, che ogni giorno inventandomi una nuova privazione, caddi nel sordido quasi: e dico quasi; perchè pur sempre mutai la camicia ogni giorno e non trascurai la persona ; ma lo stomaco, se a lui toc- casse di scrivere la mia vita, tolto ogni quasi, direbbe ch'io m'era fatto sordidissimo. E questo fu il secondo, e crederei l' ul- timo eccesso di un sì fastidioso e sì turpe morbo, che degrada pur tanto l'animo, e l' intelletto restringe. Ma benché ogni giorno andassi sottilizzando per negarmi o diminuirmi una qualche cosa, io andava pure spendendo in libri, e non poco. Raccolsi allora quasi tutti i libri nostri dì lìngua-, ed in copia le più belle edi- zioni dei classici latini. E tutti l'un dopo l'altro, e replicatamente 1 Veramente sappiamo che dnU'SS all'SQ, « nelle più solenni occorrenze », egli indossava ancora l'uniforme sarda. Cfr. A. D'Ancona, Varietà sto- riche e letterarie, 1* serie cit., p. 181. * I nostri testi di lingua. La vita 189 li lessi, ma troppo presto e con troppa avidità, onde non mi fecero quel frutto che me ne sarebbe ridondato leggendoli pacatamente, e ingoiandomi le note. Cosa alla quale mi son poi piegato tar- dissimo, avendo sempre da giovane anteposto l'indovinare i passi difficili, o il saltarli a pie pari, all'appianarmeli colla lettura e meditazione dei commenti. Le mie composizioni frattanto nel decorso di quell'anno bor- saio ' 1778, non dirò che fossero tralasciate, ma elle si risentivano di tanti disturbi antiletterari in cui m'era ingolfato di necessità. E circa poi al punto principale per me, cioè la padronanza della lingua toscana, mi si era aggiunto anche un nuovo ostacolo, ed era, che la mia donna non sapendo allora quasi punto l' italiano, io mi era trovato costretto a ricader nel francese, parlandolo e sentendolo parlare continuamente in casa sua. Nel rimanente del giorno io cercava poi il contravveleno dei gallicismi nei nostri ottimi e noiosi prosatori trecentisti, e feci su questo proposito delle fatiche niente poetiche, ma veramente da asino. A poco a poco pure spuntai, che l'amata imparasse perfettamente l'italiano* si per leggere che per parlare; e vi riusci quanto e più ch'altra mai forestiera che vi si accingesse ; e lo parlò anzi con una assai mi- gliore pronunzia che non lo parlano le donne d'Italia non Toscane, che tutte, o sian Lombarde, o Veneziane, o Napoletane o anche Romane, lacerano quale in un modo quale nell'altro ogni orecchio che siasi avvezzo al soavissimo e vibratissimo accento toscano. Ma per quanto la mia donna non parlasse tosto altra lingua con me, tuttavia la casa sua sempre ripiena di oltramontaneria era per il mio povero toscanismo un continuo martirio; talché, oltre pa- recchie altre, io ebbi anche questa contrarietà, di essere stato presso che tre anni allora in Firenze, e d'avervi assai più dovuto ingoiare dei suoni francesi, che non dei toscani. E in quasi tutto il decorso della mia vita, finora, mi è toccata in sorte questa bar- barla di gallicheria : onde, se io pure sarò potuto riuscire a scri- vere correttamente, puramente, e con sapore di toscanità (senza però ricercarla con affettazione e indiscrezione), ne dovrò riportar doppia lode, attesi gli ostacoli: e se riuscito non ci sono, ne meriterò ampia scusa. » Anno in cui, per avarìzia, mi preoccupi!! soverchiamente del miei Inte- ressi materiali. * Veramente la contessa. d'Albany non imparò mal perfettamente VW».' liano, e si servì sempre di un francese scorrettissimo e stentato. 190 Vittorio Alfieri CAPITOLO SETTIMO Caldi studj in Firenze. Nell'aprile del 78, dopo aver verseggiata la Virginia, e quasi che tutto l'Agamennone, ebbi una breve ma forte malattia infiam- matoria, con un'angina, che costrinse il medico a dissanguarmi ; il che mi lasciò una lunga convalescenza, e fu epoca per me di un notabile indebolimento di salute in appresso. L'agitazione, i disturbi, lo studio, e la passione di cuore mi aveano fatto infer- mare ; e benché poi nel finir di quell'anno cessassero interamente i disturbi d' interesse domestico, lo studio e l'amore che sempre andarono crescendo, bastarono a non mi lasciar più godere in appresso di quella robustezza d'idiota ch'io mi era andata for- mando in quei dieci anni di dissipazione, e di viaggi quasi con- tinui. Tuttavia nel venir poi dell'estate, mi riebbi, e moltissimo lavorai. L'estate è la mia stagion favorita: e tanto più mi si confà, quanto più eccessiva riesce; massimamente pel comporre. Fin dal maggio di quell'anno avea dato principio ad un poemetto in ottava rima, su la uccisione del duca Alessandro da' Lorenzino de' Me- dici; fatto, che essendomi piaciuto molto, ma lo non trovando su- scettibile di tragedia, mi si affacciò piuttosto come poema. Lo andava lavorando a pezzi, senza averne steso abbozzo nessuno, per esercitarmi al far rime, da cui gli sciolti delle oramai già tante tragedie mi andavano deviando. Andava anche scrivendo alcune rime d'amore, sì per lodare la mia donna, che per isfogare le tante angustie in cui attese le di lei circostanze domesticlie mi conveniva passare molt'ore. E hanno cominciamento le mie rime per essa, da quel sonetto (tra gli stampati da me) che dice: Negri, vivaci, in dolce fuoco ardenti: dopo il quale tutte le rime amorose che seguono, tutte sono per essa, e ben sue, e di lei solamente, poiché mai d'altra donna per certo non canterò. E mi pare che in esse (siano con più o meno feli- cità ed eleganza concepite e verseggiate), vi dovrebbe pure per lo 1 Da parte di. — Allude al poemetto in quattro canti L'Etniria vendi' cata, stampato a Kehl nel 1788-89 colla data del MDCCC, il cui intento fondamentale, simile a quello di molte tragedie, è la esaltazione dei tirannicidio. La vita 191 più trasparire quell'immenso affetto che mi sforzava di scriverle, e ch'io ogni giorno più mi sentiva crescer per lei: e ciò massi- mamente, credo, si potrà scorgere nelle rime scritte quando poi mi trovai per gran tempo disgiunto da essa. Torno alle occupazioni del 78. Nel luglio distesi con una febbre frenetica di libertà la tragedia de^ Pazzi; quindi immediatamente il Don Garzia. Tosto dopo ideai e distribuii in capitoli i tre libri Del principe e delle lettere'^, e ne distesi i tre primi capitoli. Poi, non mi sentendo lingua abbastanza per ben esprimere i miei pen- samenti, lo differii per non averlo poi a rifonder tatto allorché ci tornerei per correggerlo. Nell'agosto di quell'anno stesso, a ^ggerimento e soddisfazione dell'amata, ideai la Aìaria Stuarda. Dal settembre in giù verseggiai l'Oreste, con cui terminai quel- l'anno per me travagliatissimo. Passavano allora i miei giorni in una quasi perfetta calma; e sarebbe stata intera, se non fossi f4»to spesso angustiato del ve- dere la mia donna angustiata da continui dispiaceri domestici cagionatile dal querulo, sragionevole, e sempre ebro attempato marito. Le sue pene eran mie: e vi ho successivamente patito dolori di morte. Io non la potevo vedere se non la sera, e tal- volta a pranzo da lei; ma sempre presente lo sposo, o al più standosi egli di continuo nella camera contigua. Non già ch'egli avesse ombra di me più che d'altri ; ma era tale il di lui sistema; ed in nove anni e più che vissero insieme quei due coniugi, mai e poi mai e poi mai non è uscito egli di casa senza di lei, né ella senz'esso: continuità, che riuscirebbe stucchevole per fino fra due coetanei amanti. Io dunque tutto l'intero giorno me ne stava in casa studiando, dopo aver cavalcato la mattina per un par d'ore un ronzino d'affitto per mera salute. La sera poi io tro- vava il sollievo della sua vista, ma amareggiato pur troppo dal vederla come dissi quasi sempre afflitta, ed oppressa. Se io non avessi avuta la tenacissima occupazione dello studio, non mi sarei potuto piegare al vederla si poco, e in tal modo. Ma anche, se io non avessi avuto quell'unico sollievo della sua dolcissima vista per contravveleno all'asprezza della mia solitudine, non avrei mai potuto resistere a uno studio così continuo, e così, direi, arrabbiato. « In questi tre libri, compiuti tra il 1785 e il 1786, l'A., scettico in ma- teria di progressi scientifici, tratta degli intenti ch'egli assegnava rleUt- tere, le quali, se < figlie di liberti e di virtù >, possono aiutare e promuo- vere il « bel vivere libero e civile ». 192 Vittorio Ai/ieri In tutto il 79 verseggiai la Congiura de' Pazzi; ideai la Ro~ smunda, l'Ottavia, e il Timoleone: stesi la Rosmunda, e Maria Stuarda; verseggiai il Don Garzia; terminai il primo canto del poema, e inoltrai non poco il secondo. In mezzo a sì calde e faticose occupazioni della mente, mi tro- vava anche soddisfatti gli affetti del cuore, tra l'amata donna presente, due amici lontani, con cui mi andava sfogando per let- tere. Era l'uno di questi, il Gori di Siena, il quale anche due o tre volte era venuto in Firenze a vedermi: l'altro era l'ottimo abate di Caluso, il quale verso la metà di quell'anno 79 venne poi in Firenze, chiamatovi in parte dall' intenzione di godersi per un anno quella beatissima lingua toscana, ed in parte (me ne lusingo) chiamatovi dal piacere di essere con chi gli voleva tanto bene quanto io ; ed anche per darsi ai suoi studi più quetamente e liberamente che non gli veniva fatto in Torino, dove fra i suoi tanti e fratelli, e nipoti, e cugini, e indiscreti d'altro genere, la di lui mansueta e condiscendente natura lo costringeva ad essere assai più d'altri che suo. Un anno presso che intero egli stette dunque in Firenze ; ci vedevamo ogni giorno, e si passava insieme di molte ore del dopo pranzo. Ed io nella di lui piacevole ed erudita conversazione imparai senza quasi avvedermene più cose assai che non avrei fatto in molti anni sudando su molti libri, E tra l'altre, quella di cui gli avrò eterna gratitudine, si è di avermi egli insegnato a gustare e sentire e discernere la bella ed immensa varietà dei versi di Virgilio, da me fin allora sol- tanto Ietti ed intesi ; il che per la lettura di un poeta di tal fatta, e per l'utile che ne dee ridondare a chi legge, viene a dir quanto nulla. Ho tentato poi (non so con quanta felicità) di trasportare nel mio verso sciolto di dialogo quella incessante varietà d'ar- monia, per cui raramente due versi somigliantisi si accoppino; quelle diverse sedi d'interrompimento\ e quelle trasposizioni (per quanto l'indole della lingua nostra il concede), dalle quali il ver- seggiar di Virgilio riesce sì maraviglioso, e si diverso da Lucano, da Ovidio, e da tutti. Differenze difficili ad esprimersi con parole, e poco concepibili da chi dell'arte non è. Ed era pur necessario ch'io mi andassi aiutando qua e là per far tesoro di forme e di modi, per cui il meccanismo del mio verso tragico assumesse una faccia sua propria, e si venisse a rialzare da per sé, per forza di struttura; mentre non si può in tal genere di composizione aiu- > Cesura. La vita I9i tare il verso, né gonfiarlo con i lunghi periodi, né con le molte immagini, né con le troppe trasposizioni, né con la soverchia pompa o stranezza dei vocaboli, né con ricercati epitteti : ma la sola semplice e dignitosa sua giacitura di parole infonde in esso la essenza del verso, senza punto fargli perdere la possibile natu- ralezza del dialogo. Ma tutto questo, ch'io forse qui mal esprimo, e ch'io avea fin d'allora, e ogni dì più caldamente, scolpito nella mente mia, non lo acquistai nella penna se non se molti anni dopo, se pur mai lo acquistai: e forse fu quando poi ristampai le tragedie in Parigi. Che se il leggere, studiare, gtistare, e di- scernere, e sviscerare le bellezze ed i modi del Dante e Petrarca mi poterono infonder forse la capacità di rimare sufficientemente e con qualche sapore; l'arte del verso sciolto tragico (ove ch'io mi trovassi poi d'averla o avuta o accennata) non la ripeterò da altri che da Virgilio, dal Cesarotti, e da me medesimo. Ma intanto, prima che io pervenissi a dilucidare in me l'essenza di questo stile da crearsi, mi toccò in sorte di errare assai lungamente bran- colando, e di cadere anche spesso nello stentato ed oscuro, per voler troppo sfuggire il fiacco ed il triviale ; del che ho ampiamente par- lato altrove*, quando mi occorse di dare ragione del mio scrivere. Nell'anno susseguente, 1780, verseggiai la Maria Stuarda; stesi VOtfavia e il Timoleone; di cui, questa era frutto della lettura di Plutarco, ch'io avea anche ripigliato; quella, era figlia mera - di Tacito, eh' io leggeva e rileggeva con trasporto. Riverseggiai inoltre tutto intero il Filippo, per la terza volta, sempre sceman- dolo di parecchi versi ; ma egli era pur sempre quello che si risen- tiva il più della sua origine bastarda, pieno di tante forme stra- niere ed impure. Verseggiai la Rosmunda, e gran parte AtW Ottavia, ancorché verso il finir di quell'anno la dovessi poi interrompere, attesi i fieri disturbi di cuore che mi sopravvennero. CAPITOLO OTTAVO Accidente, per cui di nuovo rivedo Napoli e Roma, dove mi fisso. La donna mia (come più volte accennai) vivevasi angustiatis- •^ima; e tanto poi crebbero quei dispiaceri domestici, e le con- ;iue vessazioni del marito si terminarono finalmente in una si > Nella Risposta al Calssbigi. • Vera e propria, era cioè ispirata ciclusivamonfe da Taciio. 13. - Oastict ItaUant. N. 2. ÌH \^ittorio Alfieri violenta scena baccanale nella notte di Sant'Andrea, ch'ella per non soccombere sotto sì orribili trattamenti' fu alla per fine costretta di cercare un modo per sottrarsi a sì fatta tirannia, e salvare la salute e la vita. Ed ecco allora, che io di bel nuovo dovei (contro la natura mia) raggirare- presso i potenti di quel governo, per indurli a favorire la liberazione di quell'innocente, vittima da un giogo sì barbaro e indegno. Io, assai ben conscio a me stesso che in codesto fatto operai più pel bene d'altri che non per il mio; conscio, ch'io mai non diedi consiglio estremo alla mia donna, se non quando i mali suoi divennero estremi davvero, perchè questa è sempre stata la massima ch'io ho voluta praticare negli affari altrui, e non mai ne' miei proprj ; e conscio finalmente ch'era cosa oramai del tutto impossibile di proce- dere altrimenti, non mi abbassai allora né mi abbasserò mai a purgarmi delle stolide e maligne imputazioni che mi si fecero in codesta occorrenza. Mi basti il dire, che io salvai la donna mia dalla tirannide d'un irragionevole e sempre ubriaco padrone, senza che pure vi fosse in nessunissimo modo compromessa la di lei onestà, né leso nella minima parte il decoro di tutti. Il che certamente a chiunque ha saputo o visto dappresso le circostanze particolari «della prigionia durissima in cui ella di continuo ad oncia ad oncia moriva, non parrà essere stata cosa facile a ben condursi, e riuscirla, come pure riuscì, a buon esito. Da prima dunque essa entrò in un monastero in Firenze, con- dottavi dallo stesso marito come per visitar quel luogo, e dovu- tavela poi lasciare con somma di lui sorpresa, per ordine e dispo- sizioni date da chi allora comandava in Firenze^. Statavi alcuni > Il 30 novembre 1780, giorno di S. Andrea, il Conte convinto della cor- rispondenza amorosa della moglie con l'A., le fece una scenata, e nella notte pare tentasse strangolarla. » Prestare i miei offici. * € La Stolberg riusci ad uscir dalle mani del marito con una ingegnosa astuzia. Un bel giorno, sui primi di dicembre una certa signora Orlan- din! accompagnata da un irlandese, suo damo, si presenta ai palazzo Gua- dagni, dimora del conte d'Albany, proponendo alla Contessa di recarsi a vedere certi stupendi lavori d'ago nel monastero delle; Bianchette 'in via del Mandorlo. La proposta è accettata. Il Conte però accompagna la moglie, e la brigata s'avvia: le donne innanzi; il Conte e l'irlandese dietro. Ar- rivano al monastero ; le donne salgono speditamente la gradinata che mena alla porta; il Conte invece deve salire più lentamente; e quando giunge alla porta, le signore sono già entrate, e la porta gli è chiusa in faccia. Non valsero strepiti né proteste; la moglie non potè riaverla più, perchè il governo granducale stava contro di lui. » [J5.J. La vita 195 giorni, venne poi dal di lei cognato chiamata in Roma, dove egli abitava, e quivi pure si ritirò in altro monastero '. E le ragioni di sì fatta rottura tra lei e il marito furono tante e sì manifeste, che la separazione fu universalmente approvata. Partita essa dunque per Roma verso il finir di decembre, io me ne rimasi come orbo derelitto in Firenze ; ed allora fui vera- mente convinto nell'intimo della mente e del cuore, ch'io senza di lei non rimanea neppur mezzo, trovandomi assolutamente quasi incapace d'ogni applicazione, e d'ogni bell'opera, né mi curando più punto né della tanto ardentemente bramata gloria, né di me stesso. In codesto affare io avea dunque sì caldamente lavorato per l'util suo, e pel danno mio ; poiché ninna infelicità mi potea mai toccare maggiore, che quella di non punto vederla. Io non poteva decentemente seguitarla sì tosto in Roma. Per altra parte non mi era possibile più di campare in Firenze. Vi stetti tuttavia tutto il gennaio dell'81, e mi parvero quelle settimane, degli anni, né potei poi proseguire nessun lavoro, né lettura, né altro. Presi di^nqne il compenso di andarmene a Napoli ; e scelsi, come ben vede ciascuno, espressamente Napoli, perché ci si va passando di Roma. Già da un anno e più mi si era di bel nuovo diradata la sozza caligine della seconda accennata avarizia. AveVa collocato in due volte più di centosessanta mila franchi nei vitalizi di Francia; il che mi facea tenere sicura oramai la sussistenza indipendente- mente dal Piemonte. Onde io era tornato ad una giusta spesa; ed avea ricomperato cavalli, ma soli quattro, che ad un poeta n'avanzano. Il caro abate di Caluso era anche tornato a Torino da più di sei mesi ; quindi io senza nessuno sfogo d'amicizia, e privo della mia donna, non mi sentendo più esistere, il bel primo di febbraio mi avviai bel bello a cavallo verso Siena, per abbrac- ciarvi l'amico Qori, e sgombrarmi un po' il cuore con esso. Indi proseguii verso Roma, la di cui approssimazione mi facea pal- pitare; tanto è diverso l'occhio dell'amante da tutti gli altri. Quella regione vuota insalubre, che tre anni innanzi mi parea quel ch'era, in questo venire mi si presentava come il più delizioso soggiorno del mondo. Oiunsi; la vidi, (oh Dio, mi si spacca ancora il cuore pensan- dovi) la vidi prigioniera dietro una grata, meno vessata però che » D«l cognato, ctrdinale Enrico Benedetto Stuart, duca di York, venne fatta ospitare alle Orboline. 196 Vittorio Alfieri non l'avea vista in Firenze, ma per altra cagione non la rividi meno infelice. Eramo in somma disgiunti; e chi potea sapere per quanto il saremmo? Ma pure, io mi appagava piangendo, ch'ella si potesse almeno a poco a poco ricuperare in salute; e pensando, eh' ella potrebbe pur respirare un' aria più libera, dor- mire tranquilli i suoi sonni, non sempre tremare di quella indi- visibile ombra dispettosa dell' ebro marito, ed esistere in somma; tosto mi pareano e men crudeli e men lunghi gli orribili giorni di lontananza, a cui mi era pur forza di assoggettarmi. Pochissimi giorni mi trattenni in Roma; ed in quelli, amore mi fece praticare infinite pieghevolezze e destrezze, ch'io non avrei poste in opera né per ottenere l'imperio dell'universo: pieghevolezze, ch'io ferocemente ricusai praticare dappoi, quando presentandomi al limitare del tempio della Gloria, ancorché molto dubbio se vi potrei ottenere l'accesso non ne volli pur mai lusin- gare né incensare coloro che n'erano o si teneano, custodi di esso. Mi piegai allora al far visite, al corteggiare per anche il di lei cognato, dal quale soltanto dipendeva oramai la di lei futura total libertà, di cui ci andavamo entrambi lusingando. Io non mi estenderò gran fatto sul proposito di questi due personaggi fra- telli, perchè furono in quel tempo notissimi a ciascheduno: e sebbene poi verisimilmente l'obblio gli avrà sepolti del tutto col tempo, a me non si aspetta di trarneli, laudare non li potendo, né li volendo biasimare. Ma intanto l'aver io umiliato il mio orgoglio a costoro, può riuscire bastante prova dell'immenso mio amore per essa. Partii per Napoli, come promesso l'avea, e come, delicatamente operando, il dovea. Questa separazione seconda mi riuscì ancora più dolorosa della prima in Firenze. E già in quella prima lon- tananza di circa quaranta giorni, io avea provato un saggio fu- nesto delle amarezze che mi aspettavano in questa seconda, più lunga ed incerta. In Napoli la vista di quei bellissimi luoghi non essendo nuova per me, ed avendo io una si profonda piaga nel cuore, non mi diede quel sollievo eh' io me ne riprometteva. I libri erano quasi che nulla per me; i versi e le tragedie andavan male, o si sta- vano; ed in somma io non campava che di posta spedita, e di posta ricevuta, a nuli' altro potendo rivolger l'animo se non se alla mia donna lontana. E me n'andava sempre solitario caval- cando per quelle amene spiagge di Posilipo e Baja, o verso Ca- La vita 197 pova e Caserta, o altrove, per lo più piangendo; e si fattamente annichilato, che col cuore traboccante d'affetti non mi veniva con tutto ciò neppur voglia di tentare di sfogarlo con rime. Passai in tal guisa il rimanente di febbraio, sin al mezzo maggio. Tuttavia in certi momenti meno gravosi facendomi forza, qualche poco andai lavorando. Terminai di verseggiare l'Ot- tavia', e riverseggiai piìi che mezzo il Polinice, che mi pare di una pasta di verso alquanto migliorata. Avendo finito l'anno in- nanzi il secondo canto del poemetto, mi volli accingere al terzo; ma non potei procedere oltre la prima stanza, essendo quello un t«ma troppo lieto ^ per quel mio misero stato d'allora. Sicché lo scriver lettere, e il rileggere cento volte le lettere ch'io ricevea di lei, furono quasi esclusivamente le mie occupazioni di quei quattro mesi. Gli affari della mia donna si andavano frattanto rischiarando alquanto, e verso il fin di marzo ella avea ottenuto licenza dal Papa di uscire di monastero, e di starsene tacitamente come divisa dal marito in un appartamento che il cognato (abi- tante sempre fuori di Roma)' le rilasciava nel di lui palazzo* in città. Io avrei voluto tornar a Roma, e sentiva pure benissimo che per allora non si doveva. I contrasti che prova un cuor tenero ed onorato fra l'amore e il dovere, sono la più terribile e mortai passione eh' uomo possa mai sopportare. Io dunque indugiai tutto l'aprile, e tutto il maggio m'era anche proposto di strascinarlo così, ma verso il dodici d'esso mi ritrovai, quasi senza saperlo, in Roma. Appena giuntovi, addottrinato ed inspirato dalla ne- cessità e da amore, diedi proseguimento e compimento al già intrapreso corso di pieghevolezze e astuziole cortigianesche per pure abitare la stessa città e vedervi l'adorata donna. Onde dopo tante smanie, fatiche, e sforzi per farmi libero, mi trovai trasfor- nlato ad un tratto in un uomo visitante, riverenziante, e pìag- giante in Roma, come un candidato che avrebbe postulato inol- trarsi nella prelatura. Tutto feci, a ogni cosa mi piegai, e rimasi in Roma, tollerato da quei barbassori, e aiutato anco da quei pretacchiuoli che aveano o si pigliavano una qualche ingerenza negli affari della donna mia. Ma buon per essa, che non dipen- deva dal cognato, e dalla di lui trista sequela, se non se nelle ' Quale l'uccisione di un tiranno, per chi, come l'A., odiava la tirannia. * Nella sua diocesi d'Albano. » Della Caifclleria. 198 Vittorio Alfieri cose di mera convenienza, e nulla poi nelle di lei sostanze le quali essa aveva in copia per altra parte ^ ed assai onorevoli, e per allora sicurissime. CAPITOLO NONO Studj ripresi ardentemente in Roma. Compimento delle quattordici prime Tragedie. Tosto ch'io un tal poco respirai da codesti esercizi di semi- servitù, contento oltre dire di un'onesta libertà per cui mi era dato di visitare ogni sera l'amata, mi restituii tutto intero agli studi. Ripreso dunque il Polinice, terminai di riverseggiarlo; e senza più ripigliar fiato, proseguii da capo l' Antigone, poi la Virginia, e successivamente V Agamennone, V Oreste, i Pazzi, il Garzia ; poi il Timoleone che non era stato ancor posto in versi ; ed in ultimo, per la quarta volta il renitente Filippo. E mi an- dava talvolta sollevando da quella troppa continuità di far versi sciolti, proseguendo il terzo canto del Poemetto ; e nel decembre di quell'anno stesso composi d'un fiato le quattro prime Odi dell'America libera*. A queste m'indusse la lettura di alcune bel- lissime e nobili Odi del Filicaja', che altamente mi piacquero. Ed io stesi le mie quattro in sette soli giorni, e la terza intera in un giorno solo; ed esse cou picciole mutazioni sono poi rimaste quali furono concepite. Tanta è la differenza (almeno per la mia penna) che passa tra il verseggiare in rima liricamente, o il far versi sciolti di dialogo. Nel principio dell'anno 82, vedendomi poi tanto inoltrate le tragedie, entrai in speranza, che potrei dar loro compimento in quell'anno. Fin dalla prima io mi ero proposto di non eccedere il numero di dodici; e me le trovava allora tutte concepite, e distese, e verseggiate; e riverseggiate le piìi. Senza discontinuare dunque proseguiva a riverseggiare, e limare quelle che erano ri- maste ; sempre progredendole^ successivamente nell'ordine stesso con cui elle erano state concepite e distese. 1 Cioè la pensione costituita dal governo francese a lei ed al conte d'Albany, all'atto del matrimonio. * La quinta ed ultima di queste odi, nelle quali il poeta inneggia alle idee di libertà diffuse dalla Francia, fu composta nel 1783. » Del fiorentine». Vincenzo da Filicnia (1642-1707) si ricordano ancora le canzoni i)cr l'assedio e la liberazione di Vienna (16S3) ed i sonetti all'Italia. < Portandole a maggior compimento. La vita 199 In quel frattempo verso il febbraio dell' 82, tornatami un gfiomo fra le mani la Merope del Maffei per pur vedere s'io c'impa- rava qualche cosa quanto allo stile, leggendone qua e là degli squarci mi sentii destare improvvisamente un certo bollore d' in- degnazione e di collera nel vedere la nostra Italia in tanta mi- seria e cecità teatrale che facessero credere o parere quella come l'ottima e sola delle tragedie, non che delle fatte fin allora (che questo lo assento anch'io, ma di quante se ne potrebber far poi in Italia. E immediatamente mi si mostrò quasi un lampo altra tragedia dello stesso nome e fatto, assai più semplice e calda e incalzante di quella. Tale mi si presentò nel farsi ella da me concepire, direi per forza. S'ella sia poi veramente riuscita tale, lo decideranno quelli che verran dopo noi. Se mai con qualche fondamento chi schicchera versi ha potuto dire. Est Deus in riobis^: lo posso certo dir io, nell'atto che io ideai, distesi, e ver- seggiai la mia Merope, che non mi diede mai tregua né pace finch'ella non ottenesse da me l'una dopo l'altra queste tre creazioni diverse, contro il mio solito di tutte l'altre, che con lunghi intervalli riceveano sempre queste diverse mani d'opera. E lo stesso dovrò dire pel vero, risguardo al Saulle. Fin dal marzo di quell'anno mi era dato assai alla lettura della- Bibbia, ma non però regolatamente con ordine. Bastò nondimeno perchè io mi infiammassi del molto poetico che si può trarre da codesta lettura, e che non potessi più stare a segno, s'io con una qualche composizione biblica non dava sfogo a quell'invasamento che n'avea ricevuto. Ideai dunque, e distesi, e tosto poi verseggiai anche il Saulle, che fu la decimaquarta, e secondo il mio pro- prosito d'allora l'ultima dovea essere di tutte le mie tragedie. E in quell'anno mi bolliva talmente nella fantasia la facoltà inven- trice, che se non l'avessi frenata con questo proponimento, al- meno altre due tragedie bibliche mi si affacciavano prepotente- mente, e mi avrebbero strascinato: ma stetti fermo al proposito, e parendomi essere le quattordici anzi troppo che poche, li feci punto. Ed anzi (nemico io sempre del troppo, ancorché ad ogni altro estremo la mia natura mi soglia trasportare) nello stendere la Merope e il Saulle mi facea tanto ribrezzo l'eccedere il numero che avea fissato, ch'io promisi a me stesso di non le verseggiare. ' Parole di Ovidio, Fast.,\\, 5, che affermano d'origine divina t'ispi* razione poetica. 200 Vittorio Alfieri se non quando avrei assolutamente finite e strafinite tutte l'altre; e se non riceveva da esse in intero l'effetto stessissimo, ed anche maggiore, che avea provato nello stenderle, promisi anche a me di non proseguirle altrimenti. Ma che valsero e freni, e promesse, e propositi? Non potei mai far altro, né ritornar su le prime, innanzi che quelle due ultime avessero ricevuto il lor compi- mento. Così son nate queste drfe ; spontanee più che tutte l' altre ; dividerò con esse la gloria, s'esse l'avranno acquistata e meri- tata : lascerò ad esse la più gran parte del biasimo, se lo in- contreranno ; poiché e nascere e frammischiarsi coli' altre a viva forza han voluto. Né alcuna mi costò meno fatica, e men tempo di queste Sue. Intanto verso il fin del settembre di queir anno stesso 82, tulle quattordici furono dettate, ricopiate e corrette: aggiungerei, e limate: ma in capo a pochi mesi m'avvidi e convinsi, che da ciò eli' erano ancor molto lontane. Ma per allora il credei, e mi tenni essere il primo uomo del mondo; vedendomi avere in dieci mesi verseggiate sette tragedie; inventatene, stese e ver- seggiate due nuove; e finalmente, dettatene quattordici, correg- gendole. Quel mese di ottobre, per me memorabile, fu dunque dopo sì calde fatiche un riposo non men delizioso che neces- sario; ed alcuni giorni impiegai in un viaggetto a cavallo sino a Terni per veder quella famosa cascata. Pieno turgido di vana- gloria, non lo diceva però ad altri mai che a me stesso, spiat- tellatamente ; e con un qualche velame di moderazione lo accen- nava anche alla dolce metà di me stesso; la quale, parendo an- ch'essa (forse per l'affetto che mi portava) propensa a potermi tenere per un grand' uomo; essa più ch'altra cosa sempre più m'impegnava a tutto tentare per divenirlo. Onde dopo un par di mesi di ebbrezza di giovenile amor proprio, da me stesso mi ravvidi nel ripigliare ad esame le mie quattordici tragedie, quanto ancora dì spazio mi rimanesse a percorrere prima di giungere alla sospirata meta. Tuttavia, trovandomi in età di non ancora trentaquattr'anni, e nell'aringo letterario trovandomi giovine di soli otto anni di studio, sperai più fortemente di prima, che ac- quisterei pure una volta la palma: e di sì fatta speranza non negherò che me n' andasse tralucendo un qualche raggio sul volto, ancorché l'ascondessi in parole. In diverse occasioni io ero andato leggendo a poco a poco tutte codeste tragedie in varie società; sempre miste di uomini La vita 201 e donne, di letterati e d' idioti, di gente accessibile ai diversi affetti e di tangheri. Nel leggere io le mie produzioni, avea ricercato (parlando pel vero) non men che la lode il vantaggio. Io cono- sceva abbastanza e gli uomini ed il bel mondo, per non mi fidare né credere stupidamente in quelle lodi del labro, che non si negano quasi mai ad un autore leggente, che non chiede nulla, e si sfiata in un ceto di persone ben educate e cortesi: onde a sì fatte lodi io dava il loro giusto valore, e non più. Ma molto badava, ed apprezzava le lodi ed il biasimo, ch'io per contrap- posto al labro le appellerei del sedere, se non fosse sconcia espressione'; cotanto ella mi par vera e calzante. E mi spiego. Ogniqualvolta si troveranno riuniti dodici o quindici individui, misti come dissi, lo spirito collettivo che si verrà a formare in questa varia adunanza, si accosterà e somiglierà assai al totale di una pubblica udienza teatrale. E ancorché questi pochi non vi assistano pagando, e la civiltà voglia ch'essi vi stiano in più composto contegno; pure, la noja ed il gelo di chi sta ascol- tando non si possono mai nascondere, uè (molto meno) scam- biarsi con una vera attenzione, ed un caldo interesse, e viva curio- sità di vedere a qual fine sia per riuscire l'azione. Non potendo dunque l'ascoltatore né comandare al proprio suo viso, né in- chiodarsi direi in su la sedia il sedere; queste due indipendenti parti dell'uomo faranno la giustissima spia al leggente autore, degli affetti o non affetti de' suoi ascoltanti. E questo era (quasi esclusivamente) quello che io sempre osservava leggendo. E m'era sembralo sempre (se io pure non travedeva) di avere sul totale di una intera tragedia ottenuto più che i due terzi del tempo una immobilità e tenacità d'attenzione, ed una calda ansietà di schiarire lo scioglimento; il che mi provava bastantemente che egli rimaneva, anche nei più noti soggetti di tragedia, tuttavia pendente ed incerto sino all'ultimo. Ma confesserò parimente, che di molte lunghezze, o freddezze, che vi poteano essere qua e là, oltre che io medesimo mi era spesso tediato nel rileggerle ad altri, ne ricevei anche il sincerissimo tacito biasimo, da quei benedetti sbadigli, e involontarie tossi, e irrequieti sederi, che me ne davano, senza avvedersene, certezza ad un tempo ed av- viso. E neppur negherò, che anche degli ottimi consigli, e non » Arguta espressione che ben s'addice a quegli applausi convenzionati, di gente che si dimena sulle sedie mentre ascolta. 202 Vittorio Aljieri pochi, mi siano stati suggeriti dopo quelle diverse letture, da uomini letterati, da uomini di mondo, e spezialmente circa gli affetti, da varie donne. I letterati battevano su l'elocuzione e le regole dell'arte; gli uomini di mondo, su l'invenzione, la con- dotta e i caratteri; e perfino i giovevolissimi tàngheri, col loro più o meno russare e scontorcersi; tutti in somma, quanto a me pare, mi riuscirono di molto vantaggio. Onde io, tutti ascol- tando, di tutto •.♦^cordandomi, nulla trascurando, e non disprez- zando individuo nessuno (ancorché pochissimi ne stimassi), ne trassi poi forse e per me stesso e per l'arte quel meglio che con- veniva. Aggiungerò a tutte queste confessioni per ultima, che io benissimo mi avvedeva, che queir andar leggendo tragedie in semi-pubblico, un forestiere fra gente non sempre amica, mi po- teva e doveva anzi esporre a esser messo in ridicolo. Non me ne pento però di aver così fatto, se ciò poi ridondò in beneficio mio e dell'arte: il che se non fu, il ridicolo delle letture an- derà poi con quello tanto maggiore, dell'averle recitate, e stampate. CAPITOLO DECIMO Recita dell'Antigone in Roma. Stampa delle prime quattro tragedie. Separazione dolorosissima. Viaggio per la Lombardia. Io dunque me ne stava così in un semiriposo covando la mia tragica fama, ed irresoluto tuttavia se stamperei allora, o se in- dugierei dell'altro. Ed ecco, che mi si presentava spontanea un'occasione di mezzo tra lo stampare e il tacermi; ed era, di farmi recitare da un'eletta compagnia di dilettanti signori'. Era questa società teatrale già avviata da qualche tempo a reci- tare in un teatro privato esistente nel palazzo dell' ambasciatore di Spagna, allora il duca Grimaldi. Si erano fin allora recitate delle commedie e tragedie, tutte traduzioni, e non buone, dal francese ; e tra queste assistei ad una rappresentazione del Conte (V Essex di Tommaso Corneille-, messa in verso italiano non so da chi, e recitata la parte di Elisabetta dalla duchessa di Zaga- rolo, piuttosto male. Con tutto ciò, vedendo io questa signora essere assai bella e dignitosa di personale, ed intendere benis- > Nobili dilettanti. » Fratello del maggior tragico, Pietro (1625-1709). La vita 203 Simo quel che diceva, argomentai che con un po' di buona scuola si sarebbe potuta assaissimo migliorare. E così d'una in altra idea fantasticando, mi entrò in capo di voler provare con quegli attori una delle troppe mie. Voleva convincermi da me stesso, se potrebbe riuscire quella maniera che io avea preferita a tutt'aJtre; la nuda semplicità dell'azione; i pochissimi perso- naggi ; ed il verso rotto per lo più su diverse sedi, ed impossi- bile quasi a cantilenarsi. A quest'effetto prescelsi V Antigone, ri- putandola io l'una delle meno calde tra le mie, e divisando fra me e me, che se questa venisse a riuscire, tanto più il farebbero l'altre in cui si sviluppan affetti tanto più vari e feroci. La pro- posta di provar qMtsV Antigone fu accettata con piacere dalla nobile compagnia-, e fra quei loro attori non si trovando allora alcun altro che si sentisse capace di recitare in tragedia una parte capitale oltre il duca di Ceri, fratello della predetta du- chessa di Zagarolo, mi trovai costretto di assumermi io la parte di Creonte, dando al duca di Ceri quella di Emone; e alla di lui consorte, quella di Argia: la parte principalissima dell'Anti- gone spettando di diritto alla maestosa duchessa di Zagarolo. Così distribuite le quattro parti, si andò in scena; né altro ag- giungerò circa all'esito di quelle rappresentazioni, avendo avuto occasione di parlarne assai lungamente in altri miei scritti ^ InsuperLito non poco del prospero successo della recita, verso il principio del seguente anno 1783 mi indussi a tentare per la prima volta la terribile prova dello stampare. E per quanto già mi paresse scabrosissimo questo passo, ben altrimenti poi lo co- nobbi esser tale, quando imparai per esperienza cosa si fossero le letterarie inimicizie e raggiri, e gli asti librarii, e le decisioni giornalistiche*, e le chiacchiere gazzettarie, e tutto in somma il tristo corredo che non mai si scompagna da chi va sotto i torchi: e tutte queste oose mi erano fin allora state interamente ignote; ed a segno, eh' io neppur sapeva che si facessero giornali lette- rari, con estratti e giudizi critici delle nuove opere, si era rozzo, e novizio, e. veramente purissimo di coscienza nell'arte scrivana. Decisa dunque la stampa, e visto che in Koma le stitichezze della revisione' eran troppe, scrissi all'amico in Siena*, di volersi » Nel parere %ìx\V Antigone. Cfr. D. Silvaoni, La Corte e la Società romana cit., p. 395 sgg. * La critica giornalistica dalla quale l'A. si difese con vari epigrammi. * La severità della censura ecclesiastica. * Francesco Oorl. 204 Vittorio Alfieri egli addossar quella briga. Al che ardentissimamente egli in capite'^, con altri miei conoscenti ed amici, si prestò di vegliarvi da sé, e fare con diligenza e sollecitudine progredire la stampa. Non volli avventurare a bella prima che sole quattro tragedie; e di quelle mandai all' amico un pulitissimo manoscritto quanto al carattere e correzione ; ma quanto poi alla lindura, chiarezza, ed eleganza dello stile, mi riuscì pur troppo difettoso. Innocen- temente allora io mi credeva, che nel dare un manoscritto allo stampatore fosse terminata ogni fatica dell'autore. Imparai poi dopo a mie spese, che allora quasi si riprincipia. In quei due e più mesi che durava la stampa di codeste quattro tragedie, io me ne stava molto a disagio in Roma in una con- tinua palpitazione e quasi febbre dell'animo, e più volte, se non fosse stata la vergogna, mi sarei disdetto, ed avrei ripreso il mio manoscritto. Ad una per volta mi pervennero finalmente tutte quattro in Roma, correttissimamente stampate, grazie all' a- mico; e sudicissimamente stampate, come ciascun le ha viste, grazie al tipografo; e barbaramente verseggiate (come io seppi poi), grazie all'autore. La ragazzata di andare attorno attorno per le varie case di Roma, regalando ben rilegate quelle mie prime fatiche, a fine di accattar voti-, mi tenne più giorni occu- pato, non senza parere risibile agli occhi miei stessi, non che agli altri. Le presentai, tra gli altri, al papa allora sedente Pio Sesto, a cui già mi era fatto introdurre fin dall'anno prima, allorché mi posi a dimora in Roma. E qui, con mia somma con fusione, dirò di qual macchia io contaminassi me stesso in quella udienza beatissima*. Io non molto stimava il papa come papa; e nulla il Braschi come uomo letterato né benemerito delle lettere, che non lo era punto. Eppure, queir io stesso, previa una osse- quiosa presentazione del mio bel volume, che egli cortesemente accettava, apriva, e riponeva sul suo tavolino, molto lodandomi, e non acconsentendo, ch'io procedessi al bacio del piede, egli medesimo anzi rialzandomi in piedi da genuflesso ch'io m'era; nella quale umil positura Sua Santità si compiacque di palparmi come con vezzo paterno la guancia: quell'io stesso, che mi te- neva pure in corpo il mio sonetto su Roma, rispondendo allora 1 Alla testa. • Favore. » Concessagli dal beatissimo Padre, il pontefice. La vita 205 con blandizia e cortigianerìa alle lodi che il pontefice mi dava su la composizione e recita dell' Antigone, di cui egli avea udito, disse, maraviglie; io, colto il momento in cui egli mi domandava se altre tragedie farei, molto encomiando un'arte sì ingegnosa e sì nobile ; gli risposi che molte altre eran fatte, e tra quelle un Saul, il quale come soggetto sacro avrei, se egli non lo sdegnava, intitolato a Sua Santità. 11 papa se ne scusò, dicendomi ch'egli non poteva accettar dedica di cose teatrali quali che elle si fos- sero; ne io altra cosa replicai su di ciò. Ma qui mi convien con- fessare, eh' io provai due ben distinte, ed ambe meritate, morti- ficazioni: l'una del rifiuto ch'io m'era andato accattare sponta- neamente ; r altra di essermi pur visto costretto in quel punto a stimare me medesimo di gran lunga minore del papa, poiché io avea pur avuto la viltà, o debolezza, o doppiezza (che una di queste tre fu per certo, se non tutte tre, la motrice del mio ope- rare in quel punto) di voler tributare come segno di ossequio e di stima una mia opera ad un individuo ch'io teneva per assai minore di me in linea di vero merito. Ma mi conviene altresì (non per mia giustificazione, ma per semplice schiarimento di tale o apparente o verace contradizione tra il mio pensare, sen- tire e operare) candidamente espor la sola e verissima cagione, che m'avea indotto a prostituire così il coturno alla tiara. La cagione fu dunque, che io sentendo già da qualche tempo bollir dei romori preteschi che uscivano di casa il cognato' dell'amata mia donna, per cui mi era nota la scontentezza di esso e di tutta la di lui corte circa alla mia troppa frequenza in casa di essa; e questo scontentamento andando sempre crescendo; io cercai coll'adulare il sovrano di Roma, di crearmi in lui un appoggio contro alle persecuzioni ch'io già parea presentire nel cuore, e che poi in fatti circa un mese dopo mi si scatenarono contro. E credo che quella stessa recita dellM/i/i^n/, col far troppo par- lare di me, mi suscitasse e moltiplicasse i nemici. Io fui dunque allora e dissimulato, e vile, per forza d'amore; e ciascuno in me derida se il può, ma riconosca ad un tempo, sé stesso. Ho voluto di questa particolarità, ch'io poteva lasciar nelle tenebre in cui si stava sepolta, fare il mio e l'altrui prò, disvelandola. Non l'avea mai raccontata a chicchessia in voce, vergognandomene non poco. Alla sola mia donna la raccontai qualche tempo dopo. L'ho > Dalla casa del cognato : modo di dire fiorentino. 206 Vittorio Alfieri scritta anche in parte per consolazione dei tanti altri autori pre- senti e futuri, i quali per una qualche loro fatai circostanza si trovano, e si troveranno pur troppo sempre i più, vergognosa- mente sforzati a disonorar le loro opere e sé stessi con dediche bugiarde ; ed affinchè i malevoli miei possan dire con verità e sapore, che se io non mi sono 'avvilito con niuna di sì fatte si- mulazioni non fu che un semplice effetto della sorte, la quale non mi costrinse ad esser vile o parerlo. Nell'aprile^ di quell'anno 1783 infermò gravemente in Firenze il consorte della mia donna. Il di lui fratello partì a precipizio, per ritrovarlo vivo. Ma il male allentò con pari rapidità, ed egli lo ritrovò riavutosi, ed affatto fuor di pericolo. Nella convale- scenza, trattenendosi il di lui fratello circa quindici giorni in Firenze, si trattò fra i preti venuti con esso di Roma, ed i preti che aveano assistito il malato in Firenze, che bisognava assolu- tamente per parte del marito persuadere e convincere il cognato, eh' egli non poteva né dovea più a lungo soffrire in Roma nella propria casa la condotta della di lui cognata. E qui, non io cer- tamente farò l'apologia della vita usuale di Roma e d'Italia tutta, quale si suole vedere di presso che tutte le donne maritate. Dirò bensì, che la condotta di quella signora in Roma a riguardo mio era piuttosto molto al di qua, che non al di là degli usi i più tollerati in quella città. Aggiungerò, che i torti, e le feroci e pes- sime maniere del marito con essa, erano cose verissime, ed a tutti notissime. Ma terminerò con tutto ciò, per amor del vero e del retto, col dire, che il marito, e il cognato, e i lor rispettivi preti aveano tutte le ragioni di non approvare quella mia troppa frequenza, ancorché non eccedesse i limiti dell'onesto. Mi spiace soltanto, che (quanto ai preti, i quali furono i soli motori di tutta la macchina) il loro zelo in ciò non fosse né evangelico, né puro dai secondi fini, poiché non pochi di essi coi lor tristi esempi faceano ad un tempo l'elogio della condotta mia, e la satira della loro propria. La cosa era dunque, non figlia di vera religione e virtù, ma di vendette e raggiri. Quindi, appena ritornò in Roma il cognato, egli per l'organo de' suoi preti intimò alla signora : che era cosa oramai indispensabile, e convenuta tra lui e il fra- tello, che s' interrompesse quella mia assiduità presso lei ; e ch'egli non la sopporterebbe ulteriormente. Quindi codesto personaggio, > Nel mese di marzo, veramente. La vita 207 Impetuoso sempre ed irriflessivo, quasi che s' intendesse con questi modi di trattare la cosa più decorosamente, ne fece fare uno scandaloso schiamazzio per la città tutta, parlandone egli stesso con molti, e inoltrandone le doglianze sino al papa. Corse allora grido, che il papa su questo riflesso mi avesse fatto o per- suadere o ordinare di uscir di Roma; il che non fu vero; ma facilmente avrebbe potuto farlo, mercè la libertà italica. Io però, ricordatomi allora, come tanti anni prima essendo in accademia, e portando com' io narrai la parrucca, sempre aveva antivenuto i nemici sparruccandomi da me stesso, prima che essi me la le- vasser di forza; antivenni allora l'affronto dell'esser forse fatto partire, col determinarmivi spontaneamente. A quest'effetto io fui dal ministro nostro di Sardegna^, pregandolo di far partecipe il segretario di stato, che io informato di tutto questo scandalo, troppo avendo a cuore il decoro, l'onore, e la pace di una tal donna, aveva immediatamente presa la determinazione di allon- tanarmene per del tempo, affine di far cessare le chiacchiere; e che verso il principio del prossimo maggio sarei partito. Piacque al ministro, e fu approvata dal segretario di stato, dal papa e da tutti quelli che seppero il vero, questa mia spontanea e do- lorosa risoluzione. Onde mi preparai alla crudelissima dipai^enza. A questo passo m'indusse la trista ed orribile vita alla quale prevedeva di dover andare incontro, ove io mi fossi pure rimasto in Roma, ma senza poter continuare di vederla in casa sua, ed esponendola ad infiniti disgusti e guai, se in altri luoghi con affettata pubblicità, ovvero con inutile ed indecoroso mistero, l'avessi assiduamente combinata. Ma il rimaner poi entrambi in Roma senza punto vederci, era per me un tal supplizio, ch'io per minor male, d'accordo con essa*, mi elessi la lontananza aspet- tando migliori tempi. Il di quattro maggio dell'anno 1783, che sempre mi Mrì ed è stato finoradi amarìssima ricordanza, io mi allontanai adunque da quella più che metà di me stesso. E di quattro o cinque separazioni che mi toccarono da essa, questa fu la più terribile per me, essendo ogni speranza di rivederla pur troppo incerta e lontana. » Il conte Valperg» di taglione ; ne pubblicò i dispacci alla corte di Torino D. Perribo, V. A. e gli ultimi Stuardi, in Rivista Europea, 18S1, n. 24. « Veramente erano state fatte istanze perchè la contessa stessa pregaste 'A. d'allantanarsi. 208 Vittorio Alfieri Questo avvenimento mi tornò a scomporre il capo per forse due anni, e m'impedì, ritardò e guastò anche notabilmente sotto ogni rispetto i miei studi. Nei due anni di Roma io avea tratto una vita veramente beata. La villa Strozzi, posta alle Terme Dio- cleziane \ mi avea prestato un delizioso ricovero. Le lunghe in- tere mattinate io ve le impiegava studiando, senza muovermi punto di casa se non se un'ora o due cavalcando per quelle soli- tudini immense che in quel circondario disabitato di Roma invi- tano a riflettere, piangere, e poetare. La sera scendeva nell'abitato, e ristorato dalle fatiche dello studio con l'amabile vista di quella per cui sola io esisteva e studiava, me ne ritornava poi contento al mio eremo, dove al più tardi all' undici della sera io era ritirato. Un soggiorno più gaio e più libero e più rurale, nel recinto d' una gran città, non si potea mai trovare ; né il più confacente al mio umore, carattere ed occupazioni. Me ne ricorderò, e lo desidererò finch'io viva. Lasciata dunque in tal modo la mia unica donna, i miei libri, la villa, la pace, e me stesso in Roma, io me n'andava dilun- gando in atto d'uomo quasi stupido ed insensato. M'avviai verso Siena, per ivi lagrimare almeno liberamente per qualche giorni in compagnia dell'amico. Né ben sapeva ancora in me stesso, dove anderei, dove mi starei, quel che mi farei. Mi riuscì d'un grandissimo sollievo il conversar con quell' uomo incomparabile ; buono, compassionevole e con tanta altezza e ferocia di sensi, umanissimo. Né mai si può veramente ben conoscere il pregio e l'utilità d'un amico verace, quanto nel dolore. Io credo, che senz'esso sarei facilmente impazzato. Ma egli, vedendo in me un eroe così sconciamente avvilito e minor di sé stesso; ancorché ben intendesse per prova i nomi e la sostanza di fortezza e virtù, non volle con tutto ciò crudelmente ed inopportunamente op- porre ai deliri miei la di lui severa e gelata ragione: bensì seppe egli scemarmi, e non poco, il dolore, col dividerlo meco. Oh rara, oh celeste dote davvero ; chi sappia ragionare ad un tempo, e sentire! Ma io frattanto, menomate o sopite in me tutte le mie intellet- tuali facoltà, altra occupazione, altro pensiero non ammetteva, » In via Viminale ; era dei Rospigliosi : « per dieci scudi al mese (grassi tempi quelli!) l'A. godevasi l'intero palazzo ammobigliato e l'ampio giar- dino . [fl.J. La vita 20<) che lo scrivere lettere: e in questa terza lontananza che fu la più lunga, scrissi veramente dei volumi; né quello ch'io mi scrivessi, il saprei: io sfogava il dolore, l'amicizia, l'amore, l'ira e tutti in- somma i cotanti e sì diversi, e sì indomiti affetti, d'un cuor tra- boccante, e d' un animo mortalmente piagato. Ogni cosa letteraria mi si andava ad un tempo sfesso estinguendo nella mente, e nel cuore: a tal segno, che varie lettere ch'io avea ricevute di To- scana nel tempo de' miei disturbi in Roma, le quali mi mor- deano non poco su le stampate tragedie, non mi fecero la mi- nima impressione per allora, non più che se delle tragedie d'un altro mi avessero favellato. Erano queste lettere, qualcuna scritta con sale e gentilezza, le più insulsamente e villanamente; alcune firmate, altre no; e tutte concordavano nel biasimare quasi che esclusivamente il mio stile, tacciandomelo di durissimo, oscaris- simo, stravagantissimo; senza però volermi, o sapermi, indivi- duare gran fatto il rome, il dove, il perchè. Giunto poi in To- scana, l'amico per divagarmi dal mio unico pensamento, mi lesse nei foglietti di Firenze e di Pisa, chiamati Giornali, il commento delle predette lettere, che mi erano state mandate in Roma. E furono codesti i primi così detti giornali letterari che in qua- lunque lingua mi fossero capitati mai agli orecchi né agli occhi. E allora soltanto penetrai nei recessi di codesta rispettabile arte, che biasima o loda i diversi libri con eguale discernimento, equità, e dottrina, secondo che il giornalista è stato prima o donato, o vezzeggiato, o ignorato, e sprezzato dai rispettivi autori. Poco m'importò, a dir vero, di codeste venali censure, avendolo allora l'animo interamente preoccupato da tutt'altro pensiero. Dopo circa tre settimane di soggiorno in Siena, nel qua! tempo non trattai né vidi altri che l'amico, la temenza di rendermi troppo molesto a lui, poiché tanto pur l'era a me stesso; l'im- possibilità di occuparmi in nulla, e la solita impazienza di luogo che mi dominava tosto di bel nuovo al riapparire della noia e dell'ozio ; tutte queste ragioni mi fecero risolvere di muovermi viaggiando. Si avvicinava la festa solita dell'Ascensa in Venezia, che io avea già veduta molti anni prima; e là mi avviai. Passai per Firenze di volo, che troppo mi accorava l'aspetto di quei luoghi che mi aveano già fatto beato, e che ora mi rivedevano si angustiato ed oppresso. Il moto del cavalcare massimamente, e tutti gli altri strapazzi e divagazioni del viaggio, mi giovarono, se non altro, alla salute moltissimo, la quale molto mi si era andata 14. Clatttel Italiani. N. 2. 210 Vittorio Alfieri alterando da tre mesi in poi pe' tanti travagli d'animo, d'intel- letto, e di cuore. Di Bologna mi deviai per visitare in Ravenna il sepolcro del Poeta, e un giorno intero vi passai fantasticando, pregando, e piangendo. In questo viaggio di Siena a Venezia mi si dischiuse veramente una nuova e copiosissima vena delle rime affettuose, e quasi ogni giorno uno o più sonetti mi si facean fare, affacciandosi con molto impeto e spontaneità alla mia agi- tatissima fantasia. In Venezia poi, allorché sentii pubblicata e assodata la pace^ tra gli Americani e l'Inghilterra, pattuitavi la loro indipendenza totale, scrissi la quinta Ode dell'America li- bera, con cui diedi compimento a quel lirico poemetto''. Di Ve- nezia venuto a Padova, questa volta non trascurai, come nelle due altre anteriori, di visitare la casa e la tomba del nostro so- vrano maestro d'amore in Arquà. Quivi parimente un giorno intero vi consecrai al pianto, e alle rime, per semplice sfogo del troppo ridondante mio cuore. In Padova poi imparai a cono- scere di persona il celebre Cesarotti, dei di cui modi vivaci e cortesi non rimasi niente raen soddisfatto, che il fossi stato sempre della lettura de' suoi maestrevolissimi versi ntWOssian^. Di Pa- dova ritornai a Bologna, passando per Ferrara, affine di quivi compiere il mio quarto pellegrinaggio poetico, col visitarvi la tomba, e i manoscritti dell'Ariosto. Quella del Tasso più volte l'avea visitata in Roma; cosi la di lui culla in Sorrento, dove nell'ultimo viaggio di Napoli, mi era espressamente portato ad un tale effetto. Questi quattro nostri poeti, erano allora, e sono, e sempre saranno i miei primi, e direi anche soli, di questa bel- lissima lingua; e sempre mi è sembrato che in essi quattro vi sia tutto quello che umanamente può dare la poesia ; meno però il meccanismo del verso sciolto di dialogo, il quale si dee però trarre dalla pasta di questi quattro, fattone un tutto, e maneg- giatolo in nuova maniera. E questi quattro grandissimi, dopo sedici anni oramai ch'io li ho giornalmente alle mani, mi rie- scono sempre nuovi, sempre migliori nel loro ottimo, e direi anche utilissimi nel loro pessimo; che io non asserirò con cieco fanatismo, che tutti e quattro a luoghi non abbiano e il mediocre ed il pessimo; dirò bensì che assai, ma assai, vi si può imparare > Conclusa col trattato di Parigi (1783) tra Francia, Inghilterra, StAti Uniti e Spagna. * Cfr. cap. precedente. » Cfr. Ep. IV, cap. i. La vita 211 anche dal loro cattivo ; ma da chi ben si addentra nei loro mo- tivi e intenzioni: cioè da chi, oltre l'intenderli pienamente e gustarli, li sente. Di Bologna, sempre piangendo e rimando me n'andai a Mi- lano ; e di là, trovandomi così vicino al mio carissimo abate di Caluso, che allora villeggiava co' suoi nipoti nel bellissimo loro Castello di Masino^ poco distante da Vercelli, ci diedi una scorsa di cinque o sei giorni. E in uno di quelli, trovandomi anche tanto vicino a Torino, mi vergognai di non vi dare una scorsa per abbracciar la sorella. V'andai dunque per una notte sola col- l'amico, e l'indomani sera ritornammo a Masino. Avendo abban- donato il paese mio colla donazione, in aspetto di non lo voler pili abitare, non mi vi volea far vedere così presto, e massime dalia Corte. Questa fu la ragione del mio apparire e sparire in un punto. Onde questa scorsa così rapida che a molti potrebbe parere bizzarra, cesserà d'esserlo saputane la ragione. Erano già sei e più anni, ch'io non dimorava più in Torino: non mi vi parea essere né sicuro, né quieto, né libero; non ci voleva, né doveva, né potea rimanervi lungamente. Di Masino, tosto ritornai a Milano, dove mi trattenni ancora quasi tutto luglio; e ci vidi assai spesso l'originalissimo autore del MattinOy vero precursore della futura satira italiana*. Da questo celebre e colto scrittore procurai d'indagare, con la mas- sima docilità, e con sincerissima voglia d'imparare, dove consi- siesse principalmente il difetto del mio stile in tragedia. Il Pa.'-ini con amorevolezza e bontà mi avvertì di varie cose, non molto a dir vero importanti, e che tutte insieme non poteano mai co- stituire la parola stile, ma alcune delle menome parti di esso. Ma le più, od il tutto di queste parti che doveano costituire il vero difettoso nello stile, e che io allora non sapeva ancor ben discer- nere da me stesso, non mi fu mai saputo o voluto additare né dal Parini, né dal Cesarotti, né da altri valenti uomini ch'io col fervore e l' umiltà d' un novizio visitai ed interrogai in quel viaggio per la Lombardia. Onde mi convenne poi dopo il decorso di molti anni con molta fatica ed incertezza andar ritrovando dove stesse il difetto, e tentare di emendarlo da me. Sul totale però, di qua dell'Appennino le mie tragedie erano piaciute assai più 1 DescriHo dal Caluso nel poemetto iAìitolato Caluso (1791). * Quale tentò poi l'A., colle sue Satin. 212 Vittorio Alfieri che in Toscana; e vi s'era anclie biasimato Io stile con molto minore accanimento e qualche più lumi. Lo stesso era accaduto in Roma ed in Napoli, presso quei pochissimi che le aveano volute leggere. Egli è dunque un privilegio antico della sola To- scana, di incoraggire in questa maniera gli scrittori italiani, allorché non iscrivono delle cicalate'. CAPITOLO UNDECIMO Seconda stampa di sei altre tragedie. Varie censure delle quattro stampate prima. Risposta alla lettera del Calsabigi. Verso i primi d'agosto, partito di Milano, mi volli restituire in Toscana. Ci venni per la bellissima e pittoresca via nuova di Modena, che riesce a Pistoia. Nel far questa strada, tentai per la prima volta di sfogare anche alquanto il mio ben giusto fiele poetico, in alcuni epigrammi. Io era intimamente persuaso, che se degli epigrammi satirici, taglienti, e mordenti, non avevamo nella nostra lingua, non era certo colpa sua; ch'ella ha ben denti, ed ugne, e saette, e feroce brevità, quanto e più ch'altra lingua mai l'abbia, o le avesse. I pedanti fiorentini, verso i quali io veniva scendendo a gran passi nell' avvicinarmi a Pistoia, mi pre- stavano un ricco soggetto per esercitarmi un pochino in quel- l'arte novella. Mi trattenni alcuni giorni in Firenze, e visitai alcuni di essi, mascheratomi da agnello, per cavarne o lumi, o risate. Ma essendo quasi impossibile il primo lucro, ne ritrassi in copia il secondo. Modestamente quei barbassori mi lasciarono, anzi mi fecero chiaramente intendere: che se io prima di stam- pare avessi fatto correggere il mio manoscritto da loro, avrei scritto bene. Ed altre sì fatte mal confettate impertinenze mi dis- sero. M'informai pazientemente, se circa alla purità ed analogia delle parole, e se circa alla sacrosanta grammatica, io avessi ve- ramente solecizzato, o barbarizzato, o sme frizzato. Ed in questo pure, non sapendo essi pienamente l'arte loro, non mi seppero additare ninna di queste tre macchie nel mio stampato, indivi- duandone il luogo: abbenchè pur vi fossero qualche sgramira- ticature; ma essi non le conoscevano. Si appagarono dunque d! appormi delle parole, dissero essi, antiquate; e dei modi insoli'l. > Allusione ironica alle cicalate accademiche del '700. La vita 213 troppo brevi, ed oscuri, e duri all'orecchio. Arricchito io in tal guisa di sì peregrine notizie, addottrinato e illuminato nell'arte tragfica da sì cospicui maestri, me ne tomai a Siena. Quivi mi determinai, sì per occuparmi sforzatamente, che per divagarmi dai miei dolorosi pensieri, di proseguirvi sotto i miei occhi la stampa delle tragedie. Nel riferire io poi all'amico le notizie ed i lumi ch'io era andato ricavando dai nostri diversi oracoli ita- liani, e massimamente dai Fiorentini e Pisani, noi gustammo un pocolino di commedia, prima di accingerci a far di nuovo rider coloro a spese delle nostre ulteriori tragedie. Caldamente, ma con troppa fretta, mi avviai a stampare, onde in tutto settembre, cioè in meno di due mesi, uscirono in luce le sei tragedie in due tomi, che giunti al primo di quattro, formano il totale di qudla prima edizione. E nuova cosa mi convenne allora cono- scere per dura esperienza. Siccome pochi mesi prima io avea imparato a conoscere i giornali ed i giornalisti; allora dovei co- noscere i censori dei manoscritti, e revisori delle stampe, i com- positori, i torcolieri, ed i proti. Meno male di questi tre ultimi, che pagandoli si possono ammansire e dominare: ma i revisori e censori, sì spirituali che temporali', bisog^na visitarli, pregarli, lusingarli, e sopportarli, che non è picciol peso. L'amico Cori per la stampa del primo volume si era egli assunto in Siena queste noiose brighe per me. E così forse avrebbe anche potuto proseguire egli per la continuazione dei du' altri volumi. Maio, volendo pure, per una volta almeno, aver visto un poco di tutto nel mondo, volli anche in quell'occasione aver veduto un soprac- ciglio censorio, ed una gravità e petulanza di revisore. E vi sa- rebbe stato da cavarne delle barzellette non poche, se io mi fossi trovato in uno stato di cuore più lieto che non era il mio. E allora anche per la prima volta abbadai io stesso alla cor- rezione delle prove : ma essendo il mio animo troppo oppresso, ed alieno da ogni applicazione, non emendai come avrei dovuto e potuto, e come feci poi molti anni dopo ristampando in Parigi, la locuzione di quelle tragedie ; al qual effetto riescono utilissime le prove dello stampatore, dove leggendosi quegli squarci spez- zatamente e isolati dal corpo dell'opera, vi si presentano più presto all'occhio le cose non abbastanza ben dette; le oscurità; i versi mal torniti ; e tutte insomma quelle mendarelle, che raol- I I ceiMoii «ccleshtstici e quelli civili. 214 Vittorio Alfieri tiplicate e spesseggiaiiti fanno poi macchia. Sul totale però queste sei tragedie stampate secondo \ riuscirono, anche al dir dei male- voli, assai più piane delle quattro prime. Stimai bene per allora di non aggiungere alle dieci stampate le quattro altre tragedie che mi rimanevano, tra le quali sì la Congiura de^ Pazzi, che la Maria Stuarda, potevano in quelle circostanze accrescere a me dei disturbi, -ed a chi assai più mi premea che me stesso*. Ma intanto quel penoso lavoro del riveder le prove, e si affolla- tamente tante in sì poco spazio di tempo, e per lo più rivedendole subito dopo pranzo, mi cagionò un accesso di podagra' assai gagliardetto, che mi tenne da 15 giorni zoppo e angustiato, non avendo voluto covarla in letto. Quest'era il secondo accesso: il primo l'avea avuto in Roma un anno e più innanzi, ma leggerissimo. Con questo secondo mi accertai, che mi tocche- rebbe quel passatempo assai spesso per lo rimanente della mia vita. Il dolor d' animo, e il troppo lavoro di mente erano in me i due fonti di quell'incomodo: ma l'estrema sobrietà nel vitto l'andò sempre poi vittoriosamente combattendo; tal che finora pochi e non forti sono sempre stati gli assalti della mia mal pa- sciuta* podagra. Mentr'io stava quasi per finire la stampa, ricevei dal Calsabigi' di Napoli una lunghissima lettera, piena zeppa di citazioni in tutte le lingue, ma bastantemente ragionata, su le mie prime quattro tragedie. Immediatamente, ricevutala, mi posi a rispondergli, sì perchè quello scritto mi pareva essere stato fin allora il solo che uscisse da una mente sanamente critica e giusta ed illuminata; sì perchè con quell'occasione io poteva svi- luppare le mie ragioni, e investigando io medesimo il come e il perchè fossi caduto in errore, insegnare ad un tempo a tutti i tant'altri inetti miei critici a criticare con frutto e discernimento, o tacersi. Quello scritto mio, che dal ritrovarmi io allora pienis- simo di quel soggetto, non mi costò quasi punto fatica, poteva poi anche col tempo servire come di prefazione a tutte le tragedie, allorché l'avessi tutte stampate; ma me lo tenni in corpo per > Per seconde. « Perchè la prima esaltava il tirannicidio, l'altra conteneva allusioni al Conte d'Albany. s Gotta. « Non favorita dall'abbondante cibo. 6 Sul livornese Ranieri de' Calsabigi (1714-95) che scrisse all' A. una famosa lettera Intorno alle Tragedie v. O. Lazzf.ri, La vita e l'opera let- teraria di R. C, Città di Castello, 1907. La vita 215 allora, e non lo volli apporre alla stampa di Siena, la quale non dovendo essere altro per me che un semplice tentativo, io voleva uscire del tutto nudo d'ogni scusa, e ricevere così da ogni parte e d'ogni sorte saette ; lusingandomi forse che n'avrei così ricevuto più vita che morte; ninna cosa più ravvivando un autore, che criticarlo inettamente. Né questo mio orgoglietto avrei dovuto rivelare, s'io non avessi fin dal principio di queste chiacchiere impreso e promesso di non tacer quasi che nulla del mie, o di non dare almeno mai ragione del mio operare, la quale non fosse la schiettissima verità. Finita la stampa, verso il principio d'ottobre pubblicai il secondo volume ; e riserbai il terzo a sostener nuova guerra, tosto che fosse sfogata e chiarita la seconda. Ma intanto, ciò che mi premeva allora sopra ogni cosa, il rive- dere la donna mia, non potendosi assolutamente effettuare per quell'entrante inverno, io disperatissimo di tal cosa, e non ritro- vando mai pace, né luogo che mi contenesse, pensai di fare un lungo viaggio in Francia ed in Inghilterra, non già che me ne fosse rimasto né desiderio né curiosità, che me n' era già saziato d'entrambi dal secondo viaggio, ma per andare; che altro ri- medio o sollievo al dolore non ho saputo ritrovar mai. CoU'oc- casione di questo nuovo viaggio mi proponeva poi anche di comprare dei cavalli inglesi quanti più potrei. Questa era, ed è tuttavia, la mia passione terza: ma si fattamente sfacciata ed audace, e sì spesso rinascente, che i bei destrieri hanno molte volte osato combattere, e vinto anche talvolta, sì i libri che i versi; ed in quel punto di scontentezza di cuore, le Muse aveano pochissimo imperio su la mente mia. Onde di poeta ripristinatomi cavallaio', me ne partii per Londra con la fantasia ripiena ed accesa' di belle teste, be' petti, altere incollature, ampie groppe, o nulla o poco pensando oramai alle uscite e non uscite tragedie. Ed in sì fatte inezie consumai ben otto e più mesi, non facendo più nulla, né studiando, né quasi pure leggendo, se non se a squar- cetti 1 miei quattro Poeti, che or l'uno or l'altro io mi andava a vicenda intascando, compagni indivisibili miei nelle tante e tante miglia ch'io faceva; e non pensando ad altro che alla lon- tana mia donna, per cui di tempo in tempo alcune rime di pia- gnisteo andava pur anche raccozzando alla meglio. ' Apntwlonato amatore di cavalH. 216 Vittorio Alfieri CAPITOLO DUODECIMO Terzo viaggio in Inghilterra, unicamente per comperarvi cavalli. Verso la metà d' ottobre lasciai dunque Siena, e partendo alla volta di Genova, per Pisa e Lerici, l'amico Cori mi fece com- pagnia sino a Genova. Quivi dopo due o tre giorni ci separammo ; egli ripartì per la Toscana, io m'imbarcai per Antibo. Rapidis- simamente e con qualche pericolo feci quel tragitto in poco più di diciott'ore. Né senza un qualche timore passai quella notte. La feluca era piccola; ci aveva imbarcata la carrozza, la quale faceva squilibrio: il vento ed il mare gagliardissimi: ci stetti assai male. Sbarcato, ripartii per Aix, dove non mi trattenni, né mi arrestai fino ad Avignone, dove mi portai con trasporto a visitare la magica solitudine di Vakhìusa; e Sorga ^ ebbe assai delle mie lagrime, non simulate e imitative, ma veramente di cuore e caldissim'e. Feci in quel giorno nell'andare e tornare di Valchiusa in Avignone quattro sonetti: e fu quello per me l'un dei giorni i più beati e nello stesso tempo dolorosi, ch'io pas- sassi mai. Partito d'Avignone volli visitare la celebre Certosa di Grenoble, e per tutto spargendo lagrime andava raccogliendo rime non poche, tanto ch'io pervenni per la terza volta in Pa- rigi: e sempre lo stessissimo effetto mi fece questa immensis- sima fogna ; ira e dolore. Statovi circa un mese, che mi vi parve un secolo, ancorché vi avessi recate varie lettere per molti lette- rati d'ogni genere, mi disposi nel decembre a passare in Inghil- terra. I letterati francesi son quasi tutti presso che interamente digiuni della nostra letteratura italiana, né oltrepassano l'intel- ligenza del Metastasio. Ed io poi non intendendo nulla né vo- lendo saper della loro, non avea luogo discorso tra noi. Bensì arrabbiatissimo io in me stesso di essermi rimesso nel caso di dover riudire e riparlare quell'antitoscanissimo gergo nasale, affrettai quanto più potei il momento di allontanarmene. Il fana- tismo ebdomadario di quel poco tempo ch'io mi vi trattenni, era allora il pallon volante'; e vidi due delle prime e più felici espe- » Piccola riviera, affluente del Rodano, che nasce dalla fonte di Val- chiusa e fu cantata dal Petrarca. « Cfr. E. Behtana, // sonetto di O. Parinl « Per la macchina areosta- tica >, in Gior. star, d, leti, ital., XXXII. La viia Ì417 rienze delle due sorti di esso, l'uno di aria rareiaita ripieno; l'altro, d'aria infiammabile'; ed entrambi portanti per aria due persone ciascuno. Spettacolo grandioso e mirabile, tema più assai poetico che storico; e scoperta, a cui per ottenere il titolo di sublime, altro non manca finora che la possibilità o verosimi- glianza di essere adattata ad una qualche utilità". Giunto in Londra, non trascorsero otto giorni, ch'io cominciai a comprar dei cavalli; prima un di corsa, poi due di sella, poi un altro, poi sei da tiro, e successivamente essendomene o andati male o morti vari poliedri, ricomprandone due per un che morisse, in tutto il marzo dell'anno 84, me ne trovai rimanere quattordici. Questa rabidissima ' passione, che in me avea covato sotto cenere oramai quasi sei anni, mi si era per quella lunga privazione totale, o parziale, s) dispettosamente riaccesa nel cuore e nella fantasia, che recalcitrando contro gli ostacoli, e vedendo che di dieci com- pratine, cinque mi eran venuti meno in sì poco tempo, arrivai a quattordici; come pure a quattordici avea spinte le tragedie, non ne volendo da prima che sole dodici. Queste mi spossarono la mente; quelli la borsa: ma la divagazione dei molti cavalli mi restituì la salute e l'ardire di fare poi in appresso altre tragedie ed altr'opere. Furono dunque benissimo spesi quei molti danari, poiché ricomprai anche con essi il mio impeto e brio, che a piedi* languivano. E tanto più feci bene di buttar quei danari, poiché me li trovava avere sonanti. Dalla donazione in poi, avendo io vissuti i primi quasi tre anni con sordidezza, ed i tre ultimi con decente ma moderata spesa ; mi ritrovava allora una buona somma di risparmio, tutti i frutti dei vitalizi di Francia, cui non avea mai toccati. Quei quattordici amici me ne consumarono gran parte nel farsi comprare, e trasferire in Italia; ed il rimanente poi me ne consumarono in cinque anni consecutivi nel farsi man- tenere: che usciti una volta della loro isola, non vollero più mo- rire nessuno, ed io affezionatomi ad essi non ne volli vender nessuno. Incavallatomi' dunque sì pomposamente, dolente nel- l'animo per la mia lontananza dalla sola motrice d'ogni mio savio ed alto operare, io non trattava né cercava mai nessuno; > Idrogeno. « Vero5Ìinii^H.inza che l'A., nel «no scetticismo, sembra negare. * Rabbiosissima. * Senza cavalli. * Provvedutomi di cavalli. 218 Vittorio AlfUri o me ne stava co' miei cavalli, o scrivendo lettere su lettere su lettere. In questo modo passai circa quattro mesi in Londra ; né alle tragedie pensava altrimenti che se non l'avessi né pure ideate mai. Soltanto mi si affacciava spesso fra me e me quel bizzarro rapporto di numeri fra esse e le mie bestie ; e ridendo mi dicea : Tu ti sei guadagnato un cavallo per ogni tragedia ; pensando ai cavalli che a suono di sferza ci somministrano i nostri Orbilj Pedagogi \ quando facciamo nelle scuole una qualche trista com- posizione. Così vissi io vergognosamente in un ozia vilissimo per mesi e mesi; smettendo ogni dì più anche il leggere i soliti poeti, e insterilita anco affatto la vena delle rime ; tal che in tutto il soggiorno di Londra non feci che un solo sonetto, e due poi al partire. Avviatomi nell'aprile con quella numerosa carovana, venni a Calais, poi a Parigi di nuovo, poi per Lione e Torino mi restituii in Siena. Ma molto è più facile e breve il dire per iscritto tal gita, che non l'eseguirla, con tante bestie. Io provava ogni giorno, ad ogni passo, e disturbi e amarezze, che troppo mi avvelenavano il piacere che avrei avuto della mia cavalleria. Ora questo tossiva, or quello non volea mangiare : l'uno azzop- piva, all'altro si gonfiavan le gambe, all'altro si sgretolavan gli zoccoli; e che so io: egli era un oceano continuo di guai, ed io n'era il primo martire. E quel passo di mare, per trasportarli di Douvres, vedermeli tutti come pecore in branco posti per za- vorra della nave, avviliti, sudicissimi da non più si distinguere neppure il beli' oro dei loro vistosi mantelli castagni ; e tolte via alcune tavole che li facevan da tetto, vederli poi in Calais, prima che si sbarcassero, servire ì loro dossi di tavole ai grossolani marinai che camminavan sopra di loro come se non fossero stati vivi corpi, ma una vile continuazione di pavimento; e poi ve- derli tratti per aria da una fune con le quattro gambe spenzolate, e quindi calati nel mare, perchè stante la marea non poteva la nave approdare sino alla susseguente mattina ; e se non si sbar- cavano così quella sera, conveniva lasciarli poi tutta la notte in quella sì scomoda positura imbarcati: in somma vi patii pene continue di morte. Ma pure tanta fu la sollecitudine, e l'anti- vedere, e il rimediare, e l'ostinatamente sempre badarci da me, 1 Pensando alle sferzate dei critici, simili al pedagogo Orbillo, cantato da Orazio (Epistole, II, i). La vita 219 che fra tante vicende, e pericoli, ed incomoducci, li condussi senza malanni importanti tutti salvi a buon porto. Confesserò anche pel vero, che io passionatissirao su questo fatto, ci avea anche posto una non meno stolta che stravagante vanità ; talché quando in Amiens, in Parigi, in Lione, in Torino, ed altrove quei miei cavalli erano trovati belli dai conoscitori, io me ne rimpettiva e teneva come se gli avessi fatti io. Ma la più ardua ed epica impresa mìa con quella carovana fu il passo dell'Alpi fra Laneborgo, e la NovalesaV Molta fatica durai nel ben ordinare ed eseguire la marcia loro, affinchè non succedesse disgrazia nessuna a bestie sì grosse, e piuttosto gravi, in una strettezza e malagevolezza si grande di quei rompicolli di strade. E siccome assai mi cogipiacqui nell'ordinaria, mi permetta anco il lettore ch'io mi compiaccia alquanto in descriverla. Chi non la vuole, la passi; e chi la vorrà pur leggere, badi un po' s'io meglio sapessi distribuire la marcia di 14 bestie fra quelle Ter- mopile, che non i cinque atti d'una tragedia. Erano que' miei cavalli, attesa la lor giovinezza, e le mie cure paterne, e la moderata fatica, vivaci e briosi oltre modo; onde tanto più scabro riusciva il guardarli illesi per quelle scale. Io presi dunque in Laneborgo un uomo per ciascun cavallo, che lo guidasse a piedi per la brìglia cortissimo. Ad ogni tre ca- valli, che l'uno accodato all'altro salivano il monte bel bello, coi loro uomini, ci avea interposto uno de' miei palafrenieri che cavalcando un muletto invigilava su i suoi tre che lo prece- devano. E così via via di tre in tre. In mezzo poi della marcia stava il maniscalco di Laneborgo con chiodi e martello, e ferri e scarpe posticce per rimediare ai piedi che si venissero a sfer- rare, che era il maggior pericolo in quei sassacci. Io poi, come capo dell' espedizione, veniva ultimo, cavalcando il più pìccolo e il più leggiero de' miei cavalli, Frontino*, e mi tenea alle due staffe due aiutanti di strada, pedoni sveltissimi, ch'io mandava dalla coda al mezzo o alla testa, portatori de' miei comandi. Giunti in tal guisa felicissimamente in cima del Monsenigi*, quando poi fummo allo scendere in Italia, mossa in cui sempre i cavalli si sogliono rallegrare, e affrettare il passo, e sconside- ' Lanslebotirg:. * Nome del cavallo di Rui;giero e Bradtmante; questo Trontino è ricor- dato dall'A. in alcune delle tue rime. * Moncenisio, dal francese Montr^nis. ^^u Vittorio Alfieri ratamente anco saitellarq, io mutai di posto^ e sceso di cavallo mi posi in t6?ta di tutti, a piedi, scendendo ad oncia ad oncia ; e per maggiormente anche ritardare la scesa, avea posti in testa i cavalli i pili gravi e più grossi; e gli aiutanti correano intanto su e giìi per tenerli tutti insieme senza intervallo nessuno, altro che la dovuta distanza. Con tutte queste diligenze mi si sferrarono nondimeno tre piedi a diversi cavalli; ma le disposizioni eran sì esatte, che immediatamente il maniscalco li potè rimediare, e tutti giunsero sani e salvi alla Novalesa, coi piedi in ottimo es- sere, e nessunissimo zoppo. Queste mie chiacchiere potranno ser- vire di norma a chi dovesse passare o quell'Alpe, o altra simile, con molti cavalli. Io, quant'ame, avendo sì felicemente diretto codesto passo, me ne teneva poco meno che Annibale per averci un poco pili verso il mezzogiorno fatto traghettare i suoi schiavi e elefanti. IVla se a lui costò molt' aceto, a me costò del vino non poco, che tutti coloro, e guide, e maniscalchi, e palafrenieri, e aiutanti, si tracannarono^ Col capo ripieno traboccante di queste inezie cavalline, e molto scemo di ogni utile e lodevole pensamento, arrivai in Torino in fin di maggio, dove soggiornai circa tre settimane, dopo sette e pili anni che vi avea smesso il domicilio. JVla i cavalli, che per la troppa continuità cominciavano talvolta a tediarmi, dopo sei, o otto giorni di riposo, li spedii innanzi alla volta della Toscana, dove li avrei raggiunti. Ed intanto voleva un poco respirare da tante brighe, e fatiche, e puerilità, poco in vero convenevoli ad un autor tragico in età di anni trentacinque suonati. Con tutto ciò quella divagazione, quel moto, quell'interruzione totale d'ogni studio mi aveva singolarmente giovato alla salute, ed io mi tro- vava rinvigorito, e ringiovenito di corpo, come pur troppo rin- giovenito anche di sapere e di senno, i cavalli mi aveano a gran passi ricondotto all'asino mio primitivo*. E tanto mi ero già di bel nuovo irruginita la mente, ch'io mi riputava ora mai nella totale impossibilità di nulla più ideare, né scrivere. > Le spese del viaggio da Londra a Siena l'A. annotò in un fascicolo di 26 foglietti; cfr. O. Mazzatinti, Le carte alfierìane dì Montpellier, in Gior. star. d. lett. ital., Ili, p, 383. * Asinità. La vita 221 CAPITOLO DECIMOTERZO Breve soggiorno in Torino. Recita uditavi della Virginia. In Torino ebbi alcuni piaceri, e alcuni piìi dispiaceri. Il rive- dere gli amici della prima gioventù, ed i luoghi che primi si son conosciuti, ed ogni pianta, ogni sasso, in somma ogni og- getto di quelle idee e passioni primitive, eli' è dolcissima cosa. Per altra parte poi l'avere io ritrovati non pochi di quei com- pagnoni d'adolescenza, i quali vedendomi ora venire per una vi.i, di quanto potean più lontano mi scantonavano; ovvero, presi alle strette, gelidamente appena mi salutavano, od anche voltavano il viso altrove; gente, a cui io non aveva fatto mai nulla, se non se amicizia e cordialità; questo mi amareggiò non poco : e più mi avrebbe amareggiato, se non mi fosse stato detto da altri pochi e benevoli, che gli uni mi trattavan così perchè io aveva scritto tragedie ; gli altri, perchè avea viaggiato tanto; gli altri, perchè ora io era ricomparito in paese con troppi cavalli: piccolezze in somma; scusabili però, e scusabilissime presso chiunque conosce l'uomo esaminando imparzialmente se stesso; ma cose da scansarsi per quanto è possibile, col non abi- tare fra i suoi nazionali, allorché non si vuol fare quel che essi fanno o non fanno; allorché il paese è piccolo, ed oziosi gli abitanti; ed allorché finalmente si è venuto ad offenderli invo- lontariamente, anche col solo tentare di farsi da più di loro, qualunque sia il genere e il modo in cui l'uomo abbia tentato tal cosa. Un altro amarissimo boccone che mi convenne inghiottire in Torino, fu di dovermi indispensabilmente presentare al re, il quale per certo si teneva offeso da me, per averlo io tacitamente rinnegato coll'espatriazione perpetua. Eppure, visti gli usi del paese, e le mie stesse circostanze, io non mi poteva assolvere dal fargli riverenza, ed ossequio, senza riportare la giusta taccia di stravagante e insolente e scortese. Appena io giunsi in To- rino, che il mio buon cognato, allora primo gentiluomo di ca- mera, ansiosamente subito mi tastò per vedere se io mi presen- terei a corte, o no. Ma io immediatamente lo acquetai e raccon- solai col dirgli positivamente di si; ed egli insistendo sul quando. 222 Vittotio Alfieri non volli differire. Fui il giorno dopo dal ministro'. Il mio co- gnato già mi avea prevenuto, .che in quel punto le disposizioni di quel governo erano ottime per me ; onde sarei molto ben ri- cevuto; ed aggiunse anco che si avea voglia d'impiegarmi. Questo non meritato né aspettato favore . mi fece tremare : ma l'avviso mi servì assai, per tener tal contegno e discorso da non mi fare né prendere né invitare. Io dissi dunque al ministro, che passando per Torino credeva del mio dovere di visitare lui mi- nistro, e di richiedere per mezzo suo di rassegnarmi al re, sem- plicemente per inchinarmegli. Il ministro con blande maniere mi accolse, e direi quasi che mi festeggiò. E di una parola in un'altra mi venne lasciando travedere da prima, e poi mi disse apertamente : che al re piacerebbe ch'io mi volessi fissare in patria; che si varrebbe volentieri di me; ch'io mi sarei potuto distinguere, e simili frasche. Tagliai a dirittura nel vivo, e senza punto tergi- versare risposi: che io ritornava in Toscana per ivi proseguire le mie stampe e i miei studi; ch'io mi trovava avere 35 anni, età in cui non si dee oramai più cangiare di proposito ; che avendo io abbracciata l'arte delle lettere, o bene o male la praticherei per tutto il rimanente di vita mia. Egli soggiunse ; che le lettere erano belle e buone, ma che esistevano delle occupazioni più grandi e più importanti, di cui io era e mi dovea sentir ben ca- pace. Ringraziai cortesemente, ma persistei nel no ; ed ebbi anche la moderazione e la generosità di non dare a quel buon galan- tuomo l'inutile mortificazione, ch'egli si sarebbe pur meritata; di lasciargli cioè intendere, che i loro dispacci e diplomazie mi pareano, ed eran ben certo, assai meno importante ed alta cosa che non le tragedie mie o le altrui. Ma questa specie di gente è, e dev'essere, inconvertibile. Ed io, per natura mia, non disputo mai, se non se raramente con quelli con cui concordiamo di mas- sima: agli altri in ogni cosa io la do vinta alla prima. Mi con- tentai dunque di non acconsentire. Questa mia resistenza nega- tiva verisimilmente poi passò sino al re pel canale del ministro; onde il giorno dopo, eh' io vi fui a inchinarlo, il re non mi parlò punto di questo, e del rimanente mi accolse colla massima affa- bilità e cortesia, che gli è propria. Questi era (ed ancora regna) Vittorio Amedeo II, figlio di Carlo Emanuele, sotto il cui regno io nacqui. Ancorché io non ami punto i re in genere, e meno i » Il primo ministro, marchese d'Aigiieblanche. La vita 223 più arbitrari, debbo pur dire ingenuamente che la razza di questi nostri principi è ottima sul totale, e massime paragonandola a quasi tutte l'altre presenti d'Europa. Ed io mi sentiva nell'in- timo del cuore piuttosto affetto per essi, che non avversione; stante che sì questo re che il di lui predecessore, sono di ottime intenzioni, di buona e costumata ed esemplarissima indole, e fanno al paese loro più bene che male. Con tutto ciò quando si pensa e vivamente si sente che il loro giovare o nuocere pendono dal loro assoluto volere, bisogna fremere e, fuggirei E così feci io dopo alcuni giorni, quanti bastarono per rivedere i miei parenti e cono- scenti in Torino, e trattenermi piacevolmente e utilmente per me le più ore di quei giorni coll'incomparabile amico, l'abate di Caluso, che un cotal poco mi riassestò anche il capo, e mi riscosse dal letargo in cui la stalla mi avea precipitato, e quasi che seppellito. Nel trattenermi in Torino mi toccò di assistere (senza ch'io n'avessi gran voglia) ad una recita pubblica della mia Virginia, che fu fatta su lo stesso teatro, nove anni dopo quella della Cleopatra, da attori a un bel circa della stessa abilità. Un mio amico già d'Accademia avea preparata questa recita già prima ch'io arrivassi a Torino, e senza sapere ch'io ci capiterei. Egli mi chiese di volermi adoprare nell' addestrare un tal poco gli attori ; come avea fatto già per la Cleopatra. Ma io, cresciuto forse alquanto di mezzi % e molto più di orgoglio, non mi ci volli prestare in nulla, conoscendo benissimo quel che siano finora ed i nostri attori, e le nostre platee. Non mi volli dunque far com- plice a nessun patto della loro incapacità, che senza averli sentiti ella mi era già cosa dimostratissima. Sapeva, che avrebbe biso- gnato cominciare dall'impossibile; cioè dall'insegnar loro a par- lare e pronunziare italiano, e non veneziano; a recitar essi, e non il rammentatore; ad intendere (troppo sarebbe pretendere, s'io dicessi a sentire), ma ad intendere semplicemente quello che volean far intendere all'uditorio. Non era poi dunque si Irragionevole il mio niego, né sì indiscreto il mio orgoglio. Lasciai dunque che l'amico ci pensasse da sé, e condiscesi sol- tanto col promettergli a mal mio grado d'assistervi. Ed in fatti ci fui, già ben convinto in me stesso, che di vivente mio non v'era da raccoglier per me in nessunissimo teatro d'Italia, né Queste parole ben esprimono l'avversione delI'A. per la forma monarchica. ■ Capaciti. 224 Vittorio Alfieri lode né biasimo. La Virginia ottenne per l'appunto la stessa at- tenzione, e lo stessissimo esito che avea già ottenuta la Cleo- patra; e fu richiesta per la sera dopo, né più né meno di quella; ed io, come si può credere, non ci tornai. Ma da quel giorno cominciò in gran parte quel mio disinganno di gloria, in cui mi vo di giorno in giorno sempre più confermando. Con tutto ciò non mi rimoverò io dall'abbracciate proposito di ten- tare ancora per altri dieci o quindici anni all' incirca, sin sotto ai sessanta cioè, di scrivere in due o tre altri generi delle nuove composizioni, quanto più accuratamente e meglio il saprò; per avere, morendo o invecchiando, la intima consolazione di aver soddisfatto a me stesso, ed all'arte quant'era in me. Che quanto ai giudizi degli uomini presenti, atteso lo stato in cui si trova l'arte critica in Italia, ripeto piangendo, che non v'é da sperare né ottenere per ora, né lode né biasimo. Che io non reputo lode, quella che non discerne, e motivando sé stessa inanima l'autore ; né biasimo chiamo, quello che non t' insegna a far meglio. Io patii morte a codesta recita della Virginia, più ancora che a quella di Cleopatra, ma per ragioni troppo diverse. Né più este- samente le voglio allegare ora qui; poiché a chi ha ed il gusto e l'orgoglio dell'arte, elle già sono notissime; per chi non l'ha, elle riuscirebbero inutili ed inconcepibili. Partito di Torino, mi trattenni tre giorni in Asti presso l'ot- tima rispettabilissima mia madre. Ci separammo poi con gran lagrime, presagendo ambedue che verisimilmente non ci saremmo più riveduti. Io non dirò che mi sentissi per lei quanto affetto avrei potuto e dovuto; atteso che dall'età di nove anni in poi non mi era mai più trovato con essa, se non se alla sfuggita per ore. Ma la mia stima, gratitudine, e venerazione per essa e per le di lei virtù è stata sempre somma, e lo sarà finch'io vivo. Il Cielo le accordi lunga vita, poich'ella sì bene la impiega in edificazione e vantaggio di tutta la sua città. Essa poi è oltre ogni dire sviscerata per me, più assai ch'io non abbia mai me- ritato. Perciò il di lei vero ed immenso dolore nell'atto della nostra dipartenza grandemente mi accorò, ed accora. Appena uscito io poi dagli Stati del re sardo, mi sentii come allargato il respiro: cotanto mi pesava tuttavia tacitamente sul collo anche l'avanzo stesso di quel mio giogo natio, ancorché infranto lo avessi. Talché il poco tempo ch'io vi stetti, ogni qual- volta mi dovei trovare con alcuno dei barbassori governanti di La vita 225 quel paese, io mi vi teneva piuttosto in aspetto di liberto che non d'uomo libero ; sempre rammentandomi quel bellissimo detto di Pompeo nello scendere in Egitto alla discrezione ed arbitrio d'un Potino: « Chi entra in casa del tiranno, s'egli schiavo non era si fa. » Così, chi per mero ozio e vaghezza rientra nel già diser- tato suo carcere, vi si può benissimo ritrovar chiuso all'uscirne, finché pur carcerieri rimangonvi. Inoltrandomi intanto verso Modena, le nuove ch'io avea rice- vute della mia donna mi andavano riempiendo or di dolore, ora di speranza, e sempre di molta incertezza. Ma l'ultime ricevute in Piacenza mi annunziavano finalmente la di lei liberazione di Roma', il che mi empiva d'allegrezza; poiché Roma era per allora il sol luogo dove non l'avrei potuta vedere : ma per altra parte la convenienza con catene di piombo mi vietava assolutamente, anche in quel punto, di seguitarla. Ella aveva con mille stenti, e con dei sacrifici pecuniari non piccioli verso il marito, otte- nuto finalmente dal cognato, e dal papa, la licenza di portarsi negli Svizzeri all'acque di Baden; trovandosi per i molti disgusti la di lei salute considerabilmente alterata. In quel giugno dunque dell'anno 1784 ell'erasi partita di Roma, e bel bello lungo la spiaggia dell'Adriatico, per Bologna e Mantova e Trento, si av- viava verso il Tirolo, nel tempo stesso che io partitomi di Torino, per Piacenza, Modena e Pistoia me ne ritornava a Siena. Questo pensiero, di essere allora così vicino a lei, per tosto poi di bel nuovo rimanere così disgiunti e lontani, mi riusciva ad un tempo e piacevole e doloroso. Avrei benissimo potuto mandar per la diritta in Toscana il mio legno e la mia gente, ed io a traverso pur le poste a cavallo soletto l'avrei potuta presto raggiungere, e almen l'avrei vista. Desiderava, temeva, sperava, voleva, disvo- leva: vicende tutte ben note ai pochi e veraci amatori: ma vinse pnr finalmente il dovere, e l'amore di essa e del di lei decoro, pili che di me. Onde, bestemmiando e piangendo, non mi scartai punto dalla strada mia. Così sotto il peso gravissimo di questa mia dolorosa vittoria giunsi in Siena dopo dieci mesi in circa di viaggio; e ritrovai nell'amico Oori l'usato mio necessarissimo conforto, onde andarvi pure strascinando la vita, e stancando orami le speranze. > Fin dal 3 aprile di quell'anno cri sfato concluso l'atto di separar!one della Stolberg dal conte d'Alb^ny. 15 - Classici ItaUent. N. 2. 26 Vittorio Alfieri CAPITOLO DECIMOQUARTO Viaggio in Alsazia. Rivedo la Donna mia. Ideate tre nuove tragedie. Morte inaspettata dell'amico Oori in Siena. Erano frattanto giunti in Siena pochi giorni dopo di me i miei quattordici cavalli, e il decimoquinto ve l'avea lasciato io in cu- stodia all'amico; ed era il mio bel falbo S il Fido; quello stesso che in Roma avea più volte portato il dolce peso della donna mia, e che perciò mi era egli solo più caro assai che tutta la nuova brigata. Tutte queste bestie mi tenevano scioperato e diva- gato ad un tempo; aggiuntavi poi la scontentezza di cuore, io andava invano tentando di ripigliare le occupazioni letterarie. Parte di giugno, e tutto luglio chMq. stetti senza muovermi di Siena, mi si consumarono così, senza ch'io facessi altroché qualche rime. Feci anche alcune stanze che mancavano a terminare il terzo canto del poemetto-, e vi cominciai il quarto ed ultimo. Quell'opera, benché lavorata con tante interruzioni, in così lungo tempo, e sempre alla spezzata, e senza ch'io avessi alcun piano scritto, mi stava con tutto ciò assai fortemente fitta nel capo: e l'avvertenza ch'io vi osservava il più, era di non l'allungare di soverchio: il che, se io mi fossi lasciato andare agli episodj o ad altri ornamenti, mi sarebbe riuscito pur troppo facile. Ma a volerla far cosa ori- ginale e frizzante d'un agrodolce terribile, il pregio di cui più abbisognava si era la brevità. Perciò da prima io l'avea ideata di tre soli canti; ma la rassegna dei consiglieri mi avea rubato quasi che un canto; perciò furon quattro. Non sono però ben certo in me stesso, che quei tanti interrompimenti non abbiano influito sul totale del poema, dandogli un non so che di sconnesso^. Mentre io stava dunque tentando di proseguire quel quarto canto, io andava sempre ricevendo e scrivendo gran lettere; queste a poco a poco mi riempirono di speranza, e vieppiù m' in- fiammarono del desiderio di rivederla tra breve. E tanto andò crescendo questa possibilità, che un bel giorno non potendo io più stare a segno, detto al solo amico Oori dove io fossi per andare, e finto di fare una scorsa a Venezia, io mi avviai verso 1 Fulvo, biondo. ' L'Etniria vendicata. * Cfr. Ep. IV, cap. vii. La vita 227 la Germania il dì quattro d'agosto. Giorno, oimè! di sempre amara ricordanza per me. Che mentre io baldo e pieno di gioia mi avviava verso la metà di me stesso, non sapeva io che nel- l'abbracciare quel caro e raro amico, che per sei settimane sole mi credea di lasciarlo, io lo lascerei per l'eternità. Cosa, di cui non posso parlare, né pur pensarci, senza prorompere in pianto, anche molti anni dopo. Ma tacerò di questo pianto, poiché altrove^ quanto meglio il seppi v'ho dato sfogo. Eccomi dunque da capo per viaggio. Per la solita mia dilet- tissima e assai poetica strada di Pistoja a Modena, me ne vo rapidissimamente a Mantova, Trento, Inspruck, e quindi per la Soavia a Colmar, città dell'Alsazia superiore alla sinistra del Reno. Quivi presso ritrovai finalmente quella ch'io andava sempre chiamando e cercando, orbo di lei da più di sedici mesi. Io feci tutto questo cammino in dodici giorni, né mai mi pareva di muo- vermi, per quanto i' corressi. Mi si riaprì in quel viaggio piìi abbondante che mai si fosse la vena delle rime", e chi potea in me più di me mi facea comporre sino a tre e più sonetti quasi ogni giorno; essendo quasi fuor di me dal trasporto di calcare per tutta quella strada le di lei orme stesse, e per tutto infor- mandomi! e rilevando ch'ella vi era passata circa due mesi innanzi. E col cuore alle volte gioioso, mi rivolsi anche al poetare feste- vole; onde scrissi cammin facendo un capitolo al Cori, per dargli le istruzioni necessarie per la custodia degli amati cavalli, che pure non erano in me che la passione terza: troppo mi vergo- gnerei se avessi detto seconda; dovendo, come è di ragione, al Pegaso preceder le Muse. Quel mio lunghetto capitolo, che poi ho collocato fra le rime, fu la prima e quasi che la sola poesia ch'io mai scrivessi in quel genere bernesco, di cui, ancorché non sia quello al quale ìa na- tura m'inclini il più, tuttavia pure mi par di sentire tutte le grazie e il lepore. Ma non sempre il sentirle basta ad esprimerle. Ho fatto come ho saputo. Giunto il dì 16 agosto presso la mia donna, due mesi in circa mi vi sfuggirono quasi un baleno. Ritrovatomi coel di bel nuovo interissimo di animo di cuore e di mente, non 1 Nel dialogo La virtù sconosciuta, coi cinque sonetti aggiuntivi; poi in una lettera del 17 settembre nS4 a M. Bianchi e T. Mocenni e nella epigrafe latin» della lipide ch'ei fece porre all'aniico, nella chiesa di S. Oio- vanri in Pantar.eto. * Delle migliori anzi, scritte dall'A. 228 Vittorio Alfieri erano ancora passati quindici giorni dal dì ch'io era ritornato alla vita rivedendola, che quell'istesso io il quale da due anni non avea mai piìi neppure sognato di scrivere oramai altre tra- gedie; quell'io, che anzi, avendo appeso il coturno al Saul, mi era fermamente proposto di non lo spiccare mai più ; mi ritrovai allora, senza accorgermene quasi, ideate per forza altre tre tra- gedie ad un parto: Agide, Sofonisba, Mirra^. Le due prime, mi erano cadute in mente altre volte, e sempre l'avea discacciate; ma questa volta poi mi si erano talmente rifitte nella fantasia, che mi fu forza di gettarne in carta l'abbozzo, credendomi pure e sperando che non le potrei poi distendere. A Mirra non avea pensato mai; ed anzi, essa non meno che Bibli-, e così ogni altro incestuoso amore, mi si erano sempre mostrate come soggetti non tragediabili. Mi capitò alle mani nelle Metamorfosi di Ovidio ^ quella caldissima e veramente divina allocuzione di Mirra alla di lei nutrice, la quale mi fece prorompere in lagrime, e quasi un subitaneo lampo mi destò l'idea di porla in tragedia: e mi parve che toccantissima ed originalissima tragedia potrebbe riuscire, ogni qual volta potesse venir fatto all'autore di maneggiarla in tal modo che lo spettatore scoprisse da sé stesso a poco a poco tutte le orribili tempeste del cuore infuocato ad un tempo e pu- rissimo della più assai infelice che non colpevole Mirra, senza che ella neppure la metà ne accennasse, non confessando quasi a sé medesima, non che ad altra persona nessuna, un sì nefando amore. In somma l'ideai a bella prima, ch'ella dovesse nella mia tragedia operare quelle cose stesse, ch'ella in Ovidio descrive; ma operarle tacendole. Sentii fin da quel punto l'immensa diffi- coltà ch'io incontrerei nel dover far durare questa scabrosissima fluttuazione dell'animo di Mirra per tutti gl'interi cinque atti, senza accidenti accattati d'altrove. E questa difficoltà che allora vieppiù m'infiammò, e quindi poi nello stenderla, verseggiarla, .' stamparla sempre più mi fu sprone a tentare di vincerla, io jttavia dopo averla fatta, la conosco e la temo quant'ella s'è; > V. oltre cap. xvi. * Principessa della Jonia, la quale pose fine col suicidio al violento amore pel fratello Cauno: questo fatto era stato argomento di una tra- gedia del modenese Paolo Emilio Campi (1774), ammirata dallo stesso Voltaire; un'opera in cinque atti del Fleury, musicata dal Lacoste, sul medesimo soggt-tlo, era stata rappresentata a Parigi, al teatro AtW'Opéra, il 6 novembre 1732. » L. X, vv. 300 -^OO. La vita 229 lasciando giudicar poi dagli altri s' io 1' abbia saputa superare nell'intero, od in parte, od in nulla. Questi tre nuovi parti tragici mi raccesero l'amor della gloria, la quale io non desiderava i>er altro fine oramai, se non se per dividerla con chi mi era più caro di essa. Io dunque allora da circa un mese stava passando i miei giorni beati, e occupati, e da nessunissima amarezza sturbati, fuorché dall'anticipato orri- bile pensiero che al più al più fra un altro mesetto era indispen- sabile il separarci di nuovo. Ma, quasi che questo sovrastante timore non fosse bastato egli solo a mescermi infinita amarezza al poco dolce brevissimo ch'io assaporava, la fortuna nemica me ne volle aggiungere una dose non piccola per farmi a caro prezzo scontare quel passeggero sollievo. Lettere di Siena mi portarono nello spazio di otto giorni, prima la nuova della morte del fra- tello minore del mio Cori, e la malattia non indifferente di esso; successivamente le prossime nuove mi portarono pur anche la morie di esso in sei soli giorni di malattia. Se io non mi fossi trovato con la mia donna al ricevere questo colpo sì rapido ed inaspettato, gli effetti del mio giusto dolore sarebbero stati assai più fieri e terribili. Ma l'aver con chi pianger menoma il pianto d'assai. La mia donna conosceva essa pure e moltissimo amava quel mio Francesco Gori; il quale l'anno innanzi, dopo avermi accompagnato, come dissi, a Genova, tornato poi in Toscana erasi quindi portato a Roma quasi a posta per conoscerla, e soggior- natovi alcuni mesi l'aveva continuamente trattata, ed aveala gior- nalmente accompagnata nel visitare i tanti prodotti delle bell'arti di cui egli era caldissimo amatore e sagace conoscitore. Essa perciò nel piangerlo meco non lo pianse soltanto per me, ma anche per se medesima, conoscendone per recente prova tutto il valore. Questa disgrazia turbò oltre modo il rimanente del breve tempo che si stette insieme; ed approssimandosi poi il termine, tanto più amara ed orrìbile ci riusci questa separazione seconda. Ve- nuto il temuto giorno, bisognò obbedire alla sorte ', ed io dovei rientr.ire in ben altre tenebre, rimancodo questa volta disgiunto dalla mia donna senza sapere per quanto, e privo dell'amico colla funesta certezza ch'io l'era per sempre. Ogni passo di quella slessa via, che al venire mi era andato sgombrando il dolore ed Veramente alla necessità di ulvare le apparenze, dovendo la Stolberg .. ;ure in Iialia, 230 Vittorio Alfieri i tetri pensieri, me lì facea raddoppiati ritrovare al ritorno. Vinto dal dolore, poche rime feci, ed un continuo piangere sino a Siena dove mi restituii ai primi di novembre. Alcuni amici dell'amico, che mi amavano di rimbalzo, ed io così loro, mi accrebbero in quei primi giorni smisuratamente il dolore, troppo bene serven- domi nel mio desiderio di sapere ogni particolarità di quel fu- nesto accidente : ed io tremando pur sempre e sfuggendo di udirle, le andava pur domandando. Non tomai più ad alloggio (come ben si può credere) in quella casa del pianto, che anzi non l'ho rivista mai più. Fin da quando io era tornato di Milano l'anno innanzi, io avea accettato dall'ottimo cuor dell'amico un molto gaio e solitario quartierino nella di lui casa, e ci vivevamo come fratelli. Ma il soggiorno di Siena senza il mio Cori, mi si fece imme- diatamente insoffribile. Volli tentare d'indebolirne alquanto il dolore senza punto scemarmene la memoria, col cangiare e luoghi ed oggetti. Mi trasferii perciò nel novembre in Pisa', risolutomi di starvi quell'inverno; ed aspettando che un migliore destino mi restituisse a me stesso; che privo d'ogni pascolo del cuore, veramente non mi potea riputar vivo. CAPITOLO DECIMOQUINTO Soggiorno in Pisa. Scrittovi il Panegirico a Trajano, ed altre cose. La mia donna frattanto era per le Alpi della Savoia rientrata anch'essa in Italia; e per la via di Torino venuta a Genova, quindi a Bologna, in quest'ultima città si propose di passare l'inverno; combinandosi in questo modo per lei di stare negli Stati Pontificii, senza pure rimettersi in Roma nell'usato carcere^. Sotto il pretesto dunque della stagione troppo inoltrata, sendo giunta a Bologna in decembre, non ne partì altrimenti. Eccoci dunque, io in Pisa, ed essa in Bologna, col solo Appennino di mezzo, per quasi cinque mesi, di nuovo disgiunti e pur vicinis- simi. Questo m'era ad un tempo stesso una consolazione e un martirio: ne riceveva le nuove freschissime ogni tre o quattro giorni ; e non potea pure né doveva in niun modo tentar di ve- > Nel palazzo Prini, in vìa S. Maria. » Il palazzo della Cancelleria ove abitava il cognato cardinale. La vita 231 derla; atteso il gran pettegolezzo delle città piccole d'Italia, dove chi nulla nulla' esce dal volgo, è sempre minutamente osservato dai molti oziosi e maligni. Io mi passai dunque in Pisa quel lun- ghissimo inverno, col solo sollievo delle di lei spessissime let- tere, e perdendo al solito il mio tempo fra i molti cavalli, e quasi nulla servendomi dei pochi ma fidi miei libri. Sforzato pure dalla noja, e nell'ore che cavalcare ed aurigare non si poteva, tanto e tanto qualcosa andava pur leggicchiando, massime la mattina in letto, appena sveglio. In queste semiletture avea scorse le lettere di Plinio il Minore', e molto mi avean dilettato sì per la loro ele- ganza, sì per le molte notizie su le cose e costumi romani che vi si imparano; oltre poi il purissimo animo, e la bella ed ama- bile indole che vi va sviluppando l'autore. Finite l'epistole, im- presi di leggere il panegirico a Traiano, opera che mi era nota per fama, ma di cui non^avea mai letto parola. Inoltratomi per alcune pagine, e non vi ritrovando quell'uomo stesso dell'epistole, e molto meno un amico di Tacito', qual egli si professava, io sentii nel mio intimo un certo tal modo d' indegnazione; e tosto, but- tato là il libro * saltai a sedere sul letto, dov' io giaceva nel leg- gere ; ed impugnata con ira la penna, ad alta voce gridando dissi a me stesso: < Plinio mio, se tu eri davvero e l'amico, e l'emulo, € e l'ammiratore di Tacito, ecco come avresti dovuto parlare a « Trajano ». E senza più aspettar, né riflettere, scrissi d'impeto, quasi forsennato, cosi come la penna buttava, circa quattro gran pagine del mio minutissimo scritto; finché stanco, e disebriato* dallo sfogo delle versate parole, lasciai di scrivere, e quel giorno non vi pensai più. La mattina dopo, ripigliato il mio Plinio, o per dir meglio, quel Plinio che tanto n^i era scaduto di grazia nel giorno innanzi, volli continuar di leggere il di lui panegi- rico. Alcune poche pagine più, facendomi gran forza, ne lessi; poi non mi fu possibile di proseguire. Allora volli un po' rileg- gere quello squarcione del mio panegirico, ch'io avea scritto deli- rando la mattina innanzi. Lettolo, e piaciutomi, e rinfiammato i Alquanto. < Plinio il Olovane, nipote del naturalista Plinio il Vecchio, le cui let- tere sono importante documento per la storia dei tempi suoi. * Lo storico latino che, pur sotto l'impero, esaltò le antiche viriti civiche romane. * Il Panegirico di Trajano non è se non un esempio di ampollosa rcttorìca. * Calmata 232 Vittorio Alfieri più di prima, d'una burla ne feci, o credei farne, una cosa seris- sima; e distribuito e diviso alla meglio il mio tema, senza più pigliar fiato, scrivendone ogni mattina quanto ne potevan gli occhi, che dopo un par d'ore di entusiastico lavoro non mi fanno più luce; e pensandovi poi e ruminandone tutto l'intero giorno, come sempre mi accade allorché non so chi mi dà questa febbre del concepire e comporre ; me lo trovai tutto steso nella quinta mattina, dal dì 13 al 17 di marzo ; e con pochissima varietà, tol- tone l'opera della lima, da quello che va dattorno stampato'. Codesto lavoro mi avea riacceso l'intelletto, ed una qualche tregua avea pur anche data ai miei tanti dolori. Ed allora mi convinsi per esperienza, che a voler tollerare quelle mie angustie d'animo, ed aspettarne il fine senza soccombere, mi era più che necessario di farmi forza, e costringer la mente ad un qualche lavoro. Ma siccome la mente mia, più lib«ra e più indipendente di me, non mi vuQle a niun conto obbedire; tal che, se io mi fossi proposto, prima di leggere il Plinio, di voler fare un pane- gu-ico a Trajano, non avrebbe essa forse voluto raccozzar due idee; per ingannare ad un tempo e il dolore e la mente, trovai il compenso di violentarmi in una qualche opera di pazienza, e di schiena come si suol dire. Perciò tornatomi fra mani quel Sal- lustio che circa dieci anni prima avea tradotto in Torino per sem- plice studio, lo feci ricopiare col testo accanto, e mi posi seria- mente a correggerlo, coli' intenzione e speranza ch'egli riuscisse una cosa. Ma neppure per questo pacifico lavoro io sentiva il mio animo capace di continua e tranquilla applicazione ; onde non lo migliorai di gran fatto : anzi mi avvidi, che nel bollore e deliri d'un cuore preoccupato e scontento, riesce forse più pos- sibile il concepire e creare una cosa breve e focosa, che non il freddamente limare una cosa già fatta. La lima è un tedio, onde facilmente si pensa ad altro, adoprandola. La creazione una febbre; durante l'eccesso, non si sente altro che lei. Lasciato dunque il Sallustio a tempi più lieti, mi rivolsi a continuar quella prosa del Principe e delle Lettere, da me ideata, e distribuita" più anni prima in Firenze. Ne scrissi allora tutto il primo libro, e due o tre capitoli del secondo. » Nel Panegirico, pubblicato prima nel 1787, i'A. finge che Plinio esorti Trajano a ristabilire la repubblica. * In capitoli ; cfr, Ep. IV, cap. vii, La vita 233 Fin dall'estate antecedente, al mio tornare d' Inghilterra in Siena, io aveva pubblicato il terzo volume delle tragedie ^ e mandatolo, come a molti altri valentuomini d' Italia, anche all'egregio Cesa- rotti, pregandolo di darmi un qualche lume sovra il mio stile e composizione e condotta. Ne ricevei in quell'aprile una lettela critica su le tre tragedie del terzo volume, alla quale risposi al- lora brevemente, ringraziandolo, e notando le cose che mi pareano da potersi ribattere ; e ripregandolo di indicarmi o darmi egli un qualche modello di verso tragico. È da notarsi su ciò, che quello stesso Cesarotti, il quale aveva concepiti ed eseguiti con tanta maestria i sublimi versi dell'Oss/an, essendo stato richiesto da me, quasi due anni prima, di volermi indicare un qualche modello di verso sciolto di dialogo, egli non si vergognò di parlarmi d'al- cune sue traduzioni dal francese, della Semiramide e del Mao- metto di Voltaire'; stampate giada molti anni; e di tacitamente propormele per modello. Queste traduzioni del Cesarotti essendo in mano di chiunque le vorrà leggere, non occorre ch'io aggiunga riflessioni su questo particolare: ognuno se ne può far giudice e paragonare quei versi tragici con i miei ; e paragonarli anche con i versi epici dello stesso Cesarotti ntWOssian, e vedere se paiano della stessa officina. Ma questo fatto servirà pure a dimo- strare quanto miserabil cosa siamo noi tutti uomini, e noi autori massimamente, che sempre abbiam fra le mani e tavolozza e pen- nello per dipingere altrui, ma non mai lo specchio per ben rimi- rarci noi stessi e conoscerci. 11 giornalista di Pisa' dovendo poi dare o inserire nel suo gior- nale un giudizio critico su quel mio terzo tomo delle tragedie, stimò più breve e più facil cosa il trascrivere a dirittura quella let- tera del Cesarotti, con le mie note che le servono di risposta. Io mi trattenni in Pisa sino a lutto l'agosto di quell'anno 1785; e non vi feci più nulla da quelle prose in poi, fuorché far rico- piare le dieci tragedie stampate, ed apporvi in margine molte mutazioni, che allora mi parvero soverchie; ma quando poi venni a ristamparle in Parigi, elle mi vi parvero più che insufficienti, e bisognò per lo meno quadruplicarle. Nel maggio di quell'anno godei in Pisa del divertimento del giuoco del Ponte \ spettacolo « Cfr. Ep. IV. c«p. x«. * Cfr. Ep. IV, cap. vir. • Il compilatore del Oiornalt del letterati à\ Pisa nel t. LVIII, pp. 254-76. » Il giuoco liti ponte brevemente descritto dall'A. alla madre, in una 234 Vittorio Alfieri bellissimo, che riunisce un non so che di antico e d'eroico. Vi si aggiunse anco un'altra festa bellissima d'un altro genere, la luminara di tutta la detta città, come si costuma ogni due anni per la festa di San Ranieri». Queste feste si fecero allora riuni- tamente, all'occasione della venuta del re e della regina di Na- poli in Toscana per visitarvi il gran duca Leopoldo, cognato del suddetto re. La mia vanaglorietta in quelle feste rimase bastan- temente soddisfatta, essendomi io fatto molto osservare a cagione de' miei be' cavalli inglesi, che vincevano in mole, bellezza e brio quanti altri mai cavalli vi fossero capitati in codest'occasione. Ma in mezzo a quel mio fallace e pueril godimento, mi convinsi con sommo dolore ad un tempo stesso, che nella fetida e morta Italia ella era assai più facil cosa il farsi additare per via di cavalli, che non per via di tragedie. CAPITOLO DECIMOSESTO Secondo viaggio in Alsazia, dove mi fisso. Ideativi, e stesi i due Bruti, e l'Abele. Studj caldamente ripigliati. In questo frattempo era ripartita di Bologna la mia donna, ed avviatasi verso Parigi nel mese di aprile. Non volendo essa tornare a Roma, in nessun altro luogo ella potea più convenien- temente fissarsi che in Francia, dove avea parenti, aderenze, e interessi. Trattenutasi in Parigi sino all'agosto inoltrato, ella ri- tornò in Alsazia in quella stessa villa dove e' eramo incontrati l'anno innanzi''. Onde io ai primi di settembre con infinita gioia e premura mi vi avviai perla solita strada dell'Alpi Tirolesi. Ma l'aver perduto l'amico di Siena, e l'essersi oramai la mia donna traspiantata fuori d' Italia, mi fece anche risolvere di non dimo- rarci più neppur io. E benché per allora né volessi, né conve- nisse eh' io mi fissassi a dimora dove ella, io cercai pure di starle il meno lontano ch'io potessi, e di toglierci almeno l'Alpi di lettera del 22 aprile 1785, consisteva in una finta battaglia sul Ponte di Mezzo, tra circa 400 uomini armati « all'antica »; v. F. Fkrrari, Ricerche bibliografiche sul Giuoco del Ponte, Pisa, IS'^S; L. Torri, // Giuoco del Ponte, in Empori iim, Bergamo, dicembre 1900; V. Gian, Alfieri Pisa, cit. ' Patrono di Pisa. ^-11 castello di Martinsburg pres^so (Ailm.'.r. La vita 235 mezzo. Feci dunque muovere anche tutta la mia cavalleria, che sana e salva arrivò un mese dopo di me in Alsazia, dove allora ebbi raccolto ogni mia cosa, fuorché i libri, che 1 più gli avea lasciati in Roma. Ma la mia felicità derivata da questa seconda riunione non durò né potea durare altro che due mesi in circa, dovendosi la mia donna restituire in Parigi nell'inverno. Nel decembre l'accompagnai sino a Strasborgo, dove con mio sommo dolore costretto di lasciarla me ne separai per la terza volta; ella continuò la sua strada per Parigi, io ritornai nella nostra villa. Ancorché io fossi scontento, pure la mia afflizione riusciva ora assai minore della passata: trovandoci più vicini, potendo senza ostacolo, senza pericolo di nuocerle dare una scorsa per vederla, ed avendo in somma fra noi la certezza di rivederci nella p^-ossima estate. Tutte queste speranze mi posero un tal balsamo in corpo, e mi rischiarirono talmente l'intelletto, che di bel nuovo intieramente mi diedi in braccio alle Muse. In quel solo inverno, nella quiete e libertà della villa, feci assai più lavoro che non avessi fatto mai in così breve spazio di tempo : cotanto la con- tinuità del pensare ad una stessa cosa, e il non aver divagazioni né dispiaceri, abbreviandoci l'ore ad un tempo ce le moltiplica. Appena tornato nel mio ritiro, da prima finii di stendere VAgide, che fin dal decembre precedente avea cominciato in Pisa; poi infastidito del lavoro (cosa che non mi accadeva mai nel creare) • m lo avea più potuto proseguire. Finitolo ora felicemente, nza pigliar più respiro stesi in quello stesso decembre h So- •nisba e la Mirra. Quindi in gennaio finii interamente di sten- ore il secondo e terzo libro del Principe e delle Lettere; ideai e stesi il dialogo della Virtù sconosciuta; tributo che da gran tempo mi rimproverava di non aver pagato alia adorata memoria del degnissimo amico Oori; e ideai inoltre, e distesi tutta, e ver- seggiai la parte lirica AeW Abele tramelogedia' ; genere di cui mi occorrerà di parlare in appresso, se avrò vita e mente e mezzi da effettuare quanto mi propongo di eseguire. Postomi quindi al ir versi non abbandonai più quel mio poemetto ch'io nonl'a- essi interamente terminato col quarto canto; e quindi dettati, ricorretti, e rìannestati insieme i tre altri, che nello spazio di ' Vocabolo coniato dall'A., ad indicare un genere nuovo composto di tragico e di lirico, una tragedia melica, cioè parte cantabile e parte reci- tabile. Cfr. A. Oraf, Caino^ in Nuova, Antologia, 1907; e cap. XX di questa Vita. 236 Vittorio Alfieri dieci anni essendo stati scritti a pezzi, aveano (e forse tuttora serbano) un non so che di sconnesso; il che tra i miei molli difetti non suole però avvenirmi nelle altre composizioni. Appena era finito il poema, mi accadde che in una delle tante e sempre a me graditissime lettere della mia donna, essa come a caso mi accennava di aver assistito in teatro ad una recita del Bruto di Voltaire, e che codesta tragedia le era sommamente piaciuta. Io, che l'avea veduta recitare forse dieci anni prima, e che non me ne ricordavo pUnto, riempiutomi instantaneamente di una rabida e disdegnosa emulazione sì il cor che la mente, dissi fra me : che Bruti, che Bruti di un Voltaire? io ne farò dei Bruti, e li farò tutt'a due: il tempo dimostrerà poi, se tali soggetti di tragedia si addicessero meglio a me, o ad un francese nato plebeo, e sotto- scrittosi nelle sue firme per Io spazio di settanta e più anni: Voltaire gentiluomo ordinario del re^. Né altro dissi; né di questo toccai pur parola nel rispondere alla mia donna : ma subitamente d'un lampo ideai ad un parto i due Bruti, quali poi li ho ese- guiti. In questo modo uscii per la terza volta dal mio proposito di non far piìi tragedie; e da dodici ch'essere doveano, son ar- rivate a diciannove. Su l' ultimo Bruto rinnovai poi il giuramento ad Apolline più solenne ch'io non l'avessi fatto mai, e questo io son quasi certo di non l'aver più ad infrangere*. Gli anni che mi si vanno ammontando sul tergo me n'entrano quasi malle- vadori; e le tante altre cose di altro genere che mi restan da fare, se pure farle potrò e saprò. Dopo aver passati cinque e più mesi in villa in un continuo bollore di mente, poiché appena sveglio la mattina per tempis- simo io scriveva cinque o sei pagine alla mia donna; poi lavo- rava fino alle due o le tre dopo mezzogiorno ; poi andando o a cavallo, o in biroccio per un par d'ore, invece di divagarmi e riposarmi, pel continuo pensare ora a quel verso, ora a quel per- sonaggio, or ad altro, mi affaticava assai più l'intelletto che non lo sollevassi; mi ritrovai perciò nell'aprile una fierissima podagra a ridosso, la quale m'inchiodò per la prima volta in letto, e mi vi tenne immobile e addoloratissimo per quindici giorni almeno, e pose così una spiacevole interruzione ai miei studi sì calda- mente avviati. Ma troppo avea impreso, di vivere solitario e oc- cupato, né ci avrei potuto resistere senza i cavalli che tanto mi » V. dell'A., la satira VII, VAntlrelìgìonerla, * Cfr. cap. XXVI, La vita 237 sforzavano a pigliar l'aria aperta, e far moto. Ma anche coi ca- valli, non la potei durare quella perpetua incessante tensione delle fibre del cervello ; e se la gotta, piìi savia di me, non mi vi facea dar tregua, avrei finito o col delirar d'intelletto, o col soccombere delle forze fisiche, sendomi ridotto a quasi nulla ci- barmi, e pochissimo dormire. Nel maggio tuttavia, mercè la gran dieta, e il riposo, mi trovai bastantemente riavuto di forze: ma alcune sue circostanze particolari avendo impedito per allora la mia donna di venire in villa, e dovendo differire la consolazione unica per me, del vederla; entrai in un turbamento di spirito, che mi offuscò per piii di tre mesi la mente, talché poco e male lavorai, fino al fin d'agosto, quando al riapparire dell'aspettata donna tutti questi miei mali di accesa e scontenta fantasia sparirono. Appena riavutomi di mente e di corpo, dati all'oblio i dolori di questa lontananza, che per mia buona sorie fu l'ultima, tosto mi rimisi al lavoro con ardore e furore. A segno che verso il mezzo decembre, che si partì poi insieme per Parigi, io mi trovai aver verseggiate V Agide, la Sofonisba, e la Mirra; mi trovai 'stesi i due Bruti; e scritta la prima Satira. Questo nuovo genere, di cui avea già ideato e distribuiti i soggetti fin da nove anni prima in Firenze\ l'aveva anche tentato allora in esecuzione; ma scarso ancora troppo di lingua e di padronanza di rima, mi ci era rotto le corna; talché, dubbio del potervi riuscire quanto allo stile e verseggiatura, ne avea quasi deposto il pensiere. Ma il raggio vivificante della donna mia, mi ebbe allora restituito l'ar- dire e baldanza necessari da ciò ; e postomi al tentativo, mi vi parve esser riuscito, a principiare almeno l'aringo, se non a percorrerlo. E così pure, avendo prima di partir per Parigi fatta una rassegna delle mie rime, e dettate e limate gran parte, me ne trovai in buon numero, e forse troppe. CAPITOLO DECIMOSETTIMO Viaggio a Parigi. Ritorno in Alsazia, dopo aver fissato col Didot in Parigi la stampa di tutte le diciannove tragedie. Malattia ferissima in Alsazia, dove l'amico Caluso era venuto per passare l'estate con noi. Dopo quattordici e più mesi non interrotti di soggiorno in Alsazia, partii insieme con la signora alla volta di Parigi; luogo a me per natura sua e mia sempre spiacevolissimo, ma che mi si « Cfr. Fabbis Stadi alfifriani, Firenze, 1895, p. 46 sgg.; O. Mazza- II'. TI, Carte al/'eriane dt., in Gior. stor. d. lett. ital., Ili, p. 38 igg. 238 Vittorio Alfieri facea allor paradiso poiché lo abitava la mia donna. Tuttavia, essendo incerto se vi rimarrei lungamente, lasciai gli amati ca- valli nella villa di Alsazia, e munito soltanto di alcuni libri, e di tutti i miei scritti, mi ritrovai in Parigi. Alla prima, il rumore e la puzza di quel caos dopo una si lunga villeggiatura, mi rat- tristarono assai. La combinazione poi del ritrovarmi alloggiato assai lontano dalla mia donna, oltre mill'altre cose che di quella Babilonia mi dispiaceano sommamente, mi avrebbero fatto ripar- tirne ben tosto se io avessi vissuto in me stesso e per me : ma ciò non essendo da tanti anni oramai, con molta malinconia rrl adattai alla necessità; e cercai di cavarne almeno qualche utile coli' impararvi qualche cosa. Ma quanto all' arte del verseggiare non v'essendo in Parigi nessuno dei letterati che intenda più che mediocremente la lingua nostra, non e' era niente da impa- rarvi per me : quanto poi all'arte drammatica in massa, ancorché i Francesi vi si accordino essi stessi esclusivamente il primato, tuttavia i miei principi! non essendo gli stessi che han praticato i loro autori tragici, molta e troppa flemma mi ci volea per sen- tirmi dettare magistralmente continue sentenze, di cui molte vere', ma assai male eseguite da essi. Pure, essendo il mio metodo di poco contradire, e non mai disputare, e moltissimo e tutti ascol- tare, e non credere poi quasiché mai in nessuno ; io tanto e tanto imparava da quei ciarlieri la sublime arte del tacere. Quel primo soggiorno, di sei e più mesi in Parigi, mi giovò, se non altro, alla salute moltissimo. Prima del mezzo giugno si riparti per la villa d'Alsazia. Ma intanto stando in Parigi aveva verseggiato il Bruto primo, e per un accidente assai comico mi era toccato di rimpasticciare tutta intera la Sofonisba. La volli leggere ad un francese già mio conoscente in Torino, dove aveva soggiornato degli anni ; persona intelligente di cose drammatiche ; e che più anni prima mi avea ben consigliato sul Filippo, quando glie lo aveva letto in prosa francese, di trasporvi il consiglio dal quarto atto dov'era, nel terzo dove poi è rimasto, e dove nuoce assai meno alia progressione dell'azione, di quel che dianzi nuo- ceva nel quarto. Sicché leggendo io quella Sofonisba ad un giu- dice competente", mi immedesimava in lui quant'io più poteva, per argomentare dal di lui contegno più che dai di lui detti, > Specialmente quelle del Voltaire, accolte dall'A. » Ippolito Pindctnonte; cfr. B. Montanari, Storia della vita e delle opere di l. P., nelle Opere del Montanari, voi. V e VI, Verona, Antonelli, 1855. La vita 239 qual fosse il suo schietto parere. Egli mi stava ascoltando senza batter palpebra ; ma io, che altresì mi stava ascoltando per due, incominciai da mezzo il second' atto a sentirmi assalire da una certa freddezza, che talmente mi andò crescendo nel terzo ch'io non lo potei pur finire; e preso da un impeto irresistibile la bultai sul fuoco, che stavamo al camminetto noi due solissimi; e parea che quel fuoco mi fosse come un tacito invito a quella severa e pronta giustizia. L'amico, sorpreso di quell'inaspettata stranezza (stante che io non avea neppur detto una parola fino a quel punto, che l'accennasse neppure), si buttò colle mani su lo scartario per estrarlo dal fuoco, ma io già colle molle che aveva rapidissimamente impugnate, inchiodai sì stizzosamente la povera Sofonisba fra i due o i tre pezzi che ardevano, che le convenne ardere anch'essa; uè abbandonai, da esperto carnefice, le molle, se non se quando la vidi ben avvampante e abbron- zita andarsi sparpagliando su per la gola del camminetto. Questo moto frenetico fu fratello carnale di quello di Madrid contro il povero Elia'; ma ne arrossisco assai meno, e mi riuscì d'un qualche utile. Mi confermai allora nell'opinione ch'io avea più volte concepita su quel soggetto di tragedia; ch'egli era sgra- dito, traditore, appresentante alla prima un falso aspetto tragico, e non lo mantenendo poi saldo: e feci quasi proposito di non vi pensare altrimenti. Ma i propositi d'autore son come gli sdegni materni. Mi ricadde due mesi dopo quell'infelice prosa della giustiziata Sofonisba fra mani, e rilettala, trovandovi pure qualche cosa di buono, la ripigliai a verseggiare, abbreviandola assai, e tentando con lo stile di supplire e mascherare le mende inerenti al soggetto. E benché io sapessi, e sappia, ch'ella non era né sarebbe mai tragedia di prim' ordine, non ebbi con tutto ciò il coraggio di porla da parte, perché era il solo soggetto in cui si potessero opportunamente sviluppare gli alti sensi delle sublimi Cartagine e Roma. Onde di varie scene di quella debole tragedia, io mi pregio non poco. Ma la totalità delle mie tragedie parendomi a quell'epoca es- sersi fatta oramai cosa matura per una stampa generale, mi pro- posi allora di voler almeno cavar questo frutto dal mio soggiorno che sarei per fissare d'allora in poi in Parigi, di farne una edi- zione bella, accurata, a bell'agio, senza risparmio nessuno né di ' Ep. IH, cap. jiii. 240 Vittorio Alfieri spesa, né di fatica. Prima dunque di decidermi per questo o per quello degli stampatori volli fare una prova dei caratteri, e proti, e maneggi tipografici parigini, trattandosi di una lingua fore- stiera. Trovandomi sin dall'anno innanzi dettato 'e corretto il panegirico a Traiano, lo stampai i a quest' effetto, ed essendo cosa breve, in un mesetto fu terminato. E saviamente feci di tentar quella prova, avendo poi cambiato lo stampatore assai in meglio per tutti i versi. Onde, accordatomi con Didot Maggiore «, uomo intendentissimo ed appassionato dell'arte sua, ed oltre ciò accu- rato molto, e sufficientemente esperto della lingua italiana, io cominciai sin dal maggio di quell'anno 1787 a stampare il primo volume delle tragedie. Ma incominciai per impegnare me e lui, più che per altro ; sapendo benissimo, che dovendo io partire nel giugno per trattenermi in Alsazia fino all'inverno, la stampa in quel frattempo non progredirebbe gran fatto; ancorché si prendessero le misure per farmi avere settimanalmente le prove da correggersi in Alsazia, e rimandarsi in Parigi. In questo modo io mi legai da me stesso doppiamente a dover ritornare l'inverno in Parigi; cosa alla quale sentiva ripugnanza ,non poca: volli perciò, che mi vi dovessero costringere parimente e la gloria e e l'amore. Lasciai al Didot il manoscritto delle prose che pre- cedono, e quello delle tre prime tragedie, ch'io stupidamente credei ridotte, limate, e accurate quanto potessero essere; me n'avvidi poi, quando fu posto mano a stamparie, quanto io mi fossi ingannato. Oltre l'amor della quiete, l'amenità della villa, l'essere quivi più lungamente con la mia donna, alloggiato sotto lo stesso tetto ; l'avervi i miei libri, e gli amati cavalli ; tutti questi oggetti erano caldissimi sproni al farmi ritornare con delizia in Alsazia. Ma un'altra ragione vi si aggiunse anche allora, che me ne dovea duplicare il diletto. L'amico Caluso mi aveva insperanzito, ch'egli verrebbe in Alsazia a passar quell'estate con noi ; ed era questi l'ottimo degli uomini da me conosciuti, e l'ultimo amico rima- stomi dopo la morte del Cori. Dopo alcune settimane del nostro arrivo in Alsazia, verso il fin di luglio la mia donna ed io par- timmo dunque espressamente per andare ad incontrare l'amico ' Ep. IV, cap. XV. * Francesco Ambrogio Didof ainé che l'A. dice t Maggiore >, appunto per distinguerlo dal più giovane fratello Pier Francesco. La vita 241 fino a Ginevra ; indi ce ne ritornammo con esso per tutta la Sviz- zera sino alla nostra villa presso a Colmar; dove ebbi allora riunite tutte le mie più care cose. Il primo discorso eh' io ebbi a tener con l'amico, fu, oltre ogni mia espettazione, di affari domestici. Egli avea avuto dalla mia ottima madre un'incom- bensa^ assai strana, visto l'età mia, le occupazioni, e il pensare mio. Quest'era una proposizione di matrimonio. Egli me la fece ridendo ; ed io pure ridendo gliela negai ; e si combinò la risposta da farsi alla mia amorosissima madre, che ci scusasse, ambedue. Ma per dare un saggio dell'affetto e semplice costume di quella rispettabil donna, porrò qui in fondo di pagina la di lei lettera su questo soggetto*. Finito il trattato del matrimonio, ci sfogammo reciprocamente il cuore l'amico ed lo coi discorsi delle amatissime lettere, k» mi sentiva veramente necessità di conversare sull'arte, di parlar ' italiano', e di cose italiane; tutte privazioni che da due anni mi si faceano sentire non poco ; e ciò con assai glande mio scapito, nel- l'arte principalmente del verseggiare. E certo, se questi ultimi famosi uomini francesi, come Voltaire e Rousseau, avessero do- vuto gran parte della loro vita andarsene erranti in diversi paesi in cui la loro lingua fosse stata ignota o negletta, e non aves- sero neppur trovato con chi parlarla, essi non avrebbero forse avuto la imperturbabilità e la tenace costanza di scrivere per semplice amor dell'arte e per mero sfogo, come faceva io, ed ho fatto poi per tanti anni consecutivi, costretto dalle circostanze di vivere e conversare sempre con barbari: che tale si può fran- camente denominare tutta l'Europa da noi, quanto alla lettera- tura italiana; come lo è pur troppo tuttavia, e non poco, una gran parte della stessa Italia, sui nescia. Che se si vuole anche per gli Italiani scrivere egregiamente, e che si tentino versi ^n cui spiri l'arte del Petrarca e di Dante, chi oramai in Italia, chi è che veramente e legga ed intenda e gusti e vivamente senta Dante e il Petrarca? uno in mille, a dir molto. Con tutto ciò, io immobile nella persuasione del vero e del bello, antepongo d'assai (ed afferro ogni occasione di far tal protesta), di gran lunga antepongo di scrivere in una lingua quasi che morta, e per un popolo morto, e di vedermi anche sepolto prima di mo- I Incombenza. « V. Appendice. • Perchè la Stolbergion parlava italiano, o malistirao almeno ; cfr. Ep. IV, ctp. VI. 16. — aattlei Italia/U. N. 2. 242 Vittorio Alfieri rire, allo scrivere in codeste lingue sorde e mute, francese ed inglese, ancorché dai loro cannoni ed eserciti elle si vadano po- nendo in moda. Piuttosto versi italiani (purché ben torniti), i quali rimangano per ora ignorati, non intesi, o scherniti; che non versi francesi mai, od inglesi, o d'altro simil gergo prepo- tente, quando anche ne dovessi immediatamente esser letto, ap- plaudito, ed ammirato da tutti. Troppa é la differenza dal suonare la nobile e soave arpa ai propri orecchi, ancorché nessuno ti ascolti, al suonare la vii cornamusa, ancorché un volgo intero di orecchiuti ascoltanti ti faccia pur plauso solenne. Torno all'amico, con cui di questi e simili sfoghi mi occor- reva spesso di fare, il che mi riusciva di sommo sollievo. Ma poco durò quella mia nuova ed intera felicità, di passare quei beati giorni tra così amate e degne persone. Un accidente oc- corso all'amico venne a sturbare la nostra quiete. Cavalcando egli meco fece una caduta, in cui si slogò il pugno. Da prima credei rotto il braccio, e anche peggio; onde me ne rimescolai fortemente; e tosto al di lui male si aggiunse il mio proprio, ma di gran lunga maggiore. Mi assalì due giorni dopo una dis- senteria ferocissima, che andò sì ostinatamente crescendo, che al decimoquinto giorno, non essendo più entrato nel mio sto- maco altro che acqua gelata, e le pestilenziali evacuazioni oltre- passando il numero di 80 nelle 24 ore, mi ritrovai ridotto presso che in fine, senza pure aver quasi punto febbre. La mancanza del calor naturale era tale, che certe fomente di vino aromatiz- zato che mi si facevano su lo stomaco e ventricolo per rendere una qualche attività a quelle parti spossate, ancor che esse fo- mente fossero bollenti a segno che i famigliari nel maneggiarle vi si pelassero le mani, ed io il corpo nell 'applicarmele, con tutto ciò le mi parean sempre pochissimo calde, e d'altro non mi do- leva che della loro freddezza. Non v'era piìi vita nel mio indi- viduo, altro che nel capo, il quale indebolito sì, ma chiarissimo rimanevamo Dopo i quindici giorni il male allentò, e adagio adagio retrocedendo, verso il trentesimo giorno le evacuazioni erano però ancora oltre 20 nelle 24 ore. Mi trovai finalmente libero dopo sei settimane, ma inscheletrito e annichilato in tal modo, che per altre quattro settimane in circa, quando mi si dovea rifar il letto, mi levavano di peso per traspormi in un altro finché fossi riportato nel primo. Io veramente non credei di poterla superare. Doleami assai di morire, lasciando la mia La vita 243 donna, l'amico, ed appena per così dire abbozzata quella gloria, per coi da dieci e piìi anni io aveva tanto delirato, e sudato : che io benissimo sentiva che di tutti quegli scritti ch'io lascerei in quel punto, nessuno era fatto e finito come mi parea di poterlo fare e finire, avendone il dovuto tempo. Mi confortava per altra parte non poco, giacché morir pur dovea, di morire almen li- bero, e fra le due più amate persone ch'io m'avessi, di culmi pareva d'avere e di meritare l'amore e la stima; e di morii final- mente innanzi di aver provato tanti altri mali sì fisici che morali, a cui si va incontro invecchiando. Io aveva communicato all'amico tutte le mie intenzioni circa alla stampa già avviata delle tra- gedie, e le avrebbe fatte continuare egli in mia vece. Mi sono poi ben convinto in appresso, quando io fui all'atto pratico di quella stampa che durò poi quasi tre anni, che atteso l'assiduo, e lunghissimo, e tediosissimo lavoro che mi vi convenne di farvi sopra le prove, se poco era il fatto sino a quel punto, ove fossi mancato io, quello che lasciava sarebbe veramente stato un nulla, ed ogni fatica precedente a quella dello stampare era intera- mente perduta, se quest'ultima non sopravveniva per convali- darla. Cotanto il colorito e la lima si fanno parte assolutamente iotegrante d'ogni qualunque poesia. Piacque al destino, ch'io la scampassi per allora, e che le mie tragedie ricevessero da me poi quel compimento ch'io era in grado di dar loro ; e di cui forse (s' elle hanno gratitudiney po- tranno contraccambiarmi col tempo, non lasciando totalmente perire il mio nome. Guarii, come dissi, ma a stento ; e rimasi così indebolito anche della mente, che tutte le prove delle tre prime tragedie, che suc- cessivamente nello spazio di circa quattro mesi in quell'anno mi passarono sotto gli occhi, non ricevettero da me né la decima parte delle emendazioni ch'avrei dovuto farvi. Il che fu poi in gran parte cagione, che due anni dopo, finito di stamparle tutte, ricominciai da capo a ristampar quelle prime tre'; a solo fine di soddisfare all'arte e a me stesso; e forse a me solo; che pochis- simi al certo vorranno o sapranno badare alle mutazioni fattevi quanto allo stile; le quali, ciascuna per sé sono inezie; tutte itisieme, son molte e importanti, se non per ora, col tempo*. I La stampa d«l 1787 venne soppressa, ed è ora rarissima. Se ne ha però qualche esemplare con le correzioni fattevi dalt'A. per la ristampa [B.\. * Tanta era l' importanza che egli annetteva al lavoro di lima. 244 Vittorio Alfieri APPENDICE LETTERA DELLA MADRE DELL'AUTORE Carissimo, ed amatissimo figlio. Li 8 corrente scrissi al Sig. Abate di Caluso acciò vi facesse una pro- posizione di matrimonio awantaggioso, che vi si offre con una figlia di famiglia distintissima per padre e madre, ed ereditaria della maggior parte del bene paterno ; il qual padre, per essere stato molto amico del vostro, desidererebbe di dare a voi la sua figlia a preferenza di alcun altro, per il desiderio di far rivivere la casa Alfieri in questa città. Vi ho fatto fare questa proposizione per mezzo del vostro amico, sperando che egli forse avrebbe avuto il dono di persuadervi; ed anche, acciò con lui foste più in libertà, senza timore di contristarmi, di dare il vostro sentimento poiché Dìo sa quanto vi amo, e se io potessi mai idearmi niente in questo mondo di mia maggior consolazione e conforto, che di rivedervi e ristabilito in paese e nella stessa vostra città; ma pure non vorrei contribuire ad una vostra tal risoluzione che non fosse di vostro genio o di vostra conve- nienza, perchè io ci son più per poco in questo mondo; e però non vi è da aver riguardo a me per un tal vincolo. Però sto aspettando la vostra definitiva determinazione per dare la risposta a chi si interessa per la Damigella, e spero di averla o da voi medesimo, o per mezzo del Signor Abate di Caluso, al quale vi prego di porgere li miei complimenti. Mio marito vi saluta caramente. Ed abbracciandovi con tutto l'affetto, sono Vostra affezionatissima Madre. Asti, 22 agosto 1787. Essendo io per natura poco curioso, non ho mai poi ricercato, né saputo, né indovinato chi potesse essere questa mia destinata sposa : né credo che l'amico lo sapesse egli stesso : non glielo domandai, né mostrò di saperlo. La vita 245 CAPITOLO DECIMOTTAVO Soggiorno di tre e più anni in Parigi. Stampa di tutte le tragedie. Stampa nel tempo stesso di molte altre opere in Kehl. Appena io cominciava alquanto a riavermi, che l'amico (an- ch'egli molto prima guarito della slogatura del pugno), avendo delle occupazioni letterarie in Torino, dove era segretario del- l'Accademia delle scienze', volle far una scorsa a Strasborgo prima di ripartir per l'Italia. Io, benché ancora infermiccio, per goder più lungamente di lui ce lo volli accompagnare. Ed anche la signora ci venne, e fu nell'ottobre. Si andò fra l'altre cose a vedere la famosa tipografia stabilita in Kehl grandiosamente dal signor di Beaumarchais, coi caratteri di Baskerville comprati da esso', e destinato il tutto alle molte e varie edizioni di tutte le opere di Voltaire. La bellezza di quei caratteri, la diligenza degli artefici, e l'opportunità che mi somministrava l'essere io molto conoscente del suddetto Beaumarchais dimorante in Parigi, mi invogliarono di prevalermene per colà stampare tutte l'altre mie opere che tragedie non erano; ed alle quali avrebbero potuto essere d'intoppo le solite stitichezze censorie, le quali esistevano allora anche in Francia, e non picciole. Sempre ha ripugnato moltissimo all'indole mia di dover subire revisione per poi stam- pare. Non già ch'io creda, né voglia, che s'abbia a stampare ogni cosa: ma per me ho adottata nell'intero la legge d'Inghil- terra, ed a quella mi attengo; né fo mai nessuno scritto, che non potesse liberissimamente e senza biasimo nessuno dell'autore es- sere stampato nella beata e veramente sola libera Inghilterra. Opi- nioni, quante se ne vuole: individui offesi, nessuni: costumi, rispettati sempre. Queste sono state, e saranno sempre le sole mie leggi; né altre se ne può ragionevolmente ammettere, né rispettare. > Prese tal nome nel 1783, ma la sua esistenza risale ad un quarto di •ccolo prima, avendo essa origine dalla società scientifica costituita, in casa del conte Cesare Satuzzo, dal Lagrange e dal Cigna. * Pietro Agostino Caron de Beaumarchais (1732-99), autore del Bar- biere di Siviglia (1784), il prologo drammatico della rivoluzione, aveva aperto a Kehl, nel Baden, la tipografia di cui parla l'A., per farne uno strumento di propaganda politica e sociale, dopo aver acquistato nel 1779 il materiale di Giovanni Baskerville (1716-75), celebre tipografo inglese, incisore e fonditore di caratteri di notevole bellezza. 246 Vittorio Alfieri Ottenuta io dunque direttamente dal Beaumarchais di Parigi la permissione di prevalermi in Kehl della di lui ammirabile stam- peria, con quell'occasione d'esservi capitato io stesso, lasciai a que' suoi ministri il manoscritto delle mie cinque Odi, che inti- tolate avea U America Libera, affine che quest'operetta mi ser- visse come di saggio. Ed in fatti ne riuscì così bella e corretta la stampa, ch'io poi per due e più anni consecutivi vi andai suc- cessivamente stampando tutte quelle altre opere, che si son viste o che si vedranno. E le prove me ne venivano settimanalmente spedite a rivedere in Parigi; ed io continuamente andava sempre mutando e rimutando i bei versi interi ; a ciò invitandomi, oltre la smisurata voglia del far meglio, anche la singoiar compia- cenza e docilità di quei proti di Kehl, dei quali non mai abba- stanza mi potrei lodare; diversissimi in ciò dai proti, compo- sitori, e torcolieri del Didot in Parigi, che mi hanno sì lunga- mente fatto fare il sangue verde, e cotanto mi hanno taglieggiato nella borsa, facendomi a peso d'oro arbitrariamente ricomprare ogni mutazion di parola ch'io facessi: tal che se si vuole tal- volta nella vita ottenere ricompensa dell'emendarsi, io ho do- vuto all'incontro pagare per emendare i miei spropositi, o per barattarli. Si tornò d'Argentina' nella villa di Colmar, e pochi giorni dopo, verso il finir d'ottobre, l'amico se ne partì per Torino, lascian- domi sempre più desiderio di sé, e della sua dotta e piacevole compagnia. Si stette ancora tutto il novembre, e parte del de- cembre in villa, nel qual tempo mi andai rimettendo adagino della grande scossa avuta negli intestini ; e così mezzo impotente tanto verseggiai alla meglio, o alla peggio, il Bruto Secondo, che dovea esser l'ultima tragedia ch'io mai farei; e quindi do- vendo venir l'ultima a stamparsi, non mi potea mancar poi tempo di limarla e ridurla a bene. Arrivati in Parigi, dove atteso l'impegno della intrapresa stampa, era indispensabile eh' io mi fissassi a dimora, cercai casa, ad ebbi la sorte di trovarne una molto lieta e tranquilla, posta isolata sul baluardo'-' nuovo nel sobborgo di San Germano, in cima d'una strada detta del Monte Parnasso; luogo di bellissima vista, di > Strasburgo: dal nome latino Argentoratum. • Baluardo è veramente il bastione ai quattro angoli d'una fortezza; tale parola usa qui l'Alfieri, con piena rispondenza etimologica, a tradurre il fmncese boulevard. Lu vita 247 ottima aria, e solitario come in una villa; compagno della villa di Roma ch'io avevo abitata due anni alle Terme. Si portò con noi a Parigi tutti i cavalli, di cui presso che metà cedei alla si- gnora, sì pel di lei servizio, che per diminuirne a me la troppa spesa e divagazione. Così collocatomi, a bell'agio potei atten- dere a quella difficile e noiosa briga dello stampare; occupa- zione in cui rimasi sepolto per quasi tre anni consecutivi. Venuto intanto il febbraio del 1788, la mia donna ricevè la nuova della morte del di lei marito seguita in Roma, dove egli da più di due anni si era ritirato, lasciando Firenze. E benché questa morte fosse preveduta già da un pezzo, attesi i replicati accidenti che da piìi mesi l'aveano percosso; e lasciasse la vedova interamente libera di sé, e non venisse a perdere nel marito un amico; con tutto ciò io fui con mia maraviglia testimonio ocu- lare, ch'ella ne fu non poco compunta, e di dolore certamente non finto, né esagerato; che nessun 'arte mai entrava in quella schiettissima ed impareggiabile indole. E certo quel suo marito, malgrado la molta disparità degli anni, avrebbe trovato in lei un'ottima compagna, ed un'amica se non un'amante donna, sol- tanto che non l'avesse esacerbata con le continue acerbe e rozze ed ebre maniere. Io doveva questa testimonianza alla pura verità'. Continuata tutto l'SS la stampa, e vedendomi oramai al fine del quarto volume, io stesi allora il mio parere su tutte le tra- gedie, per poi inserirlo in fine dell'edizione. Mi trovai in quel- l'anno stesso finito di stampare in Kehl le Odi, il dialogo*, V Etruria e le Rime. Onde ostinato sempre più nel lavoro, e per vedermene una volta libero, nel susseguente anno continuai con un maggfior fervore e verso l'agosto il tutto fu terminato, sì in Parigi i sei volumi delle Tragedie, che in Kehl le due prose, del Principe e delle Lettere , e della Tirannide, che fu l'ultima cosa ch'io vi stampassi. Ed essendomi in quell'anno tornato sotto gli occhi il Panegirico prima stampato nell'ST, e trovatovi molte pic- cole cose che potrei emendare, lo volli stampare; anche per aver tutte le opere egualmente bene stampate. Con gli stessi caratteri ed opera del Didot lo feci dunque eseguire; e v'aggiunsi l'Ode > Veramente U Stolberg non fu troppo compunta per la morte del ma- rito: essa non fece altro che piegarsi alle convenienze mondane, come, purtroppo, fece poi anche alla morte delI'A. • la virtù sconosciuta. 248 Vittorio Alfieri di Parigi Sbastigliato^, fatta per essermi trovato testimonio ocu- lare del principio di quei torbidi, e tutto il volumetto terminai con una favoluccia'* adattata alle correnti peripezie. E così, vuo- tato il sacco, mi tacqui: nessuna altra mia opera avendo trala- sciato di stampare, fuorché la tramelogedia d'Abele, perchè in questo nuovo genere facea disegno di eseguirne varie altre; e la traduzion di Sallustio, perchè non mi pensava mai di entrare nel disastroso ed inestricabile* labirinto di traduttore. CAPITOLO DECIMONONO Principio dei tumulti di Francia, i quali sturbandomi in più maniere, di autore mi trasformano in ciarlatore. Opinione mia sulle cose presenti e future di questo regno. Dall'aprile dell'anno 1789 in appresso, io era vissuto in molte angustie d' animo, temendo ogni giorno che un qualche di quei tanti tumulti che insorgevano ogni giorno in Parigi dopo la con- vocazione degli stati generali, non mi impedisse di terminare tutte quelle mie edizioni tratte quasi alla fine, e che non dovessi dopo tante e sì improbe spese e fatiche affondare alla vista del porto. Mi affrettava quanto più poteva; ma così non facevano gli artefici della tipografia del Didot, che tutti travestitisi in poli- tici e liberi uomini, le giornate intere si consumavano a leggere gazzette e far leggi, invece di comporre, correggere, e tirare le dovute stampe. Credei d'impazzarvi di rimbalzo. Fu dunque im- mensa la mia soddisfazione, quando pure arrivò quel giorno, in cui finite, imballate, e spedite sì in Italia che altrove, furono le tanto sudate tragedie. Ma non fu lunga quella contentezza, perchè le cose andando sempre peggio, scemando ogni giorno la sicu- rezza e la quiete in questa Babilonia, e accrescendosi ogni giorno il dubbio, e i sinistri presagi per l'avvenire, chi ci ha che fare con questi scimiotti, come disgraziatamente siamo nel caso sì la mia donna che io, è costretto di temer sempre, non potendo mai finir bene. • Con questa ode politica l'A., pieno di speranze, saluta l'inizio della rivoluzione e vede giurato sulle rovine della Basti^'lla, tra re e popolo, un patto di alleanza, foriere di libertà, ' Le mosche e l'api. La vita 249 Io dunque oramai da più d'un anno vo tacitamente vedendo e osservando il progresso di tutti i lagrimevoli effetti della dotta imperìzia di questa nazione, che di tutto può sufficientemente chiacchierare, ma nulla può mai condurre a buon esito, perchè nulla intende il maneggio degli uomini pratici ; come acutamente osservò già e disse il nostro profeta politico, Machiavelli*. Laonde io addolorato profondamente, sì perchè vedo continuamente la sacra e sublime causa della libertà in tal modo tradita, scam- biata, e posta in discredito da questi semifilosofi ; stomacato del vedere ogni giorno tanti mezzi lumi, tanti mezzi delitti, e nulla in somma d' intero se non se l' imperizia d' ogni parte ; atterrito finalmente dal vedere la prepotenza militare, e la licenza e inso- lenza avvocatesca posate stupidamente per base di libertà; io nul- l'altro ormai desidererei, che di poter uscire per sempre di questo fetente spedale, che riunisce gli incurabili e i pazzi. E già fuor ne sarei, se la miglior parte di me stesso non vi si trovasse di- sgraziatamente per lei intralciata dalle sue circostanze. Instupidito dunque io pure dal perenne dubitare e temere, da quasi un anno che son finite le tragedie, piuttosto vegetando che vivendo, stra- scino assai male i miei giorni; e insterilitomi anche non poco il cervello con quasi tre anni di continuo correggere e stampare, a nessuna lodevole occupazione mi so, né posso rivolgere. Ho intanto ricevuto, e vo ricevendo da molte parti la notizia, esservi giunta l'edizione delle mie tragedie; e pare che trovino smercio, e non dispiacciano. Ma siccome le nuove mi sono date da per- sone piuttosto amiche mie, o benevole, non me ne lusingo gran fatto. Ed in fine mi sono proposto fra me e me, di non accettare né lode, né biasimo, se non mi recano e l'uno e l'altro il loro perché ; e voglio dei perchè luminosi, che ridondino in utile del- l'arte mia e di me. Ma di questi perchè pur troppo pochi se ne raccapezza, e nessuno finora me n'é pervenuto. Onde tutto il rimanente reputo per non accaduto. Queste cose, benché io le sapessi già prima benissimo, non mi hanno però fatto mai ri- sparmiare né la fatica, né il tempo, per fare il meglio quant' era in me. Tanto più lode ne riceveranno forse le mie ossa col tempo, poiché io con tale tristo disinganno innanzi agli occhi, ho pure > Specialmente nef Ritratti delle cose di Francia, e non molto benevoN mente, quanto ili' indole e natura dei francesi, In un particolar tcritterello che ad essi suol andar unito. 250 Vittorio Alfieri sì ostinatamente persistito a far bene più assai che a far presto, non mi piegando a corteggiare mai altri che il vero. Quanto poi alle sei mie diverse opere stampate in Kehl, non voglio pubblicare per ora altro che le due prime, cioè V Ame- rica libera, e la Virtù sconosciuta; riserbando l'altre a tempi men burrascosi, ed in cui non mi possa esser data la vile taccia, che non mi par meritare, di aver io fatto coro con i ribaldi, di- cendo quel ch'essi dicono, e che pur mai non fanno, né fare sa- prebbero né potrebbero. Con tutto ciò ho stampato quelle opere, perchè l'occasione, come dissi, mi v'invitò; e perchè son con- vinto, che chi lascia dei manoscritti non lascia mai libri: nessun libro essendo veramente fatto e compito, s'egli non è con somma diligenza stampato, riveduto, e limato sotto il torchio, direi, dal- l'autore medesimo. Il libro può anche non esser fatto né com- pito, a dispetto di tutte queste diligenze ; pur troppo è così : ma non lo può certo essere veramente, senz'esse. Il non aver dunque per ora altro che fare; l'aver molti tristi presentimenti ; e il credermi (lo confesserò ingenuamente) di avere pur fatto qualche cosa in questi quattordici anni; mi hanno determinato di scrivere questa mia vita, alla quale per ora fo punto in Parigi, dove l'ho stesa in età di anni quarant'uno e mesi, e ne termino il presente squarcio, che sarà certo il mag- giore, il dì 27 maggio dell'anno 1790. Né penso di rileggere più né più guardare queste mie ciarle, fin presso agli anni sessanta, se ci arriverò, età in cui avrò certamente terminata la mia car- riera letteraria. Ed allora, con quella freddezza maggiore che por- tano seco i molti anni, rivedrò poi questo scritto, e vi aggiungerò il conto ^ di quei dieci o quindici anni all'incirca, che avrò forse ancora impiegati, in comporre, o applicare. Se io verrò ad ese- guire i due o tre diversi generi in cui fo disegno di provare le mie ultime forze, aggiungerò allora quegli anni in ciò impiegati, a questa quarta epoca della virilità ; se no, nel ripigliare questa mia confession generale, incomincierò da quegli anni miei ste- rili la quinta epoca; della mia vecchiaia e rimbambimento, la quale, se punto avrò senno ancora e giudizio, brevissimamente, siccome cosa inutile sotto ogni aspetto, la scriverò. Ma se io poi in questo frattempo venissi a morire, che è il più verisimile ; io prego fin d'ora un qualche mio benevolo, nelle > Racconto. La vita 251 cnl mani venisse a capitar questo scritto, di fame quell'uso che glie ne parrà meglio. S'egli lo stamperà tal quale, vi si vedrà, spero, l' impeto della veracità e della fretta ad un tempo ; cose che portan seco del pari la semplicità e l'ineleganza nello stile. Né, per finire la mia vita, quell'amico vi dovrà aggiungere altro di suo, se non se il tempo, il luogo ed il modo in cui sarò morto. E quanto alle disposizioni dell'animo mio in quel punto, l'amico potrà accertare arditamente in mio nome il lettore, che troppo conoscendo questo fallace e vuoto mondo, nessuna altra pena avrò provato lasciandolo, se non se quella di abbandonarvi la donna mia ; come altresì fin eh' io vivo, in lei sola e per lei sola vivendo oramai, nessun pensiero veramente mi scuote e atterrisce, fuorché il timore di perderla : né d'altra cosa io supplico il cielo, che di farmi uscir primo di queste mondane miserie. Ma se poi l'amico qualunque a cui capitasse questo scritto, sti- masse bene di arderlo, egli farà anche bene. Soltanto prego, che se diverso da quel ch'io l'ho scritto gli piacesse di farlo pub- blico, egli lo raccorcisca e lo muti pure a suo piacimento quanto all'eleganza e lo stile, ma dei fatti non ne aggiunga nessuno, né in verun modo alteri i già descritti da me. Se io, nello stendere questa mia vita, non avessi avuto per primo scopo l' impresa non volgarisstma di favellar di me con me stesso, di spacciarmi qual sono in gran parte, e di mostrarmi seminudo a quei pochi che mi volevano o vorranno conoscere veramente ; avrei saputo veri- sìmilmente anch'io restringere il sugo, se alcun ve n'ha, di questi miei quarantun anni di vita in due o tre pagine al più, con istu- diata brevità ed orgoglioso finto disprezzo di me medesimo taci- teggiando'. Ma io allora avrei voluto in ciò più assai ostentare il mio ingegno, che non disvelare il mio cuore, e costumi. Sic- come dunque all'ingegno mio (o vero o supposto ch'ei sia) ho ritrovato bastante sfogo in tante altre mie opere, in questa mi son compiaciuto di dame uno più semplice, ma non meno impor- tante, «1 cuor mio, diffusamente a guisa di vecchio su me mede- simo, e di rimbalzo, su gli uomini quali soglion mostrarsi in pri- vato, chiacchierando. Firenze, di 2 maggio 1803. Parigi. Letto nel mano del 1798 per la prima volta alla mia donna. 1 Imitando cioè la condiione di Tacito. VITA DI VITTORIO ALFIERI PARTE SECONDA EPOCA QUARTA CONTINUAZIONE PROEMIETTO Avendo riletto circa 13 anni dopo, trovandomi fisso in Firenze, tutto quello eh' io aveva scritto in Parigi concernente la mia vita sino all'età di anni quarantuno, a poco a poco lo andai ricopiando, e un pocolino ripulendo, perchè riuscisse chiaro e pianissimo lo stile. Dopo averlo ricopiato, giacché mi trovava ingolfato nel parlar di me, pensai di continuare a descrivere questi tredici anni, nei quali mi pare anche di aver fatto pur qualche cosa che me- riti d'essere saputa. E siccome gli anni crescono, le forze fisiche e morali scemano, e verosimilmente oramai ho finito di fare, mi lusingo che questa seconda parte, che sarà assai piii breve della prima, sarà anche l' ultima ; poiché entrato nella vecchiaja, di cui i miei 55 anni vicini mi hanno già introdotto nel limitare, e atteso il gran logoro che ho fatto di corpo e di spirito, ancorché io viva dell'altro, nulla oramai facendo, pochissimo mi si pre- sterà da dire >. ' Nota nell'autografo: « Prima di ricopiare, rileggi ogni capitolo, ptr intitolarlo oiù brevemente e meglio che non sono adesso ». [T.]. 256 Vittorio Alfieri CAPITOLO VIOESIMO Finita interamente la prima mandata delle stampe, mi do a tradurre Virgilio e Terenzio; e con qual fine il facessi. Continuando dunque la quarta epoca, dico che ritrovandomi in Parigi, come io dissi, ozioso e angustiato, ed incapace di crear nulla, benché molte cose mi rimanessero, che avea disegnato dì fare; verso il giugno del 1790 cominciai così per balocco a tra- durre qua e là degli squarci dell'Eneide, quelli che più mi rapi- vano ; poi vedendo che mi riusciva utilissimo studio, e dilettevole, lo cominciai da capo, per mantenermi nell'uso del verso sciolto. Ma tediandomi di lavorare ogni giorno la stessa cosa, per variare e rompere, e sempre più imparare bene il latino, pigliai anche a tradurre il Terenzio da capo; aggiuntovi lo scopo di tentare su quel purissimo modello di crearmi un verso comico, per poi scrivere (come da gran tempo disegnava) delle commedie di mio ; e comparire anche in quelle con uno stile originale e ben mio, come mi pareva di aver fatto nelle tragedie. Alternando dunque, un giorno l'Eneide, l'altro il Terenzio, in quell'anno 90, e fino all'aprile del 92, che partii di Parigi, ne ebbi tradotto dell'Eneide i primi quattro libri ; e dì Terenzio, l'Andria, l'Eunuco e l'Eau- tontimoromeno^. Oltre ciò per sempre più divagarmi dai funesti pensieri, che mi cagionavano le circostanze, volli disrugginirmi di nuovo la memoria, che nel comporre e stampare avea trasan- data affatto, e m'inondai di squarci d'Orazio, Virgilio, Giovenale, e dì nuovo di Dante, Petrarca, Tasso e Ariosto, talché migliaia e migliaia di versi altrui mi collocai nel cervello. E queste occu- pazioni di second 'ordine sempre più mi isterilirono il cervello, e mi tolsero di non far più nulla del mio. Talché, di quelle tramelo- gedie, di cui doveano essere sei al meno, non vi potei mai aggiun- gere nulla alla prima, l'Abele; e sviato poi da tante cose, perdei il tempo, la gioventù, e il bollore necessario per una tal creazione, e non lo ritrovai poi mai più. Sicché in quell'ultimo anno, eh' io stetti allora in Parigi, e così poi nei due e più seguenti altrove, > Commedie di Terenzio il cui titolo è desunto dal personaggio princi- pale: il titolo della terza l'A. italianizzò mutandolo in L' .ispreggia - sé • stesso. La J-Uu 257 null'altro più scrissi del mio, fuorché qualche Epigrammi e So- netti, per isfogare la mia giustissima ira contro gli schiavi padroni, e dar pascolo alla mia malinconia. E tentai anche di scrivere un Conte Ugolino, dramma misto, e da unirsi poi anche alle tramelo- gedie, s€ l'avessi eseguite. Ma dopo averlo ideato, lo lasciai, né vi potei pili pensare, non che lo stendessi. L.^ Abele in tanto era finito, ma non limato. Nell'ottobre di quell'anno stesso 90, si fece con la mia donna un viaggetto di quindici giorni nella Normandia sino a Coen, rHavre, e Roano; bellissima e ricca provincia, ch'io non conosceva ; e ne rimasi molto soddisfatto, ed anche un poco sollevato. Perché quei tre anni fissi di stampa, e di guai con- tinui, mi aveano veramente prosciugato il corpo e l'intelletto. L'aprile poi vedendo sempre piìi imbrogliarsi le cose in Francia, e volendo almeno tentare se più pace e sicurezza si potrebbe al- trove trovare; oltre ciò la mia donna spirandosi' di vedere l'In- ghilterra, quella sola terra un po' libera, e tanto diversa dall'altre tutte, ci determinammo di andarvi. CAPITOLO VIOESIMOPRIMO Quarto viaggio in Inghilterra e in Olanda. Ritorno a Parigi dove ci fissiamo davvero, costrettivi dalle dure circostanze. Si partì dunque verso il fine d'aprile del 91, ed avendo inten- zione di starvi del tempo, ci portammo i nostri cavalli, e si licenziò la casa in Parigi. Vi si arrivò in pochi giorni, e il paese piacque molto alla mia donna per certi lati, per altri no. Io invecchiato non poco dalle due prime volte in poi che c'era stato, io ammirai ancora (ma un poco meno), quanto agli effetti morali del governo, ma me ne spiacque sommamente, e più che nel terzo viaggio, sì il clima, che il modo corrotto di vivere; sempre a tavola, vegliare fino alle due o tre della mattina; vita in tutto opposta aJlc lettere, all'ingegno, e alla salute. Passata dunque la novità degli oggetti per la mia donna, ed io tormentatovi molto dalla gotta vagante, che in quella benedetta isola è veramente indigena, presto ci te- diammo di essere in Inghilterra. Succede nel giugno di quell'anno la famosa fuga del re di Francia, che ripreso in Varennes, come » Morendo di desiderio. — L* Stolberg si rectva in InghiUerrt allo scopo di ottenere da quel governo una pensione, essendo vcnut.i a mancare quella corrisposta dalla Francia: tale il vero motivo di questo viaggio. 17. - ClassUl ItaUani. N. 2. 258 Vittorio Alfieri ciascun seppe, fu ricondotto più che mai prigioniero in Parigi. Quest'avvenimento abbuiò sempre più gli affari di Francia; e noi vi ci trovavamo impicciatissimi per la parte pecuniaria, avendo l'uno e l'altro ì due terzi delle nostre entrate in Francia, dove la moneta sparita, e datovi luogo alla carta ideale, e sfiduciata ogni dì più, settimanalmente uno si vedeva scemare in mano il suo avere, che prima d'un terzo, poi mezzo, poi due terzi, andava di carriera verso il bel nulla. Contristati ambedue e costretti da questa ne- cessità irrimediabile, ci determinammo di obbedirvi, e di ritornare in Francia, dove solo con la nostra cartaccia potevamo campare per allora, ma con la trista perspettiva del peggio. Nell'agosto dunque, prima di lasciar l' Inghilterra, si fece un giro per l' isola, a Batti, Bristol, e Oxford, e tornati a Londra, pochi giorni dopo ci rimbarcammo a Douvres. Quivi mi accadde un accidente veramente di romanzo, che bre- vemente narrerò. Nel mio terzo viaggio in Inghilterra nell' 83 e 84 non aveva punto più saputo né cercato nulla di quella famosa signora, che nel mio secondo viaggio mi avea fatto pericolare per tanti versi 1. Solamente sentii dire ch'ella non abitava più Londra, che il marito, da cui s' era divorziata, era morto e che si credeva ne avesse sposato un altro, oscuro ed ignoto. In questo quarto viaggio, nei quattro e più mesi ch'io era stato a Londra, non ne avea mai sentito far parola, né cercatone notizia, e non sa- peva neppure s'ella fosse ancor viva, o no. Nell'atto d'imbar- carmi a Douvres, precedendo io la donna mia forse di un quarto d'ora alla nave, per vedere se il tutto era in ordine, ecco, che nell'atto, che dal molo stava per entrare nella nave, alzati gli occhi alla spiaggia dove era un certo numero di persone, la prima che i miei occhi incontrano, e distinguono benissimo per la molta prossimità, sì é quella signora; ancora bellissima, e quasi nulla mutata da quella ch'io l' avea lasciata vent'anni prima, appunto nel 1771. Credei a prima di sognare; guardai meglio, e un sorriso ch'ella mi schiuse guardandomi, mi certificò della cosa. Non posso esprimere tutti i moti, e diversi affetti con- trari che mi cagionò questa vista. Tuttavia non le dissi parola, entrai nella nave, né più ne uscii; e nella nave aspettai la mia donna, che un quarto d'ora dopo giuntavi, si salpò. Essa mi disse che dei signori, che l'accompagnarono alla nave, gli aveano* in- I V. Ep. Ili, cap. v e xi. « Toscanisino : le. La vita 259 dicata quella signora; e nominategliela, e aggiuntovi un com- pendiuccio della di lei vita passata e presente. Io le raccontai come mi era occorsa agli occhi, e come andò il fatto. Tra noi non v'era mai né finzione, né diffidenza, né disistima, né querele. Si arrivò a Calais ; di dove io molto colpito di quella vista così inaspettata, le volli scrivere per isfogo del cuore, e mandai la mia lettera al banchiere di Douvres, che glie la rimettesse in proprie mani, e me ne trasmettesse poi la risposta a Brusselles, dove sarei stato fra pochi giorni. La mia lettera di cui mi spiace di non aver serbato copia, era certamente piena d'affetti, non già d'amore, ma di una vera e profonda commozione di vederla an- cora menare una vita errante e sì poco decorosa al suo stato e nascita, e il dolore, ch'io ne sentiva tanto più, pensando di es- serne io stato, ancorché innocentemente, o la cagione o il pretesto. Che senza lo scandalo succeduto per causa mia ella forse avrebbe potuto occultare o tutto o gran parte le sue dissolutezze, e cogli anni poi emendarsene. Ritrovai poi in Brusselles circa quattro settimane dopo la di lei risposta, che fedelmente trascrivo qui in fondo di pagina' per dare un'idea del di lei nuovo', ed ostinato mal inclinato carattere, che in quel grado ella è cosa assai rara, massime nel bel sesso. Ma tutto serve al grande studio della specie bizzarra degli uomini. Intanto dunque noi imbarcati per Francia, sbarcati a Calais, prima di imprigionarci in Parigi, pensammo di fare un giro in Olanda, perché la donna mia vedesse quel raro monumento d'in- dustria, occasione, che forse non se le presenterebbe poi più. Si andò dunque per la spiaggia sino a Bruges e Ostenda, di là per Anversa a Rotterdam, Amsterdamo, la Haja, e la Nort-Hol- landa, in circa tre settimane, e in fin di settembre fummo di ri- torno in Brusselles, dove la signora avendovi le sorelle e la madre», ci stette qualche settimana; e finalmente dentro l'ottobre, verso il fine, fummo rientrati nella cloaca massima^, dove le dure nostre circostanze ci ritraevano malgrado nostro ; e ci costrinsero a pensare seriamente di fissarvlci la nostra permanenza. > V. Apptndlct. « Strano. * La madre della Stolbcrg, alla quale essa non fu troppo affezionata, era una principessa di Hornes. « Tutto questo capitolo è un documento di ciò che possono gli inteiessi materiali sul giudizio degli nomini. 260 Vittorio Alfieri APPENDICE Monsleur. Vous ne deviez poin douter que !a marque de votre souvenir, et de Un- terei que vous aver la bonté de prendre a mon sort, ne me soit sensible et requ avec reconnoissance d'autant plus que je ne puis vous *egarder comme l'auteur de mon raalheur puis que je ne suis poin malheureuse quoìque la sensibilité et la droiture de votre ame vous le fasse craindre. Vous éte au contraire la cause de ma deliverance d'un monde dans le quel je nettoit aucunnement forme pour exister, et que je n' al jamais un seul instant regretté. Je ne sait si en cela j'ai tort ou si un degré de fermeté ou de fierté blamable me fait illusion mais voila comme jai constanment vu ce qui m'est arrivé et je remercie la providence de m'avoir place dans une situation plus heureuse peut-elre que je n' ai mérité. Je jouis d'une sante parfaite que la liberte et la tranquilite augmènte, je.necherche que la société des personnes simples et honnetes qni ne pretendent ny a trop de genie ny a trop de connoissances acquises qui embrouille quelquefois la cause, et au deffaut des quelles je me suffit a moi méme par le moyen des livrea, du dessin, de la musique etc. mais ce qui m'assure le plus le fond d'un bonheur et d'une satisfation réel et l'amifie et l'affection in- muable d'un frère que j'ai toujonrs alme par desus tout le monde, et qui possedè le meilleur des cceurs. C'est pour me conformer a votre volonté que je vous ai fait un detaille aussi long de ma situation et permette moi a mon tour de vous assurer du plaisir sensible que me cause le connoissance du bonheur dont vous jouissais et que je suis persuade que vous avez toujours merité. J'ai souvent depuis deux ans entendu parler de vous avec plaisir a Paris comme a Londre, ou l'on admire et estime vos ecrits que je n'ai poin pu parvenir à voir. L'on dit que vous éte attaché a la Princesse avec laquelle vous voyagé, qui par sa phisionomie ingenue et sensé paroit bien faite pour faire le bonheur d'une ame aussi sensible et delicate que la votre: l'on dit aussi quelle vous craint je vous reconnois bien la, sans le desirer ou peut-etre vous en aper^evoir vous avez iresistablement cet assendant sur tous ceux qui vous alme, Je vous desire du fond de mori coeur la continuation des biens et des plaisirs réel de ce monde, et si le hasard fait que nons nous recontrions encore j'aurai toujour la plus grande satisfaction à l'apprendre de votre main. Adieu. Douvres ce 26 avril. Penèlope.» » La scorretta gralia riproduce quella dell'Originale. La vita 261 CAPITOLO VIGESIMOSECONDO Fuga di Parigi, donde per le Fiandre e tutta la Germania tornati in Italia ci fissiamo in Firenze. Impiegati, o perduti circa due mesi in cercare, ed ammobiliare ona nuova casa, nel principio del 92 ci tornammo ad abitare ; ed era bellissima e comodissima*. Si sperava ogni giorno, che ver- rebbe quello di un qualche sistema di cose soffribile ; ma più spesso ancora si disperava che ornai sorgesse un tal giorno. In questo stato di titubazione, la mia donna ed io (come anche tutti, quanti n' erano allora in Parigi ed in Francia, o ci aveano che fare pe' loro interessi) andavano strascinando il tempo. Io, fin da due anni e pili innanzi, avea fatto venir di Roma tutti ì miei libri lascia- tivi neir83, e da allora in poi li aveva anche molto accresciuti sì in Parigi che in quest'ultimo viaggio di Inghilterra, e d'Olanda. Onde per questa parte poco mi mancava ad avere ampiamente tutti i libri, che mi potessero esser utili e necessari nella ristretta mia sfera letteraria. Onde tra i libri, e la cara compagna, nessuna consolazione domestica mi mancava ; solamente mancavaci la spe- ranza viva, e la verisimiglianza che ciò potesse durare. Questo pensiero mi sturbava da ogni occupazione, e mi tiravo innanzi per traduttore* nel Virgilio e Terenzio, non potendo far altro. Frattanto, né in quest' ultimo, né nell'anteriore mio soggiorno in Parigi, io non volli mai né trattare, né conoscere pur di vista nessuno di quei tanti facitori di falsa liberià per cui mi sentiva la più invincibile ripugnanza, e ne aveva il più alto disprezzo*. Quindi anche sino a questo punto, in cui scrivo, da più di 14 anni che dura questa tragica farsa, io mi posso gloriare di esser ver- gine di lingua, di orecchi, e d'occhi perfino, non avendo mai né visto, né udito, né parlato con qualunque di codesti schiavi dominanti francesi, né con nessuno dei loro schiavi serventi. Nel marzo di quell'anno ricevei lettere di mia madre, che furon l'ultime; ella vi esprimeva con caldo e cristiano affetto molta sollecitudine di vedermi, diceva, e In paese, dove sono tanti tor- « L'A. prese tlloifu'o rue de Province i VHSiel de Parts. • Traducendo, come traduttore. » Si noti però che il «tlotto della Stolberg era frequentato qntsi e»cln- tivamente da ari^'ocratid. 262 V'f*ono Alfieri € bidi, dove non è più libero l'esercizio della cattolica religione, « e dove tutti tremano sempre, ed aspettano continui disordini e «disgrazie». Pur troppo bene diceva, e presto si avverò; ma quando mi ravviai verso l' Italia, la degnissima e veneranda ma- trona non esisteva più. Passò di questa vita il di 23 aprile 1792, in età di anni settanta compiuti. Erasi frattanto rotta la guerra coli' Imperatore, che poi divenne generale e funesta. Venuto il giugno, in cui si tentò già di abbat- tere intieramente il nome del re, che altro più non rimaneva ; la congiura di quel giorno 20 giugno essendo andata fallita, le cose si strascinarono ancora malamente sino al famoso dieci d'agosto, in cui la cosa scoppiò come ognun sa^. Accaduto quest'avvenimento, io non indugiai più neppure un giorno, e il mio primo ed unico pensiero essendo di togliere da ogni pericolo la mia donna, già dal dì 12 feci in fretta in fretta tutti i preparativi per la nostra partenza. Rimaneva la somma difficoltà dell' ottenere i passaporti per uscir di Parigi e del regno. E tanto c'industriammo in quei due o tre giorni, che il dì 15, o il dì 16 già gli avevamo ottenuti come forestieri, prima dai mi- nistri di Venezia io, e di Danimarca la signora, che erano quasi che i soli ministri esteri rimasti presso quel simulacro di re. Poi con molto più stento si ottenne dalla sezione nostra comunitativa* detta da Montblanc degli altri passaporti, uno per ciascheduno individuo, sì per noi due, che per ogni servitore e cameriera, con la pittura di ciascuno, di statura, pelo, età, sesso, e che so io. JVluniti cosi di tutte queste schiavesche patenti, avevamo fissato la partenza nostra pel lunedì 20 agosto ; ma un giusto presenti- mento, trovandoci allestiti, mi fece anticipare, e si partì il dì 18, sabato, nel dopo pranzo. Appena giunti alla Barrière Bianche, che era la nostra uscita la più prossima per pigliar la via di San Dionigi per Calais, dove ci avviavamo per uscire al più presto di quell'infelice paese; vi ritrovammo tre o quattro soli soldati di guardie nazionali, con un ufiziale, che visti i nostri passaporti, si disponeva ad aprirci il cancello di quell'immensa prigione, e > Il 20 giugno 1792 l'Assemblea Nazionale venne invasa dal popolo di Parigi, il quale Fece anche irnizione nel palazzo reale; il 10 agosto, colla sommossa del t faubourg S. Antoine », ebbe inizio la municipalità insur- rezionale; le Tuileries vennero prese d'assalto e il re si rifugiò in seno all'Assemblea Nazionale: la monarchia era tramontata, « Della comune; municipale. La vita 263 lasciarci ire a buon viaggio. Ma v' era accanto alla barriera una bettolacda, di dove sbucarono fuori ad un tratto una trentina forse di manigoldi della plebe, scamisciati, ubriachi e furiosi. Costoro, viste due carrozze, che tante n' avevamo, molto cariche di bauli e imperiali', ed una comitiva di due donne di servizio, e tre uo- mini, gridarono che tutti i ricchi se ne voleano fuggir di Parigi, e portar via tutti i loro tesori, e lasciarli essi nella miseria e nei guai. Quindi ad altercare quelle poche e triste guardie con quei molti e tristi birbi, esse per farci uscire, questi per ritenerci. Ed io balzai di carrozza fra quelle turbe, munito di tutti quei sette passaporti, ad altercare, e gridare, e schiamazzar più di loro; mezzo col quale sempre si vien a capo dei Francesi. Ad uno ad ano si leggevano, e facevano leggere da chi di quelli legger sa- peva, le descrizioni delle nostre rispettive figure, lo pien di stizza e furore, non conoscendo in quel punto, o per passione sprez- zando r immenso pericolo, che ci soprastava, fino a tre volte ri- presi in mano il mio passaporto, e replicai ad alta voce ; e vedete, sentite; Alfieri è il mio nome; Italiano e non Francese; glande; magro; sbiancato; capelli rossi; son io quello, guardatemi: ho il passaporto: l'abbiamo avuto in regola da chi lo può dare; e vogliamo passare, e passeremo per Dio ». Durò piìi di mezz'ora questa piazzata, mostrai buon contegno, e quello ci salvò. Si era frattanto ammassata piìi gente intomo alle due carrozze, e molti gridavano; diamogli il fuoco a codesti legni: altri, pigliamoli a sassate: altri, questi fuggono: son dei nobili e ricchi, portiamoli indietro al palazzo della Città, che se ne faccia giustizia. Ma in somma il debole aiuto delle quattro guardie nazionali, che tanto qualcosa diceano per noi, ed il mio molto schiamazzare e con voce di banditore replicare e mostrare i passaporti, e più di tutto la mezz'ora e più di tempo, in cui quei scimiotigri* si stanca- rono di contrastare, rallentò l'insistenza loro; e le guardie ac- cennatomi di salire in carrozza, dove avea lasciato la signora, si paò credere in quale stato, io rientratovi, rimontati i postiglioni a cavallo si apri il cancello, e di corsa si usci, accompagnati da fischiate, insulti, e maledizioni di codesta genia. Ebuon per noi che non prevalse di essere ricondotti al palazzo di Città, che ' Ct«se grandi di cuofo sovrapposte al cielo delle carrozze da viaggio per chiudervi panni, bauli, ecc. • Vocabolo coniato dall' A.: esseri ridicoli e feroci. 264 Vittorio Alfieri arrivando così due carrozze in pompa stracariche, con la taccia di fuggitivi, in mezzo a quella plebaccia si rischiava molto- e saliti poi innanzi ai birbi della municipalità, si era certi di non poter più partire, e d'andare anzi prigioni, dove se ci trovavamo nelle carceri il dì 2 settembre, cioè quindici giorni dopo, ci era fatta la festa insieme con tanti altri galantuomini, che crudel- mente vi furono trucidati'. Sfuggiti di un tale inferno, in due giorni e mezzo arrivammo a Calais, mostrando forse 40 e più volte 1 nostri passaporti: ed abbiamo saputo poi che noi eramo stati 1 primi forestieri usciti di Parigi, e del regno dopo la cata- strofe del 10 agosto. Ad ogni municipalità per istrada dove ci conveniva andare e mostrare i nostri passaporti, quei che li leg- gevano, rimanevano stupefatti ed attoniti alla prima occhiata che ci buttavano sopra, essendovi quelli stampati, e cassatovi il nome del re. Poco, e male erano informati di quel che fosse accaduto in Parigi, e tutti tremavano. Son questi gli auspici sotto cui fi- nalmente uscii della Francia, con la speranza ed il proponimento di non capitarvi più mai. Giunti a Calais, dove non ci fecero difficoltà di proseguire sino alle frontiere di Fiandra per Grave- lina, preferimmo di non c'imbarcare, e di renderci subito a Brus- selles. Ci eravamo diretti a Calais, perchè non essendo ancora guerra cogl' Inglesi, si pensò che si poteva più facilmente andare m Inghilterra, che in Fiandra, dove la guerra si facea vivamente Giunti a Brusselles, la signora volle rimettersi un poco dalle paure sofferte con lo stare un mesetto in villa colla sorella e il degnissimo suo cognato. Là poi si ricevettero lettere di Parigi dalla nostra gente lasciatavi, che quello stesso lunedì che ave- vamo destinato al partire, 20 agosto, ma che io fortunatamente avea anticipato due giorni, era venuta in corpo quella nostra stessa sezione che ci avea dati i passaporti (vedi stupidità e pazzia), per arrestare la signora e condurla in prigione. Già si sa, perchè era nobile, ricca, ed illibata^ A me, che sempreho valutomeno diessa non faceano perallora quell'onore. Ma'in somma, non ci ritrovando aveano confiscato i nostri cavalli, mobili, libri, e ogni cosa Poi sequestrate le entrate, e dichiaratici amendue emigrati. E così i.UlrTf"°. ^\ ^"" ''"" ^''' P'-'S'oneri politici cominciato il 2 set- t1:Z:SV:^.Sr' - ^'^^""° ^'"^ "°"^'^ ^^'"^ -^'-''^ ^' Verdun a :ayir;Xi";esr';^u:b,ic°o.''^"''" ^^^'-^ ''^•'=^" percepito un. pe„sio„e La vita 265 ,.are poi ci fu scritta la catastrofe e gli orrori segniti in Parigi il dì 2 settembre, e si ringraziò e benedì la Provvidenza che ce n'avea scampati. Visto poi sempre più oscurarsi il cielo di quel paese, e nata nel terrore e nel sangue quella sedicente repubblica, noi savia- mente ascrivendo a guadagno tutto quello che ci potea rimanere altrove, ci ponemmo in via per l' Italia il dì 1 ottobre ; e per Aquis- grana, Francfort, Augusta ed Inspruch, venuti all'Alpi, e lieta- mente varcatele, ci parve di rinascere il dì che ci ritrovammo nel bel paese qui dove il sì suona. Il piacere di essere fuori di car- cere, e di ricalcare con la mia donna queste stesse vie, che più volte avea fatte per gire a trovarla ; la soddisfazione di potere li- beramente godere la sua santa compagnia, e sotto l'ombra sua di potere ripigliare i miei cari studj, mi tranquillizzarono, e se- renarono a segno, che da Augusta sino in Toscana mi si riaprì la fonte delle rime, e ne venni seminando e raccogliendo in gran copia. Si arrivò finalmente il dì 3 novembre in Firenze, di donde non ci siamo più mossi, e dove ritrovai il vivo tesoro della lingua, che non poco mi compensò delle tante perdite d'ogni sorte che dovei sopportare in Francia. CAPITOLO VIGESIMOTERZO A poco a poco mi vo rimettendo allo studio. Finisco le tradurioni. Rico- mincio a scrivere qualche cosarella di mio. Trovo casa pjacentissima in Firenze, e mi do al recitare. Appena giunto in Firenze, ancorché per quasi un anno non vi si potesse trovar casa che ci convenisse, tuttavia il sentir di nuovo parlar quella sì bella, e a me sì preziosa lingua, il trovar gente qua e là che mi andava parlando delle mie tragedie, il vederle qua e là (benché male), pure frequentemente recitate', mi ridestò qualche spirito letterario, che nei due ultimi decorsi anni mi si era presso che spento nel cuore. La prima coserella, che mi venne ideata e fatta di mio (dopo quasi tre anni che non avea più com- posto nulla, fuorché qualche rime) fu l'Apologia del re Luigi XVI*, che scrissi nel decembre di quell'anno. Successivamente poi, ri- ' Per U fortuna del (eatro alfieriano a Firenze t. Sasso, Vittorio Alfieri a Fitfitxe, Firenze, 18%. ' Costituisce ora la Prosa ttrxa del Misogallo. 266 Vittorio Ai/ieri prese caldamente le due traduzioni che sempre camminavan di fronte, il Terenzio e l'Eneide, nel seguente anno 93 le portai al fine, non però limate, né perfette. Ma il Sallustio, che era stata quasi che la sola cosa a cui un pochino avessi atteso nel viaggio d'Inghilterra e d'Olanda (oltre tutte le opere di Cicerone, che avea caldamente lette e rilette), e che avea moltissimo corretto e limato, lo volli anche ricopiare intero in quell'anno 93, e così mi credei avergli dato l'ultimo pulimento. Stesi anche una prosa storico-satirica su gli affari di Francia S compendiatamente, la quale poi, ritrovatomi un diluvio di composizioni poetiche, sonetti ed epigrammi su quelle risibili e dolorose vertenze, ed a tutti que' membri sparsi volendo dar corpo e sussistenza, volli che quella prosa servisse come di prefazione all'opera che intitolerei il Mi- sogallo; e verrebbe essa a dare quasi ragione dell'opera. Ravviatomi così a poco a poco allo studio, ancorché forte spennacchiati nell' avere, sì la mia donna che io, tuttavia rima- nendoci pur da campare decentemente; ed amandola io sempre più=, e quanto più bersagliata dalla sorte, tanto piìi riuscendomi ella una cosa e carissima e sacra, il mio animo si andava acque- tando, e più ardente che mai l'amor del sapere mi ribolliva nella mente. Ma allo studio vero quale avrei voluto intraprendere, mi mancavano i libri, avendo definitivamente perduti tutti i miei in Parigi, né mai più pure richiestili a chi che si fosse, se non se più per celia, che seriamente una volta nel 95^ pel mezzo d'un mìo conoscente italiano, che trattava degli affari in Parigi'; e gli mandai un epigramma, in cui richiedeva i miei libri. Si trova r epigramma e la risposta e la ricevuta mia ultima in una lunga mia nota addossata in fine della prosa seconda del Misogallo. Quanto poi al comporre, benché io avessi il mio piano ideato per altre cinque almeno tramelogedie, sorelle AélV Abele, attese le passate ed anche presenti angustie dell'animo, mi si era spento il bollore giovenile inventivo, la fantasia accasciata, e gli anni preziosi ultimi della gioventù spuntati ed ottusi, direi, dalla stampa ed i guai, che per più di cinque anni mi avean sepolto l'animo, non me la sentivo più; ed In fatti dovei abbandonarne il pen- siero, non mi trovando più il robusto furore necessario ad un > Divenuta la Prosa seconda del Misogallo. * Cfr. E. Bertana, V. A. dt., p. 238 sgg. 8 II conte Francesco Carletti, diplomatico toscano a Parigi, La vUa 267 tale pazzo' genere. Smessa dunque quell'idea, che pur tanto mi era stata cara, jni volli rivolgere alle Satire, di cui fatto avea sol la prima, che poi serve all'altre di prologo*; bastantemente mi era andato esercitando in quest'arte negli squarci diversi del Misogallo, onde non disperava di riuscirvi; e ne scrissi la se- conda, ed in parte la terza ; ma non era ancora abbastanza rac- colto in me stesso; male alloggiato, senza libri, non avea quasi il cuore a nulla. Questo mi fece entrare in un nuovo perditempo, quello del recitare. Trovati in Firenze alcuni giovani, e una signora, che mostravano genio e capacità da ciò, si imparò il Saul, e si recitò in casa privata, e senza palco, a ristrettissima udienza, con molto incontro, nella primavera del 93. In fine poi di quell'anno, si ritrovò presso il Ponte Santa Trinità una casa graziosissima benché piccola, posta al Lung'Amo di mezzogiorno, casa dei Gianfigliazzi, dove tornammo in novembre, e dove ancora mi trovo, e verisimilmente, se non mi saetta altrove la sorte, ci morrò. L'aria, la vista, ed il comodo di questa casa mi restituì gran parte delle mie facoltà intellettuali e creative, meno le tramelo- gedie, cui non mi fu più possibile mai d'innalzarmi. Tuttavia, avviatomi l'anno prima al balocco del recitare, volli ancora per- dere in questa primavera del 94 altri tre buoni mesi ; e si recitò da capo in casa mia, il Saul, di cui io faceva la parte; poi il Bruto primo, di cui pure faceva la parte. Tutti dicevano, e pa- reva anche a me di andar facendo dei progressi non piccoli in quell'arte difficilissima del recitare; e se avessi avuto più gio- ventù, e nessun altro pensiero, mi parea di sentire in me cre- scere ogni volta ch'io recitava, la capacità, e l'ardire, e la rifles- sione, e la gradazione dei tuoni, e la importantissima varietà continua dei presto e adagio, piano e forte, pacato e risentito, che alternate sempre a seconda delle parole, vengono a colorir la parola, e scolpire direi il personaggio, ed incidere in bronzo le cose eh' ei dice. Parimente la compagnia addestrata al mio modo migliorava di giorno in giorno, e tenni allora per cosa più che certa, che se io avessi avuto danari, tempo e salute da sprecare, avrei in tre o quattr'anni potuto formare una compa- gnia di tragici, se non ottima, almeno assai, e del tutto diversa ' Strano, Irregolare. • Cfr. Ep. IV, c«p. XVI. 268 Vittorio Alfieri da quelle che in Italia si van chiamando tali, e ben diretta su la via del vero e dell'ottimo. Questo perditempo mi tenne ancora molto indietro nelle mie occupazioni per tutto quell'anno, e quasi anche il seguente 95 in cui poi feci la mia ultima strionata, recitando in casa mia il Filippo, in cui feci alternativamente le due così diverse parti di Filippo, e di Carlo; e poi da capo il Saul, che era il mio per- sonaggio più caro, perchè in esso vi è di tutto, di tutto assolu- tamente. Ed essendovi in Pisa in casa particolare di signori un'altra compagnia di dilettanti, che vi recitavano pure il Saul io invitato da essi di andarvi per la luminara, ebbi la pueril va- nagloria di andarvi, e là recitai per una sola volta, e per l'ul- tima la mia diletta parte del Saul, e là rimasi, quanto al teatro morto da re*. ' Intanto nel decorso di quei due e più anni ch'io eragià stato m Toscana, mi era dato a poco a poco a ricomprar libri, e riac- quistati quasi che tutti i libri di lingua toscana che già aveva avuti, e riacquistati ed accresciuti anche di molto tutti i Classici latini, vi aggiunsi anche, non so allora perchè, tutti i Classici greci di edizioni ottime gr. lat.« tanto per averii, e saperne se non altro i nomi. CAPITOLO VIOESIMOQUARTO La curiosità e la vergogna mi spingono a leggere Omero, ed i traeici greci nelle traduzioni letterali. Proseguimento tepido delle Satire ed altre cosarelle. ' Meglio tardi che mai. Trovandomi dunque in età di anni 46 ben suonati, ed aver bene o male da 20 anni esercitata e pro- fessata l'arte di poeta lirico e tragico, e non aver pure mai letto né i tragici greci, né Omero, né Pindaro, né nulla in somma, una certa vergogna mi assali, e nello stesso tempo anche una lodevole curiosità dì vedere un po' cosa aveano detto quei padri dell'arte. E tanto più cedei volentieri a questa curiosità e ver- gogna, quanto da più e più anni, mediante i viaggi, i cavalli, la stampa, la lima, le angustie d'animo, e il tradurre, mi trovava rinminchionito a tal segno, che avrei ben potuto oramai aspi- » Ricorda le parole di Saul (Atto V, se. V): Me troverai, ma almen da re, qui... morto. « Così nelP autografo : edizioni greco-laHne, cioè di testi vttcì con la traduzione latina a fronte. La vita 2Ó9 rare all'erudito, che non è poi in somma altro che buona me- mpria di suo, e roba d'altri. Ma disgraziatamente anche la me- moria, ch'io avea già avuta ottima, mi si era assai indebolita. Con tutto ciò per isf uggire l'ozio, cavarmi dallo ètrione, ed uscire un pocolin più dall'asino, mi accinsi all'impresa. E successiva- mente Omero, Esiodo, i tre tragici, Aristofane, ed Anacreonte lessi ad oncia ad oncia studiandoli nelle traduzioni letterali la- tine, che sogliono porsi a colonna col testo. Quanto a Pindaro, vidi ch'egli era tempo perduto; perchè le alzate liriche tradotte letteralmente troppo bestiai cosa riuscivano; e non potendolo leggere nel testo, lo lasciai stare. Cosi in questo assiduo studio ingratissimo, e di poco utile oramai per me, che spossato non producea più quasi nulla, c'impiegai quasi che un anno e mezzo. Alcune rime intanto andava anche scrivendo, e le Satire creb- bero in tutto il 96, fino a sette di numero. Quell'anno 96 funesto all' Italia per la finalmente eseguita invasione dei Francesi \ che da tre anni tentavano', mi abbuiò sempre più l'intelletto, veden- domi rombar sovra il capo la miseria e la servitù. Il Piemonte straziato, già già mi vedea andare in fumo l'ultima mia sussi- stenza rimastami \ Tuttavia preparato a tutto, e ben risoluto in me stesso di non accattar mai, né servire, tutto il di meno di queste due cose lo sopportava con forte animo, e tanto più mi ostinava allo studio, come sola degna diversione a sì sozzi e noiosi fastidi. Nel Misogallo, che sempre andava crescendo, e che anche ornai d'altre prose, io aveva riposto la mia vendetta e quella della mia Italia; e porto tuttavia ferma speranza, che quel libricciuolo col tempo gioverà all'Italia, e nuocerà alla Francia non poco. Sogni e ridicolezze d'autore, finché non hanno effetto: profezie di inspirato vate, allorché poi l'ottengono. CAPITOLO VIGESIMOQUINTO Per qual ragione, in qual modo, e con quale scopo mi risolvessi final- mente a stodiare da radice seriamente da me stesso la lingua greca. Fin dall'anno 1778, quando si trovava meco in Firenze il ca- rissimo amico Caluso, io, cosi per ozio e curiosità leggierissima, mi era fatto scrìvere da lui sur un foglio volante il semplice > Nella primavera ebbe luogo la prima campagna di Bonaparte in Italia. • Tentavano penetrare nella penisola dalla Savoi.i. * La rendita vitalizia pagatagli dalla sorella. 270 Vittorio Alfieri alfabeto greco, maiuscolo e minuscolo, e cosi alla peggio impa rato a conoscer le lettere, ed a nominarle, e non altro. Non e avea poi badato mai più per tanti anni. Ora due anni addietro quando mi posi a leggere le traduzioni letterali, come dissi, ri pescai quel mio alfabeto fra i fogli, e trovatolo, mi rimisi a raf figurar quelle lettere, e dirne il nome; col solo pensiero di get tare di quando in quando gli occhi su la colonna del greco, e vedere semi veniva fatto di raccapezzare il suono di una qualche parola, di quelle che per essere composte o straordinarie, dalla traduzione letterale mi destavano curiosità del testo. Edio vera- mente guardava di tempo in tempo quei caratteri posti a colonna, con occhio bieco e fremente, appunto come la volpe della favola guardava i proibiti grappoli invano sospirati. Mi si aggiungeva un fortissimo ostacolo fisico ; che le mie pupille non volean saper niente di quel maledetto carattere; e foss' egli grande o piccolo, sciolto o legato*, mi venivano le traveggole tosto ch'io lo fissava, e con molta pena compitando ne portava via una parola per volta, delle brevi; ma un verso intero non lo potea né leggere, né fissare, né pronunziare, né molto meno ritenerne material- mente la romba a memoria. Oltre ciò, per natura nemico, non assuefatto, e oramai inca- pace di applicazione servile di occhio e di mente grammaticale, e non dotato di nessuna facilità per le lingue (avendo tentato due volte e tre l'inglese, né mai venutone a capo; ed ultima- mente in Parigi nel 90 prima d' ire in Inghilterra la quarta volta : e tradussi allora di Pope il Windsor^ e cominciai il Saggio su l'uomo)*; venuto a tale età senza aver mai saputa una gramma- tica qualunque, neppur l'italiana, nella quale non errava forse oramai, ma per abitudine del leggere, non per poter dare né ra- gione né nomi dell'operato; con questo bel corredo d'impedi- menti fisici e morali, tediato dal leggere quelle traduzioni, presi con me stesso l'impegno di voler tentare di superarli da me; ma non ne volli parlare con chi che sia, neppure con la mia donna, che è tutto dire. Consumati avendo dunque già due anni su i confini della Grecia, senza mai essermivi potuto introdurre altro che colla coda dell'occhio, mi irritai, e la volli vincere. > Nei nessi una volta usati ad indicare gruppi di lettere. * Il poemetto intitolato Wlndsor's foresi. * Serie di belle epistole filosofiche del Pope (1733-34). La vita 271 Comprate dunque grammatiche a iosa, prima nelle greco-latine, poi nelle greche sole, per far due studi in uno, intendendo e non intendendo, ripetendo tutti i giorni il tupto^, e i verbi cir- conflessi, e i verbi in mi^ (il che presto svelò il mio arcano alla signora, che vedendomi sempre susurrar fra le labbra, volle final- mente sapere, e seppe quel ch'era); ostinandomi sempre più, sforzando e gli occhi e la mente, e la lingua, pervenni in fine dell'anno 1797 a poter fissare qualunque pagina di greco, qua- lunque carattere, prosa o verso, senza che gli occhi mi trabal- lassero più; ad intendere sempre benissimo il testo, facendo il contrario su la colonna latina di quel che avea fatto dianzi sul greco, cioè gittando rapidamente l'occhio su la parola latina cor- rispondente alla greca, se non l'avea mai vista prima, o se me ne fossi scordato; e finalmente a leggere ad alta voce spedita- mente, con pronunzia sufficiente, rigorosa per gli spiriti, e ac- centi, e dittonghi come sta scritto, e non come stupidamente pronunziano i Greci moderni, che si son fatti senza avvedersene un alfabeto con cinque jota; talché quel loro greco è un con- tinuo iotacismo*, un nitrir di cavalli più che un parlare del più armonico popolo, che già vi fosse. Ed aveva vinto questa dif- ficoltà del leggere e pronunziare, col mettermi in gola, ed ab- baiare ad alta voce, oltre la lezione giornaliera di quel classico che studiava, anche ad altre ore, per due ore continue, ma senza intendere quasi che nulla, attesa la rapidità della lettura, e la romba della sonante alta pronunzia, tutto Erodoto, due volte Tu- cidide con lo Scoliaste* suo, Senofonte, tutti gli oratori minori, e due volte il Proclo sovra il Timeo di Platone', non per altra ragione, fuorché per essere di stampa più scabra a leggersi, piena di abbreviature. Né una tale improba fatica mi debilitò, come avrei creduto e temuto, r intelletto. Che anzi ella mi fece, per così dire, risor- gere dal letargo di tanti anni precedenti. In quell'anno 97, portai > Uno del primi verbi studiiH come paradigmi. • Una delle grandi claasi in cui si dividono i verbi gred. » La pronunzia del greco moderno non corrisponde sempre né a quella antica, ne alla grafia. Jotaclsmo è il prevalere del «nono della /, chiamata appunto In greco Iota. • Il suo antico commentatore. • Proclo, filosofo della scuola neo-platonica di Alessandria, compose un celebre commento al Timeo, dialogo nel quale Platone espone la teoria delle idee. 272 Vittorio Alfieri ' le satire al numero di 17 come sono. Feci una nuova rassegna delle molte e troppe rime, che fatte ricopiare limai, E finalmente, i cominciatomi ad invaghire del greco quanto più mi parerd'an- ' darlo intendicchiando, cominciai anche a tradurre; prima l'Ai- ceste d'Euripide, poi il Filottete di Sofocle, poi i Persiani dì Eschilo, ed in ultimo per avere, o dare un saggio di tutte», le Rane di Aristofane. Né trascurai il latino, perchè = del greco; che anzi in quell'anno stesso 97 lessi e studiai Lucrezio e Plauto, e lessi il Terenzio, il quale per una bizzarra combinaziona»io mi trovava aver tradotto tutte le sei commedie a minuto ^ senza però averne mai letta una intera. Onde se sarà poi vero ch'io l'abbia tradotto, potrò barzellettare col vero, dicendo d'averlo tradotto, prima d'averlo letto, o senza averlo letto. Imparai anche oltre ciò i metri diversi* d'Orazio, spinto dalla vergogna di averlo letto, studiato, e saputo direi a memoria, senza saper nulla de' suoi metri ; e così parimente presi una suf- ficiente idea dei metri greci nei Cori^ e di quei di Pindaro, e d'Anacreonte. In somma in quell'anno 97, mi raccorcila le orec- chie di un buon palmo almeno ciascuna; né altro scopo m'era prefisso da tanta fatica, che di scuriosirmi, disasinirmi, e tornii il tedio dei pensieri dei Galli, cioè disceltizzarmi. CAPITOLO VIQESIMOSESTO Frutto da non aspettarsi dallo studio serotino della lingua greca ; io scrivo (spergiuro per l'ultima volta ad Apollo) VAlceste Seconda. Non aspettando dunque, né desiderando altro frutto che i so- pradetti, ecco, che il buon padre Apollo me ne volle egli spon- taneamente pure accordar uno, e non piccolo, per quanto mi pare. Fin dal 96 quando stava leggendo, com'io dissi, le tradu- zioni letterali, avendo già letto tutto Omero, ed Eschilo, e So- focle, e cinque tragedie di Euripide, giunto finalmente s\V Ai- ceste, di cui non avea mai avuta notizia nessuna', fui si colpito, 1 Sott. le opere drammatiche greche. * Sott. infatuato, innamorato, oppure : a causa, a motivo del greco. » Un po' alla volta, a piccoli brani. ♦ La metrica, la struttura dei versi oraziani. • Le parti liriche delle tragedie. • Raccorciai. ' Alcuna. La vUa 273 e intenerito, e avvampato dai tanti affetti di quel sublime sog- getto, che dopo averla ben letta, scrissi su un fogliolino, che serbo, le seguenti parole. * Firenze 18 gennaio 1796. Se io non « avessi giurato a me stesso di non più mai comporre tragedie, « la lettura di questa Alceste di Euripide mi ha talmente toccato « e infiammato, che così su due piedi mi accingerei caldo caldo € a distendere la sceneggiatura d'una nuova Alceste, in cui mi € prevarrei di tutto il buono del greco, accrescendolo se sapessi, « e scarterei tutto il risibile, che non è poco nel testo. E da prima € cosi creerei i personaggi diminuendoli *. E vi aggiunsi i nomi dei personaggi quali poi vi ho posto ; né più pensai a quel foglio. E proseguii tutte l'altre di Euripide, di cui non più che le pre- cedenti, nessuna mi destò quasi che niun affetto. Tornando poi in volta l'Euripide da rileggersi, come praticava di leggere ogni cosa due volte almeno, venuta V Alceste, stesso effetto, stesso tras- porto, stesso desiderio, e nel settembre dell'anno stesso 96 ne stesi la sceneggiatura, coli* intenzione di non farla mai. Ma in- tanto aveva intrapresa a tradurre la prima di Euripide, ed in tutto il 97 l'ebbi condotta a termine: ma non intendendo allora, come dissi, punto il greco, l'ebbi per allora tradotta dal latino. Tuttavia quell'aver tanto che fare con codesta Alceste nel tradurla, sempre di nuovo mi andava accendendo di farla di mio; final- mente venne quel giorno, nel maggio 98, in cui mi si accese tal- mente la fantasia su questo soggetto, che giunto a casa dalla passeggiata, mi posi a stenderla, e scrissi d'un fiato il primo atto, e ci scrissi in margine: « steso con furore maniaco, e lagrime molte »; e nei giorni susseguenti stesi con eguale impeto gli altri quattr'atti, e l'abbozzo dei cori, ed anche quella prosa che serve di schiarimento, e il tutto fu terminato il dì 26 maggio, e così sgravatomi di quel si lungo e si ostinato parto, ebbi pace; ma non per questo disegnava io di verseggiarla, né di ridurla a termine. Ma nel settembre del 98 continuando, come dissi, lo studio vero del greco, con molto fervore mi venne pensiero di andare sul lesto riscontrando la mia traduzione dtWAlceste prima, per cosi rettificarla, e sempre imparar qualche cosa di quella lingua, che nulla insegna quanto il tradurre, a chi s'ostina di rendere, o di almeno accennare ogni parola, imagine, e figura del testo. Rimpelagatomi dunque neWAlceste prima*, mi si riaccese per la > Da Ini tradotta dal trsto di Euripide. 18. - CUuiitl ItaUarl. N. ?. 274 Vittorio Alfieri quarta volta il furor della mia, e presala, e rilettala, e pianto assai, e piaciutami, il dì 30 settembre 98 ne cominciai i versi, e furon finiti anche coi cori verso il dì 21 ottobre. Ed ecco in qual modo io mi spergiurai dopo dieci anni di silenzio. Ma tuttavia, non volendo io essere né plagiario, né ingrato, e riconoscendo questa tragedia esser pur sempre tutta di Euripide, e non mia, fra le traduzioni l' ho collocata, e là dee starsi, sotto il titolo di Alceste Seconda, al fianco inseparabile d&W Alceste Prima sua madre. Di questo mio spergiuro non avea parlato con chi che sia, nep- pure alla metà di me stesso. Onde mi volli prendere un diver- timento, e nel decembre invitate alcune persone la lessi come traduzione di quella di Euripide, e chi non l'avea ben presente, ci fu colto fin passato il terz' atto ; ma poi chi se la rammentava svelò la celia, e cominciatasi la lettura in Euripide, si terminò in me'. La tragedia piacque; ed a me come cosa postuma non dis- piacque ; benché molto ci vedessi da torre e limare. Lungamente ho narrato questo fatto, perché se qatW Alceste sarà col tempo tenuta per buona, si studi in questo fatto la natura spontanea dei poeti d' impeto, e come succede che quel che vorrebbero fare talvolta non riescono, e quel che non vorrebbero si fa fare e riesce. Tanto é da valutarsi e da obbedirsi l'impulso naturale febeo. Se poi non è buona, riderà il lettore doppiamente a mie spese sì nella Vita che ntW Alceste, e terrà questo capitolo come un' anticipazione su 1' Epoca quinta da togliersi alla virilità, e regalarsi alla vecchiaia. Queste due Alcesti saputesi da alcuni in Firenze, svelarono anche il mio studio di greco, che avea sempre occultato a tutti ; per fino all'amico Caluso ; ma egli lo venne a sapere nel modo che dirò. Aveva mandato verso il maggio di quest'anno un mio ritratto, bel quadro molto ben dipinto dal pittore Saverio Fabre', nato in Montpellier, ma non perciò punto Francese. Dietro a > Su questa tragedia v. O. Curiale, L'Alceste d'Euripide e dell'Alfieri, Palermo, 1907. « Il pittore Pasquale Saverio Fabre (1766-1834), creato poi barone da Luigi XVIII, fu di principj conservatori ed aristocratici, e coll'A. si legò in Firenze, fin dal 1793, appunto pel comune odio verso la Rivoluzione ; sei anni dopo, se non già prima, nutriva per la Stolberg sentimenti non di sola amicizia, che amareggiarono gli ultimi anni dell* A., il quale ha serbato un dignitoso, austero silenzio sopra questo episodio della sua vita. Dalla Stolberg il Fabre ereditò carte, libri ecc., appartenuti al poeta, che egli lasciò alla sua città natale e fanno ora parte del Museo Fabre. La vita 275 quel mio ritratto, che mandava in dono alla sorella, aveva scritto due versetti di Pindaro. Ricevuto il ritratto, graditolo molto, vi- sitatolo per tutti i lati, e visti da mia sorella quei due scaraboc- chini greci, fece chiamare l'amico anche suo Caluso, che glie li interpretasse. L'abate conobbe da ciò che io aveva almeno im- parato a formare i caratteri ; ma pensò bene, che non avrei fatta quella boriosa pedanteria e impostura di scrivere un'epigrafe che non intendessi. Onde subito mi scrisse per tacciarmi di dis- simulatore, di non aver mai parlato di questo mio nuovo studio. Ed io allora replicai con una letterina in lingua greca, che da me solo mi venne raccozzata alla meglio, di cui darò qui sotto il testo e la traduzione*, e ch'egli non trovò cattiva per uno stu- dente di cinquant'anni, che da un anno e mezzo circa s'era posto alla grammatica; ed accompagnai con la epistoluzza greca, quattro squarci delle mie quattro traduzioni, per saggio degli studi fatti sin a quel punto. Ricevuto così da lui un po' di lode, mi con- fortai a proseguire sempre più caldamente. E mi posi all'ottimo esercizio, che tanto mi avea insegnato si il latino che l'italiano, di imparare delle centinaia di versi di più autori a memoria. Ma in quello stess'anno 98, mi toccò in sorte di ricevere e scrivere qualche lettere da persona ben diversa in tutto dall'a- mico Caluso. Era, come dissi, e come ognun sa, invasa la Lom- bardia dai Francesi, fin dal 96, il Piemonte vacillava, una trista tregua sotto il nome di pace avea fatta l'imperatore a Campo- Formio col dittator francese ; il papa era traballato, ed occupata e schiavi-democrizzata la sua Roma ; tutto d'ogni intorno spirava miseria, indegnazionc,ed orrore. Era allora ambasciatore di Francia in Torino un Oinguené', della classe, o mestiere dei letterati in Parigi, il quale lavorava in Torino sordamente alla sublime im- presa di rovesciare un re vinto e disarmato*. Di costui ricevei inaspettatamente una lettera, con mio grande stupore e ramma- rico ; si la proposta che la risposta ; e la replica e controreplica » V. Appendice I. » Pietro Luigi OinifUfné (17481816), ambasciatore di Francia presso la corte sarda, fu letterato non spregevole, come vorrebbe far intendere l'A., lasciò tra l'allro una ottima Histoire Uttéraire de l'Italie che giunge alla neti Jel secolo XVI ; quest'opera venne poi continuata a tutto il '600 da Francesco Salfi. » Vittorio Amedeo HI, il quale fu coatrctto ad a(>dicare nel dicembre del 17W. 276 Vittorio Alfieri inserisco qui a guisa di note\ affinchè sempre più si veda, chi ne volesse dubitare, quanto siano state e pure e rette le mie in- tenzioni ed azioni in tutte codeste rivoluzioni di schiaveria. Pare dall'andamento di queste due lettere del Ginguené che avendo egli ordine dai suoi despoti di asservire alla libertà fran- cese il Piemonte e cercando di sì fatta iniquità dei vili ministri, egli mi volesse tastar me per veder se mi potevan anco disono- rare, come mi aveano impoverito. Ma i beni mondani stanno a posta della tirannide, e l'onore sta a posta di ciascuno individuo che ne sia possessore. Quindi dopo la mia seconda replica non ne sentii più parlare; ma credo che costui si servisse poi della notizia che l'abate di Caluso gli diede per parte mia circa alle balle mie di libri non pubblicati per farne ricerca e valersene come in appresso si vedrà. La nota dei miei libri ch'egli dicea volermi far restituire e ch'io credo che già tutti se li fosse ap- propriati a sé *, sarebbe risibile s' io qui la mostrassi. Ella era di circa 100 volumi di tutti gli scarti delle più infime opere italiane; e questa era la mia raccolta lasciata in Parigi sei anni prima di circa 1600 volumi almeno; scelti tutti i Classici italiani e latini. Ma nessuno se ne stupirebbe di una tal nota, quando sapesse ch'ella dovea essere una restituzione francese. 1 V. Appendice IL s II malanimo dell'A. che or ora ha affermato la sua stima pel monar- chico ed aristocratico Fabre, del quale avrebbe avuto ben altro che da lodarsi, si rivela qui nella sua interezza: oltre all'avventare contro il Oin- guené.'sol perchè repubblicano, un sospetto ingiurioso che rasenta la ca- lunnia, non gli dimostra neppur la benché minima gratitudine per la resti- tuzione dei suoi manoscritti (V. lettere !• e 3» AtW'App. II). Cfr. del resto lo scritto di P. L. Oinquené, Lettres à un Académicien de l'Acarìcmie de Turin sur un passage de la Vie de Vittorio Al/ieri, Paris, 1809. La vita 277 APPENDICE I. Ttp Ilavoóqpcp eSMAt KAAOrSISt TaSxag TievxTìxovxaEToOs vsavCoxoo OriKTOPIOS AA^HPIOS «tj TÒg 'EXXTjvixàg el-aYOYàj x^ 8i6T(qt aÙTo5i5axxoc 67r6|i::ev sxet qt4'€C* EnciÌT], & cpUxaxe, àpxóvxoav :iavxaxòu, òXiyco tzì, xtov 2o6X(0v, 8»jfi£u)v xù)v iyaOwv éxifq) èTcàvto xf,f xstpaXfJg àsl èJitxeixai 6 néXéxyj' xo3 X6 IlivSàpou -apatvéaavxog, fixi 8óXiog aìwv *En* ivip&ai xp&{xaxai 'EXJoawv PiÓTOo Jiópov. èjiol 8é8oxxai xtòv Iwg xfjg oTjnepov jrctvxtóv fiou ouTypap,- {idxtov, ècp* ole 1^ 6Xtj d;X»]9(3g (i( f& [i(av ?gofia£ noxe) IjiTJ èjiv o?)o(a, dbXXà (ìiqv xèv Tifvaxa Jtpòg oè, wanep èv Uptf» a(Dd^T]od)i«voy, napaSoDvai. 'E^^coao. Al dottissimo TOMMASO CALUSO questi preposteri trastulli di giovinetto quinquagenario VITTORIO ALFIERI il menomo de' diKepoli ■gli elementi greci in un biennio per se stesso ammaestrato mandava l'anno 1797. Poiché, o carissimo, dominando presso che per tutto gli schiavi boja, sul capo a ciascun buono sempre sovrasta la scure, e ci ammonisce Pin- daro, che L'età ingannevol pende Sugli uomini, volgendo della vita Il corso e la partita; ho ri>.oiuto (il tutte l'opere mie sino al di d'oggi, che sono il totale avere (se alcun saranrte mai) veramente mio, almeno l'indice de' titoli deporre presso di te quui in tempio, che il salvi. Sta sano. 278 Vittorio Alfieri APPENDICE IL Monsleur le Comte. Un Frangais ami des lettres, pénétré depuis long-temps d' admiration pour votre genie et vos talents, est assez heureux pour pouvoir reniettre entre vos mains un dépòt très prédeux que le hasard a fait tomber dans. les siennes. Il habite en ce moment une partie de l'Italie qui se glorifie de vou9 avoir vu naìtre, et une ville ou vous avez laissé des souvenirs, des adrai- rateurs, et sans doute aussi des amis. Veuillez écrire à l'un de ces demiers, et le charger de venir conférer avec lui sur cet objet. Le premier signe de votre accession à la correspondance qu' il désire ouvrir avec vous, Monsieur le Comte, lui permettra de vous exprimer avec plus d'étendi:e et de liberté, les seiitiments dont il fait profession pour l'un des horames qui, sans distinction de pays, honorent le plus aujourd'hui la république des lettres. Turin, le 25 Floréal an 6 de la République Fran9aise. (14 Mai 1798. v. st.). OlNOUENÉ Ambassadeur de la Rép. Fran(. à la Cour de Sardaiene, Membre de l'institat N. de France. Sig. Ambasciatore Padron mio Stimatissimo. Le rendo quante so più grazie per le gentilissime espressioni della di lei lettera, e per la manifesta intenzione ch'ella mi vi dimostra di volermi prestare un segnalato servigio, non conoscendomi. Per adattarmi dunque pienamente ai mezzi ch'ella mi propone, scrivo per questo stesso Corriere al Sig. Abate di Caluso, Segretario di codesta Accademia delle Scienze, pregandolo di conferire sul vertente affare col Sig. Ambasciatore qualora egli ne venga richiesto. Questi è persona degnissima, e certamente le sar.ì noto per fama: egli è mio specialissimo ed unico amico, e come ad un altro me stesso ella può sicuramente affidare qualunque cosa mi spetti. Non so qual possa essere codesto prezioso deposito ch'ella si compiace di accennarmi: so, che la più cara mia cosa e la sola oramai prezir>sa ai miei occhi, eli' è la mia totale indipendenza priv.ita; e questa anche 4 di- spetto dei tempi, io la porto sempre con me in qualunque luogo o stato piaccia alla sorte di strascinarmi. Non è perciò di- nulla minore la gratitudine ch'io le professo per la di lei spontanea e generosa sollecitudine dimostratami. E con tutta la stima passo a rassegnarmele Firenze di 28 maggio 1798. Suo Devotiss. Serv» Vittorio AtrieRi. La vita 279 Monsieur le Corate. Turin le 16 Prairial an 6 de la Rép. Fram. (4 Jnin 1798. v. st.). Vous ne pouviez choisir, pour recevoir la confidence qne j'avois à vous faire, aucnn intermédiaire qui me fùt plus agréable que Mr. l'Abbé de Ca- luso, dont je connois et apprécie la science, les talens, et l'amabilité. Je lui ai fait ma confession et lui ai remis le précieux dépót dont je m'étois chargé. Vous reverrez des enfans qui on fait, qui font encore, et feront de plus en plus du bruit dans le monde. Vous les reverrez dans l'état oìi ils étoient avant de sortir de la maison paternelle, avec leurs premiers défauts, et les traces intéressantes des triples soins qui les en ont corrigés. Je remets donc entre les mains de votre ami, ou plutót dans les vótres, Monsieur le Corate, toute votre illustre famille. Ne me parlez point, je vous prie, de reconnoissance. Je fais ce que tout autre homrae de lettres eiit sans doute fait à ma place, et nul certainement ne l'eùt fait avec autant de plaisir, ni par conséquent avec moins de me- fite. .Wr. l'Abbé de Caluso vous dira la seule condition que je prenne la libcrté de vous prescrirc, et j'y compie corame si j'en avois re?u votre parole. Je joins id, Monsieur le Corate, la liste de vos livres laissés à Paris, tels qu'ils se sont trouvés dans un des dépóts publics, et tels qu'on les y conserve. J'ignore commcnt ils y ont été placés sous le faux prétexte d'éraigration. Tout cela s'est fait dans un teras dont il faut gémir, et oìi ]'étois plongé dans un de ces antres dont la tyrannie tiroit chaque jour ses victiraes. Jeté depuis dans les fonctions publiques qui ne sont pour moi qu' une autre captivité, j' ai eu le bonheur de découvrir dans un des établissemens dont j' avois la surveillance generale, vos livres, dont j' ai fait dresser la liste. Veuillez, Monsieur le Corate, reconnottre si ce sont à peu prè» tous ceux que vous aviez laissés. S' il en manquoit d'importans, faites-en la note, autant que vous le pourrez, de mémoire, ou ce qui vou- droit encore raieux, recherchez si vous n'en auriez point quelque part le catalogue. Je ne demande ensuite qne votre permission pour réclamer le tout en mon propre nom et sans que vous soyez p>our rìen dans cette affaire. Je connois tous les raotifs qui peuvent vous faire désirer que cela se traite ainsi, et je les respecte. Jc vottt préviens, Monsieur le Comte, que parrai vos livres imprimés, U »• en trouvera un de moini : ce sont vos oeuvres. Dans l'étude assidue que je ials de votre belle langiie, la lecture de vos tragédies-est une de celles Oli je trouve le plus de fruit et de plaisir. Je n'avois que votre pre- miere édition: je me suis eniparé de la seconde (celle de Didot). L'exem- pUire que j'ai a pourtant deux défauts pour moi, celui d'étre trop riche- raent relié, trop mtgnifique, et celui de ne m'éfre pas donne par vous. Si vous avcz à votre disposi tion un exemplaire brocbé, de la mcme édition, ou d'une édition posterie ure faife en Italie, je le reccvral de vous avec un plaisir bien vif, corame un fémoijrnagc de quelqiie part dans votre estime, et Je remettral à Mr. l'Abbé de Caluso l'exeraplaire trop richc, mais unique, qni reste cbez moi, et qui n'y reste pas oisif. Le sort a voulu que de tous le» Fran;ais envoyés presquc en m€mc tenips dans les diverses residence! d' Italie, celui qui aime le plus ce beau 280 Vittorio Alfieri pays, sa langue, ses arts, qui eùt mis le plus de prix à le parcourir et en eùt peut-ètre d'après ses études antérieures retiré le plus de fruit lit- téraire, a été fixé daiis le péristyle du tempie, sans savoir s'il lui sera permis d'y entrer. J'ai maintenant une raison de plus pour désirer bien ardemment d'aller ab moins jusqu' à Florence. Je m'estinierois infiniment heureux, Monsieur le Comte, de pouvoir m'y rendre auprès de vous, et de faire personnel- lement connoissance avec un homme qui honore sa nation et son siècle, par son genie, et par l'élévation des sentimens qui respirent dans ses ouvrages. Agréez, je vous prie, l'assurance de ma profonde estime, de mon admi- ration et de mon entier dévoueraent. OlNGUENÉ Membre de l' Insti t ut A', de Frane e. Ambassadeur de la Répnbl. Franfaise près S. M. le roi de Sardaigne. Padrone mio stimatiss. 11 Giugno 179S. Poich'ella ha letto e legge qualche volta alcune delle mie opere, certa- mente è convinta, che il mio carattere non è il dissimulare. Le asserisco dunque candidamente, che quanto mi è costato di dover pure rispondere alla prima sua lettera, altrettanto con ridondanza di cuore io replico a questa seconda; poiché in una certa maniera senza essere né impudente ne indiscreto, separando il Sig. Ginguené letterato dall'Ambasciator di Francia, io posso rispondere al figlio d'Apollo soltanto. Le grazie eh' io le rendo per il servigio segnalatissimo da lei prestatomi, saran molto brevi ; appunto perchè il beneficio è tale da non ammettere parole. Le dico dunque soltanto che il di lei procedere a mio riguardo è stato per l'appunto quello che io in simili circostanze avrei voluto praticare verso lei, non poco pre- giandomi di poterlo pur fare. Circa poi al segreto su di ciò, che per via del degnissimo abate di Caluso mi viene inculcato, e che a lei fu promesso in mio nome dall'amico, io lo prometto di bel nuovo per ora, e lo debbo osservare: ma non glie lo prometto certamente per dopo noi, e mutati i tempi. L'esser vinto in generosità non mi piace. Onde se mai le mie tra- gedie avran vita, non è giusto che chi generosamente salvava la loro de- formità primitiva dall'essere forse appalesata e derisa, non ne riporti quel testimonio soletme di lealtà meritato. Intanto a quell'esemplare di esse, ch'ella mi dice di aver presso di se, coi due soli difetti di essere troppo pomposamente legate, e non donatele da me stesso, già gli vien tolto il secondo difetto fin da questo punto, in cui mi fo un vero pregio di tribu- targliele ; ed ella mi mortificherebbe veramente se non si degnasse accet- tarle; correggerò poi il primo difetto, con ispedirKiifne altra copi;» ed aggiungervi alcune altre mie operette, che tutte più umilmente legate, avranno così un abito piìi conforme alla loro persona. Quanto poi a quella nota de' miei libri ch'ella sì è compi icluta di trasmet- termi; offrendomi con delicatezza degna di lei d'intromettersi per la resti- La vita 281 tazione di essi, senza eh' io ci apparisca in nessuna maniera ; le dirò pure sinceramente, che non Io gradirei, ed eccogliene le ragioni. I libri da me lasciati in Parigi erano assai più di 1500 volumi, fra' quili erano tutti i prin- cipali Classici Greci, Latini e Italiani. La lista mandatami non contiene che circa 150 volumi e tutti quanti libri dì nessun conto. Onde vedo chiaramente che il totale de' miei libri è stato o disperso, o tolto via, o riposto in diversi luoglii. 11 rintracciarlo dunque riuscirebbe cosa od impossibile, o diKici- lissima, p>enosissima, e fors' anche pericolosa; o almeno di gran disturbo per lei, quando io avessi la docilità indiscreta di acconsentire alle sue esi- bizioni. E chiaro che non si può riaver cosa tolta, senza ritoglierla a qualch' altro ; e le restituzioni volontarie son rare ; le sforzate sono odiose, e non senza pericoli. Aggiunga poi che gran parte di quei libri stessi io gli ho poi successivamente ricomprati in questi sei anni dopo la mia par- tenza di Parigi ; tutte queste considerazioni m'inducono a ringraziarla senza prevalermi dell'offerta: oltreché poi meglio d'ogni altra cosa si confà col mio animo il non chieder mai nulla né direttamente né indirettamente, da chi che sia. Desidero di potere, quando che sia, in qualche maniera testimoniarle la mit gratitudine, e la stima con la quale me le professo Suo Devotiss. Servo Vittorio Aifieru 2S2 Vittorio Alfieri CAPITOLO VIOESIMOSETTIMO Misogallo finito. Rime chiuse colla Teleutodia. h' Abete ridotto ; cosi, le due AlcesU,t 1 Ammonimento. Distribuzione ebdomadaria di studi Prepa- rato COS., e munito delle lapide sepolcrali, aspetto l'invasion de* Fran- cesi, che segue nel Marzo 99. Cresceva frattanto ogni dì più U pericolo della Toscana, stante la leale amicìzia che le professavano i Francesi. Già fin dal de- cembre del 98 aveano essi fatta la splendida conquista dì Lucca, e di là minacciavano continuamente Firenze, onde ai primi del 99 parca imminente l'occupazione. Io dunque volli preparare tutte le cose mie, ad ogni qualunque accidente fosse per succedere. Fin dall'anno prima avea posto fine per tedio al Misogallo, e fatto punto all'occupazione dì Roma, che mi pareva la più bril- lante impresa dì codesta schiaverìa. Per salvare dunque que- st'opera per me cara ed importante ne feci fare sino in dieci copie, e provvisto che in diversi luoghi non si potessero né annul- lare, né smarrire, ma al suo debito tempo poi comparissero'. Quindi, non avendo io mai dissimulato il mio odio e disprezzo per codesti schiavi malnati, volli aspettarmi da loro ogni vio- lenza, ed insolenza, cioè prepararmi bene al solo modo che vi sarebbe dì non le ricevere. Non provocato, tacerei ; ricercato in qualunque maniera, darei segno dì vita e di libero. Disposi dunque tutto per vìvere incontaminato, e libero, e rispettato, ovvero per morir vendicato se fosse bisognato =. La ragione che mi indusse a scrivere la mia vita, cioè perchè altri non la scrivesse peggio di me, mi indusse allora altresì a farmi la mia lapide sepolcrale, e così alla mia Donna, e le apporrò qui in note', perchè desi- dero questa e non altra, e quanto ci dico è il puro vero, sì di me, che di lei, spogliato di ogni fastosa amplificazione. Provvisto così alla fama, o alla non infamia, volli anco prov- vedere ai lavori, limando, copiando, separando il finito dal no, e ponendo il dovuto termine a quello che l'età e il mio proposto 1 II Misogallo non vide la luce che dopo la morte dell'A., colla falsa data di Londra, 1800 [Firenze, Piatti, 1804J. 2 Dai Misogallo, a cui affidava . le vendette dell'Italia e ìh* .. Sembra ch'egli avesse disposto affinchè alla sua morte, se fosse caduto vittima dei Francesi, seguisse immediata la pubblicazione di quel libro [B.\ • V. Appendice. La vita 283 volevano. Perciò volli col compiere degli anni cinquanta frenare e chiudere per sempre la soverchia fastidiosa copia delle rime, e ridottone un altro tometto purgato consistente in Sonetti 70, Capitolo 1, e 39 Epigrammi, da aggiungersi alla prima parte di esse già stampate in Kehl, sigillai la lira, e la restituii a chi spet- tava, con una Ode sull'andare di Pindaro, che per fare anche un po' il grecarello intitolai Teleutodìa^. E con quella chiusi bottega per sempre ; e se dopo ho fatto qualche sonettuccio o epi- gramrauccio, non l'ho scritto; o se l'ho scritto non l'ho tenuto, e non saprei dove pescarlo, e non lo riconosco più per mio. Biso- gnava finir una volta, e finire in tempo, e finire spontaneo, e non costretto. L'occasione dei dieci lustri spirati, e dei Barbari anttlirici soprastantimi non potea esser più giusta ed opportuna ; l'afferrai, e non ci pensai poi mai più. Quanto alle traduzioni, il Virgilio mi era venuto ricopiato e corretto tutto intero nei due anni anteriori, onde lo lasciava sus- sistere; ma non come cosa finita. II Sallustio mi parea potere stare; e lasciavalo. Il Terenzio no, perchè una sola volta lo avea fatto, né rivistolo, né ricopiatolo ; come non lo è adesso neppure. Le quattro traduzioni dal greco, che condannarle al fuoco mi doleva, e lasciarle come cosa finita pur non poteva, poiché non l'erano, ad ogni rischio del se avrei il tempo o no, intrapresi di ricopiarle sì il testo che la traduzione, e prima di tutto V Alceste per ritradurla veramente dal greco, che non mi sapesse poi di tra- duzione di traduzione. Le tre altre bene o male, erano state diret- tamente tradotte dal testo, onde mi dovean costar poi meno tempo e fatica a correggerle. V Abele, che era oramai destinata ad essere (non dirò unica) ma sola, senza le concepite e non mai eseguite compagne, l'avea fatta copiare, e limata, e mi parea potere stare. Vi si era pure aggiunto alle opere di mio negli anni precedenti una prosacela brevina politica, intitolata Ammo- nimento alle Potenze italiane ; questa pure l'avea limata, e fatta copiare, e lasciavala. Non già che io avessi la stolida vanagloria di voler fare il politico, che non è l'arte mia; ma si era fatto fare quello scritto dalla giusta indegnazione che mi aveano inspirata le polìtiche, certo più sciocche della mia, che in questi due ul- timi anni avea visto adoprare dalla impotenza dell'Imperatore, I Canto rinale : parolt contata dall'A., al quale par>-e atta < perfetta* mentr... a definire un agonizzante poeta ed un nascente pedante >. 284 Vittorio Alfieri e dalle impotenze italiane. Le Satire finalmente, opera ch'io avea fatta a poco a poco, ed assai corretta, e limitata, le lasciava pu- lite, e ricopiate in numero di 17 quali sono; e quali pure ho fis- sato e promesso a me di non piìi oltrepassare. Così disposto, e appurato del mio secondo patrimonio poetico smaltatomi il cuore', aspettava gli avvenimenti. Ed affinchè al mio vivere d'ora in poi, se egli si dovea continuare, venissi a dare un sistema più confacente all'età in cui entrava, ed ai di- segni ch'io m'era già da molto tempo proposti, fin 'dai primi del 99 mi distribuii un modo sistematico di studiare regolar- mente ogni settimana, che tuttora costantemente mantengo e manterrò finch'avrò salute e vita per farlo. Il lunedì e martedì destinati, le tre prime ore della mattina appena svegliatomi, alla lettura e studio delia sacra Scrittura; libro che mi vergognava molto di non conoscere a fondo, e di non averlo anzi mai letto sino a quell'età. Il mercoledì e giovedì. Omero, secondo fonte d'ogni scriverei II venerdì, sabato, e domenica, per quel prim'anno e più II consecrai a Pindaro, come il più difficile e scabro di tutti i greci, e di tutti i lirici di qualunque lingua, senza eccet- tuarne Giobbe e i profeti. E questi tre ultimi giorni mi propo- neva poi, come ho fatto, di consecrarli successivamente ai tre tragici, ad Aristofane, Teocrito, ed altri sì poeti che prosatori, per vedere se mi era possibile di sfondare'', questa lingua, e noti dico saperla (che è un sogno), ma intenderla almeno quanto fo Il latino. Ed il metodo che a poco a poco mi andai formando, mi parve utile; perciò lo sminuzzo, che forse potrà anche gio- vare così, o rettificato, a qualch'altri che dopo me intrapren- desse questo studio. La Bibbia la leggeva prima in greco, ver- sione dei LXXS testo vaticano, poi la raffrontava col lesto' ales- sandrino ; quindi gli stessi due, o al più tre capitoli di quella mattina, li leggeva nei Diodati* italiani, che erano fedelissimi al testo ebraico; poi li leggeva nella nostra volgata latina», poi in 1 Rivestitomi di smalto 11 cuore, cioè fattomi impassìbile, imperturbabile » Primo considerando l'A. la Sacra Scrittura. * Penetrare a fondo, approfondirsi nella conoscenza. « Nome dato alla traduzione greca dell'Antico Testamento, fatta da set- tantadue ebrei di Egitto, per ordine di Tolomeo Filadelfo nel 282 o 283 a. C. E la versione più antica e più celebre. 0 Teologo svizzero (1576-161')) ai tempi suoi l'erudito più versato negli studi biblici. La sua traduzione italiana della Bibbia (1607) si ristampa ancora. • Versione latina della Bibbia condotta su quella dei settanta e riveduta La vita 285 ultimo nella traduzione interlineare fedelissima latina del testo ebraico ; col quale bazzicando così più anni, ed avendone impa- rato l'alfabeto, veniva anche a poter leggere materialmente la parola ebraica, e reccapezzarne così il suono, per lo piìi brut- tissimo, ed i modi strani per noi, e misti di sublime e di barbaro. Quanto poi ad Omero, leggeva subito nel greco solo ad alta voce, traducendo in latino letteralmente, e non mi arrestando mai, per quanti spropositi potessero venirmi detti, quei 60, o 80, o al piìi piìi 100 versi che volea studiare in quella mattina. Stor- piati così quei tanti versi, li leggeva ad alta voce prosodica- mente* in greco. Poi ne leggeva lo scoliaste greco, poi le note latine del Barnes, Clarch, ed Ernesto-; poi pigliando per ultimo la traduzione letterale latina stampata, la rileggeva sul greco di mio, occhiando la colonna, per vedere dove, e come, e perchè avessi sbagliato nel tradurre da prima. Poi nel mio testo greco solo, se qualche cosa era sfuggita allo scoliaste di dichiararla, la dichiarava io in margine, con altre parole greche equivalenti, al che mi valeva molto di Esichio*, dell'Etimologico', e del Fa- Torino'. Poi le parole, o modi, o figure straordinarie, in una colonna di carte le annotava a parte, e dìchiaravale in greco. Poi leggeva tutto il commento di Eustazio* su quei dati versi, che così m'erano passati cinquanta volte sotto gli occhi, loro e tutte le loro interpretazioni e figure. Parrà questo metodo noioso, e duretto ; ma era duretto anch'io, e la cotenna di 50 anni ha bisogno di ben altro scarpello per iscolpirvi qualcosa, che non quella di 20. Sopra Pindaro poi, io aveva già fatto gli anni precedenti uno studio più ancora di piombo, che i sopradetti. Ho un Pindaretto, di cui non v'è parola, su cui non esista un mio numero aritmetico notatovi sopra, per indicare, coli' un, due, e tre, fino talvolta da S. CHroIamo: il Concilio di Trento decise, nel 1546, che questo testo (oMc l'unico invocato dalla Chiesa. • Non metricamente, cioè secondo gli accenti tonici. » OiosuèlBtrnes (I6S4 1712) erudito inglese di cui fu celebre una edi- xlone greco-latina di Omero. — Samuele Clark (I675-I729) filosofo e teo- logo inglese il quale si era accinto ad una edizione greco-latina di Omero • lui richiesta da Qiorgìo I pel duca di Cumt>erland. — Giovanni Augusto Ernest! (1707-81) teologo e filosofo tedesco il quale curò buone edizioni del maggiori classici antichi. • Lessicografo alessandrino del V secolo. « FJymologIcum maenam, diHon. etimol. medievale della lingua greca. » Retore e sofisU nato ad Aries, morto verso il 135 dell'era volgare. • Vescovo di Tetsalonica, vissuto nel tecolo XII, compilò un lessico omerico. 289 Vittorio Alfieri anche a quaranta e più, qual sia la sede, che ogni parola rico- struita al suo senso deve occupare in que* suoi eterni e labi- rintici periodi. Ma questo non mi bastava, ed intrapresi allora nei tre giorni ch'io gli destinai, di prendere un altro Pindaro greco solo, di edizione antica, e scorrettissimo, e mal punteg- giato, quel del Calliergi' di Roma, primo che abbiagli scolj, e su quello leggeva a prima vista, come dissi dell'Omero, subito in latino letteralmente sul greco, e poi la stessa progressione che su l'Omero; e di più poi in ultimo una dichiarazione mar- ginale mia in greco dell'intenzione dell'autore; cioè il pensiero spogliato del figurato Così poi praticai su l'Eschilo e Sofocle, quando sottentrarono ai giorni di Pindaro: e con questi sudori, e pazze ostinazioni, essendomisi debilitata da qualch'anni assai la memoria, confesso che ne so poco, e tuttavia prendo alla prima lettura dei grossissimi granchi. Ma lo studio mi si è ve- nuto facendo sì caro, e sì necessario, che già dal 96 in poi, per nessuna ragione mai ho smesso, o interrotto le tre ore di prima svegliata, e se ho composto qualche cosa di mio, come l'Alceste, le Satire, e Rime, ed ogni traduzione, l'ho fatto in ore secon- darie, talché ho assegnato a me stesso l'avanzo di me, piuttosto che le primizie del giorno ; e dovendo lasciare, o le cose mie, o lo studio, senza nessun dubbio lascio le mie. Sistemato dunque in tal guisa il mio vivere, incassati tutti i miei libri, fuorché i necessari, e mandatili in una villa fuori di Firenze, per vedere se mi riusciva di non perderli una seconda volta, questa tanto aspettata ed abborrita invasione dei Francesi in Firenze ebbe luogo il dì 26 marzo del 99, con tutte le parti- colarità, che ognuno sa, e non sa, e non meritano d'essere sapute, sendo tutte le operazioni di codesti schiavi di un solo colore ed essenza. E quel giorno stesso, poche ore prima ch'essi v'entras- sero, la mia* donna ed io ce n'andammo in una villa fuor di Porta San Gallo presso a Montughi*, avendo già prima vuotata interamente d'ogni nostra cosa la casa che abitavamo in Firenze per lasciarla in preda agli oppressivi alloggi militari. > Zaccaria Calliergi filologo greco nato a Creta alla fine del secolo XV; ' diresse la tipografia greca istituita a Roma da Augusto Chigi: uscirono dai suoi torchi parecchie edizioni di classici greci famose per la correzione del testo e per la nitidezza della stampa; si ricordano specialmente un Teocrito (1516) ed il Pindaro (1494) al quale accenna l'A. * Piccola località a settentrione di Firenze, a circa un chilometro e mezzo fuori Porta S. Oallo. La vita 287 APPENDICE^ QVIESCIT . HIC . TANDEM VICTORIVS . ALFERIVS . ASTENSIS MVSARVM . ARDENTISSIMVS . CVLTOR VERITATI . TANTVMMODO . OBNOXIVS DOMINANTIBUS . IDCIRCO . VIRIS PER/EQUE . AC . INSERVIENTIBVS . OMNIBVS INVISVS . MERITO MULTITVDINI EO . QVOD . NVLLA . VNQVAM . OESSERIT PVBLICA . NEQOTIA lONOTVS OPTIMIS . PERPAVCIS . ACCEPTVS NEMINI NISI . FORTASSE . SIBIMET . IPSI DESPECTVS VIXIT . ANNOS MENSES DIES .... OBIIT DIE . . . MENSIS ANNO . DOMINI . MDCCC .... HIC . SITA . EST ALOYSIA . E . STOLBEROIS ALBANIA . COMITISSA GENERE . FORMA . MORIBVS INCOMPARABILI . ANIMI . CANDORE PR/ECLARISSIMA A . VICTORIO . ALFERIO IVXTA . QVEM . SARCOPHAGO VNO (•) TVMVLATA . EST ANNORVM SPATIO VLTRA . RES . OMNES . DILECTA ET . QVASI . MORTALE . NVMEN AB . IPSO . CONSTANTER . HABITA ET . OBSERVATA VIXIT . ANNOS MENSES DIES .... IN . HANNONIA . MONTIBVS . NATA OBIIT DIE . . . MENSIS ANNO . DOMINI . MDCCC (*) Sic inscribendum, me, ut optnor et opto, pcmorìente : sed aliter Jnbente Dee, aliter intcrìbendum. QVI . IVXTA . EAM . SARCOPAOHO . VNO CONDITVS . CRIT . QVAM . PRIMVM. 1 Queste eplp^afi vennero fatte incidere dall'A. tu due tavolette di nrmo, e riireste in prllp nera, a g^Ji-* Il Fabre vi aveva però presa stabile dimora \B\. * Risohttani' n(e. La vita 289 nemico. Og^i notte poteva esser quella che mi venissero cercare ; avea provvisto per quanto si potea per non lasciarmi sorpren- dere, né malmenare. Intanto si proclamava in Firenze la stessa libertà, ch'era in Francia, e tutti i piìi vili e rei schiavi trionfa- vano. Intanto io verseggiava, e grecizzava, e confortava la mia donna. Durò questo infelice stato dai 25 marzo ch'entrarono, fino al di 5 luglio, che essendo battuti, e perdenti in tutta la Lom- bardia, se ne fuggirono, per così dir, di Firenze, la mattina per tempissimo, dopo aver, già s'intende, portato via in ogni genere tutto ciò che potevano. Né io, né la mia donna in tutto questo frattempo abbiamo mai messo piede in Firenze, né contaminati i nostri occhi né pur con la vista di un solo Francese. Ma il tri- pudio di Firenze in quella mattina dell' evacuazione, e giorni dopo nell'ingresso di 200 usseri austriaci, non si può definir con parole. Avvezzi a quella quiete della villa, ci volemmo stare ancora un altro mese, prima di tornare in Firenze, e riportarvi i nostri mobili e libri. Tornato in città, il mutar luogo non mi fece mutar in nulla l'intrapreso sistema degli studj, e continuava anzi con pili sapore, e speranza, poiché per tutto quel rimanente del- l'anno 99, essendo disfatti per tutto i Francesi, risorgeva alcuna speranza della salute dell'Italia, ed in me risorgeva la privata speranza, che avrei ancor tempo di finir tutte le mie piìi che am- mezzate opere. Ricevei in quell'anno, dopo la battaglia di Novi', una lettera del marchese Colli, mio nipote, cioè marito di una figlia di mia sorella, che non m'era noto di persona, ma di fama, come ottimo ufiziale ch'egli era stato, e distintosi in quei cinque e piti anni di guerra, al servizio del re di Sardegna suo sovrano naturale, sendo egli d'Alessandria. Mi scrisse dopo essere stato fatto prigioniero, e ferito gravemente, sendo allora passato al servizio dei Francesi, dopo la deportazione del re di Sardegna fuori dei di lui Stati, seguita nel gennajo di quell'anno 99. La di lui lettera, e la mia risposta ripongo qui tra le note'. E dirò qui per incidenza quello che mi scordai di dir prima, che anzi l'invasion dei Francesi, io avea veduto in Firenze il re di Sar- degna, e fui a inchinarlo, come di doppio dover mio, sendo egli stato il mio re, ed essendo allora infelicissimo. Egli mi accolse 1 NflU quale, il 15 igosfo 1709, i Francesi furono vinti; essi si rlnchiu- •ero in Ocnovt con non pochi Iialuni, tra i quali il Foscolo. * V. Appendice. 19. - Classiti Italicni. N. 2. 290 Vittorio Alfieri assai bene; la di lui vista mi commosse non poco, e provai i quel giorno quel eh' io non avea provato mai, una certa vogli di servirlo, vedendolo si abbandonato, e sì inetti i pochi, eh gli rimanevano: e me gli sarei profferte, se avessi creduto e potergli essere utile; ma la mia abilità era nulla in tal gener di cose, e ad ogni modo era tardi. Egli andò in Sardegna; va riarono poi intanto le cose, egli tornò di Sardegna, ristette de mesi molti in Firenze al Poggio Imperiale, tenendo gli Austriac allora la Toscana in nome del Graa-Duca ; ma anche allora, ma consigliato, non fece nulla di quel che doveva e poteva per l'util suo e del Piemonte ; onde di nuovo poi tornate al peggio le cose egli si trovò interamente sommerso. Lo inchinai pure di nuovo a ritorno di Sardegna, e vistolo in migliori speranze, molto raen< mi rammaricai meco stesso di non potergli esser utile in nulla Appena queste vittorie dei difensori dell'ordine e delle prò prietà mi aveano rimesso un poco di balsamo nel sangue, chi mi toccò di provare un dolore acerbissimo, ma non inaspettato Mi capitò alle mani un manifesto del libraio Molini Italiano d Parigi, in cui diceva di aver intrapreso di stampare tutte le raii opere (diceva il manifesto, filosofiche, sì in prosa che in versi) e ne dava il ragguaglio, e tutte pur troppo le mie opere stam paté in Kehl, come dissi, e da me non mai pubblicate, vi si tro vavano per estenso. Questo fu un fulmine che mi atterrò pe molti giorni, non già che io mi fossi lusingato, che quelle mi( balle di tutta l'edizione delle quattro opere Rime, Etruria, Ti rannide e Principe, potessero non essere state trovate da chi m aveva svaligiato dei libri, e d'ogni altra cosa da me lasciata ii Parigi, ma essendo passati tant'anni, sperava ancora dilazione Fin dall'anno 93 in Firenze, quando vidi assolutamente perdut i miei libri, feci pubblicare un avviso in tutte le Gazzette d' Italia ove diceva essermi stati presi, confiscati e venduti i miei libri e carte, onde io dichiarava già fin d'allora non riconoscer pe mia nessun' altra opera, fuorché le tali e tali pubblicate da me Le altre, o alterate, o supposte, e certamente sempre surre pitemi^nonle ammetteva. Ora nel 99 udendo questo manifesti del Molini, il quale prometteva per l'80O venturo la ristampi delle suddette opere, il mezzo più efficace di purgarmi agi occhi dei buoni e stimabili, sarebbe stato di fare un contro i Sottrattemi. La vi!.: 291 niantiesto, e confessare i libri per niiei, uire il modo con cui m'erano stati furati, e pubblicare, per discolpa totale del mio sentire e pensare, il Misogal/o, che certo è più che atto e ba- stante da ciò. Ma io non era libero, né il sono; poiché abito in Italia; poiché amo, e temo per. altri' che per me; onde non feci questo che avrei dovuto fare in altre circostanze ; per esentarmi una volta per sempre dall'infame ceto degli schiavi presenti, che non potendo imbiancare sé stessi, si compiacciono di sporcare gli altri, fingendo di crederli e di annoverarli tra i loro; ed io per aver parlato di libertà sono un di quelli, ch'essi si asso- ciano volentieri, ma me ne dissocierà ampiamente poi il Miso- gallo, agli occhi anche dei maligni e degli stupidì, che son i soli^ che mi posson confondere con codestoro; ma disgraziata- mente, queste due categorie sono i due terzi e mezzo del mondo. Non potendo io dunque fare ciò, che avrei saputo e dovuto, feci soltanto quel pochissimo che poteva per allora; e fu di ri- pubblicare di nuovo in tutte le Gazzette d'Italia il mio avviso del 93, aggiungendovi la poscritta, che avendo udito che si pub- blicava in Parigi delle opere in prosa e in versi, sotto il mio nome, rinnovava quel protesto fatto sei anni innanzi. Ma il fatto si era che quell'onesto letterato dell'ambasciator Qinguené che mi aveva scritto le lettere surriferite e che io poi avea fatto richiedere in voce dall'abate di Caluso, giacché egli voleva pure ad ogni costo fare p)er me, eh' io non richiedeva i miei libri né altro, ma che solamente avrei desiderato raccapezzar qnelle sei balle dell' edizioni non pubblicate ad impedire ogni circolazione: fatto si é dico (a quel ch'io mi penso) che il Qin- guené ritornato poi a Parigi avrà frugato tra i miei libri di nuovo e trovatavi una ballottina contenente 4 soli esemplari di quelle 4 opere, se le appropriò : ne vendè forse al Molini un esemplare perchè si ristampassero e le altre si tenne e tradusse le prose in francese per fame bottega e donò, non essendo sue, alla biblio- teca nazionale come sta scritto nella prefazione stessa del 4* volume ristampato dal Molini che dice non essere reperibile l'edizione prima, altro che A esemplari ch'egli individua cosi come ho detto e che tornano per l'appunto con la piccola balla da me Usciata fra i libri altri miei*. « Non occorre «ottintenderc un più : non temo per me, ma per altri. * Di questo /a//tf, attribuito al Oinguené, non vi è nessuna prova. 292 Vittorio Alfieri Quanto poi alle sei balle contenenti più di 500 esemplari di ciascun' opera non posso congetturare cosa ne sia avvenuto. Se fossero state trovate ed aperte, circolerebbero, e si sarebbero vendute piuttosto che ristampate, sendo sì belle l'edizioni, la carta, e i caratteri, e la correzione. Il non essere venute in luce mi fa credere che ammontate in qualche di quei sepolcri di libri, che tanti della roba perduta ne rimangono intatti a putrefarsi in Parigi, non siano stati aperti ; perchè ci avea fatto scrivere su le balle di fuori — Tragedie Italiane. — Comunque sia, il doppio danno ne ho avuto di perdere la mia spesa e fatica nella pro- prietà di quelle stampate da me, e di acquistare (non dirò l'in- famia) ma la disapprovazione e la taccia di fai da corista a quei birbi, nel vedermele pubblicate per mezzo delle stampe d'altrui. La vita 293 APPENDICE Veneralisslrao Sig. Zio. Sul punto di abbmdonare l'Italia, per forse tornarvi mai più, mi per- metta, Sig. Zio veneratiss., ch'io le parli del sommo rincrescimento che provo nel dovere rinunciare alla speranza che da tempo nudrivo di cono- scerla una volta personalmente. Questa mia determinazione, che a me pare dettata da delicatezza, dai molti è nommata eccesso d'amor proprio e dai più pregiudizio ridicolo. Forse han ragione ; ma non posso far forza alla mia natura che così mi dice; e quando mi fosse stato possibile, le minaccie di esigilo perpetuo, di confisca de' miei beni, che mi la in questo punto il Governo Piemontese se non rientro subito ; queste sole minaccie baste- rebbero a rìffrancanni nella già presa determinazione. — Pugnai contro i Francesi quando erano vittoriosi; cominciai a pugnar per essi quando furon vinti, e non posso assolutamente determinarmi a lasciarli perdenti. Credo che non anderà guari ch'io sarò cambiato. Non so quando le numerose ferite ultimamente rilevate mi permetteranno di ritrattar l'anni, certo se guerreggierò non sarà mai in Italia. — Desidero la pace (non la credo prossima), affine di chiamare a me l'amata mia Consorte, virtuosis- sima Nipote di lei, e l'unico mio Figlio ; infinito duolo provo in separar- mene ; oh, quanto desidererei che lei la conoscesse ! Donna più dolce, più teiiera, di anima più alta, più nobile, di sensi più sublimi, non seppi mai neppure immaginarla. Parto domani alla volta di Oratz, e provo una vera consolazione nel- l'avere aperto il mio cuore a Lei, non già ch'io creda che la mii con- dotta possa venir approvata, ma forse qualcuno fra I Piemontesi capitati a Firenze, mi avrà dipinto a lei come un fanatico, o un uomo di smisu- rata ambizione; non sono né l'un né l'altro, ero forse nato per viver in un altro secolo, fra altri uomini ; sono veramente ridicolo in questo secolo, mi trovavo tale fra i Piemontesi, mi vedo tale fra i Francesi. Spero da lei, veneratissimo Sig. Zio, compatimento se erro, e spero pure vorrà accettare l'assicuranza dei sentimenti di verace stima, e d'ossequioso attaccamento co' quali mi pregio essere Di VS. Veneratiss. Treviso H 2 Novembre 1799. Der.mo ed Obb.mo Serv. ed Aff.mo Nipote, Luioi Colli. Nipote mio. Firenze di 16 Novembre 1799. Ad uomo di allo e di forte animo, quale vi reputo e siete, o queste poche mie veracissime e cordiali parole basteranno, o nessune. Olà l'onor vostro avete leso voi stesso e non poco, dal punto in cui voi, per somma vostra fortuna non nato Francese, spontaneamente pure Indos- saste la livrea della France«e Tirannide. Risarcirlo potete forse ancora voi stesto, volendo: ma egli sarà pur troppo in tutto perduto, e per sempre, •e voi persistete in una cosi obbrobriosa servitù. N> lo già vi dico di eedere alle minaccie di confisca, o d'esiglio, fattevi da'. Governo Piemon- - ; ma di cedere bensì alle ben altre incessanti mintcde che vi fanno 294 ViUorio Alfieri senza dubbio la propria vostra cosdenza, e l'onore, e l' inevitabile Tribù naie terribile di chi dopo noi ci accorda, o ci toglie con imparziale giu- dizio la fama. La vostra era stata finora, non che intatta, gloriosa; non uno dei Piemontesi che ho visti mi ha parlato di voi, che non stimasse e ammirasse i vostri militari talenti. Riassumetela dunque, col confessare sì ai Francesi medesimi, che ai vostri, che voi avete errato servendo gli oppressori e i Tiranni della nostra Italia. Ed ove pure vi possa premere la stima di una gente niente stimabile, sappiate che gli stessi Francesi vi stimeranno assai più se li abbandonate, di quello che vi stimeranno anche valorosamente servendoli. Del resto, quand' anche codesti vostri schiavi parlanti di libertà trionfas- sero, e venissero a soggiogare tutta l'Europa; o quand'anche voi perve- niste fra essi all'apice dei massimi loro vergognosissimi onori, non già per questo mai rimarreste voi pago di voi medesimo,' ne con sicura e libera fronte ardireste voi inalzare nei miei occhi i vostri occhi, incon- trandomi. La mendicità dunque, e' la più oscura vita nella vostra patria (il che pure non vi può toccar mai) vi farebbero e meno oppresso, e men vile, e meno schiavo d'assai, che non il sedervi su l'uno dei cinque Troni Direttoriali in Parigi. Più oltre non potreste ascender voi mai; né mag- giormente contaminarvi. Ed in ultimo vi fo riflettere, che voi non potete la degnissima vostra Consorte ad un tempo stesso amare come mi dite e stimare, e macchiarla. Finisco, sperando, che una qualche impressione vi avran fatta nell'animo questi miei duri ma «sincerissimi ed affettuosi sentimenti, ai quali se voi non prestate fede per ora, son certo che il giorno verrà in cui pienissima la presterete poi loro; ma invano. Son tutto Vostro Vittorio Alfieri. Riveritiss. Sig. Zio. Ebbi l'onore richiamarmi alla di lei ricordanza nel partire d'Italia; non so se la mia lettera le sarà giunta. Vi ritorno, e la prima mia premura si è di ripetere quest'atto che mi vien commandato dalla stima, e (mi per- metta di dirlo) del rispettoso attaccamento che le professo. Ritorno in Italia coU'obbligo stretto di convincere il Governo Francese (o per dir meglio i miei amici Moreau, Desolles, Bonaparie, Orouchi, Oré- nìer) della mia riconoscenza perde non dubbie, reiterate, ostinate prove di vivo interessamento a mio favore dimostrate. — Combatterò dunque ancora; l'amicizia, la gratitudine mi faran combattere... Chi sa, forse l'ambizione si maschera così. Non starò più in Piemonte, se il re di Sardegna vi rientra non devo decentemente starvi. Se il Piemonte si democratizza vi sono troppo amato dai Contadini per potere starvi senza correre il rischio d'ingelosire i debo- lissimi Governanti della nascente Repubblica. Non so ancora dove mi fis- serò. Forse in Francia, ma non mi vi decido ancora. Vado a Milano, dovrò starvi circa 15 giorni; se l'armistizio durerà, anderò poi a Parigi; ma prima, se me lo permette, avrò 1' onore di personalmente assicurarla degli ossequiosi sentimenti co' quali mi pregio essere Di V. S. Reveritiss. Bologna li 31 Ottobre 1800. Dev.mo ed Obb.mo Serv. ed Affex.mo Nipote, Colli. La vita 295 CAPITOLO VIOESiMONONO Seconda invasione. Insistenza nojosa del General letterato. Pace tal quale, per cui mi scemano d'alquanto le angustie. Sei Commedie ideate ad un parto. Appena per qualche mesi aveva l'Italia un poco respirato dal giogo e ruberie francesi, quando la favolosa battaglia di Ma- rengo nel giugno del 1800 diede in poche ore l' Italia tutta in preda di costoro, chi sa per quant' anni. Io la sentiva quanto e piti ch'altri, ma piegando il collo alla necessità, tirava a finire le cose mie senza più punto curare per cosi dire un pericolo, dal quale non m'era divezzato ancora, né oramai, visto l'insta- bilità di codeste sozzure politiche, me ne divezzerò mai piìi. As- siduamente dunque lavorando sempre a ben ridurre e limare le mie quattro traduzioni greche, e nuli' altro poi facendo che proseguire ardentemente gli studj troppo tardi intrapresi, strasci- nava il tempo. Venne l'ottobre, e il dì 15 d'esso, ecco di nuovo inaspettatamente in tempo di tregua fissata con l'Imperatore, invadono i Francesi di nuovo la Toscana, che riconoscevano tenersi pel Gran-Duca, col quale non erano in guerra. Non ebbi tempo questa volta di andare in villa come la prima, e bisognò sentirli e vederli, ma non mai altro, s'intende, che nella strada. Del resto la maggior noia e la più oppressiva, cioè l'alloggio militare, venni a capo presso il comune di Firenze di farmene esentare come forestiere, ed avendo una casa ristretta e incapace. Assoluto di questo timore, che era il più incalzante e tedioso, del resto mi rassegnai a quel che sarebbe. Mi chiusi per così dire in casa, e fuorché due ore di passeggiata a me necessarie, che faceva ogni mattina nei luoghi più appartati e soletto, non mi facea mai vedere, né desisteva dalla più ostinata fatica. Ma se io sfuggiva costoro, non vollero essi sfuggire me, e per mia disgrazia il loro generale comandante in Firenze', pizzicando del letterato, volle conoscermi, e civilmente passò da me una, e due volte, sempre non mi trovando, che già avea provvisto di non essere reperibile mai ; né volli pure rendere garbo per garbo » Carlo Francesco Miollis (1759-1828) il quale fu a lungo governatore di Mantova, poi di Roma, dimcttrò una speciale simpatia per la nostra let- teratura. 296 Vittorio Alfieri col restituir per polizza la visita. Alcuni giorni dopo egli mandc ambasciata a voce, per sapere in che ore mi potrebbe trovare, Io vedendo crescere l' insistenza, e non volendo commettere ad un servitor di piazza la risposta in voce, che potea venire o scam- biata o alterata, scrissi su un fogliolino; che Vittorio Alfieri, perchè non seguisse sbaglio nella risposta da rendersi dal servo al signor generale, mettea per iscritto : che se il generale in qua- lità di comandante in Firenze intimavagli di esser da lui, egli ci si sarebbe immediatamente costituito, come non resistente alla forza imperante, qual ch'ella si fosse: ma che se quel volermi vedere era una mera curiosità dell'individuo, Vittorio Alfieri di sua natura molto selvatico non rinnovava oramai piìi conoscenza con chi che sia, e lo pregava quindi di dispensamelo. Il gene- rale rispose direttamente a me due parole, in cui diceva che dalle mie opere gli era nata questa voglia di conoscermi, ma che ora vedendo questa mia indole ritrosa, non ne cercherebbe altrimenti. E così fece ; e così mi liberai di una cosa per me più gravosa e accorante, che nessun altro supplizio che mi si fosse potuto dare'. In questo frattempo il già mio Piemonte, celtizzato anch' egli, scimmiando ogni cosa dei suoi servipadroni, cambiò l'Accademia sua delie scienze, già detta reale, in un Instituto nazionale a norma di quel di Parigi, dove avean luogo, e le belle lettere, e gli artisti. Piacque a coloro, non so quali si fossero (perchè il mio amico Caluso si era dimesso del segretariato della già Accademia), piacque dico a coloro di nominarmi di codesto Isti- tuto, e darmene parte con lettera diretta, lo prevenuto già dal- l'abate, rimandai la lettera non apertala, e feci dire in voce dal- l'abate, che io non riceveva tale aggregazione; che non voleva essere di nessuna, e massimamente d'una donde recentemente erano stati esclusi, con animosa sfacciataggine, tre così degni soggetti, come il cardinale Gerdil-, il conte Balbo^, ed il cavalier Morozzo*, come si può vedere dalle qui annesse lettere* dell' a- » Su questo episodio cfr. O. Mazzatinti, Carte alfierlane c\t, \n Qlor. stor. della lett. ital., HI, p. 342. « Giacinto Sigismondo OerdiI, cardinale e filosofo savoiardo (1718-1S02). « Prospero Balbo (1762-1837), padre di Cesare, esercitò pubblici uffici anche sotto la dominazione francese. * Carlo Lodovico Morozzo (1746-1802), patrizio torinese, illustratosi quale chimico. » V. Appendice. La vita 297 mico Caluso, non adducendo di ciò altra cagione, fuorché questi erano troppo realisti. Io non sono mai stato, né sono realista, ma non perciò son da essere misto con tale genia : la mia re- pubblica non è la loro, e sono, e mi professerò sempre d'essere in tutto quel ch'essi non sono. E qui pure pien d'ira pel rice- vuto affronto, mi spergiurai rimando quattordici versi su tal fatto, e li mandai all'amico; ma non ne tenni copia, né questi né altri che l' indegnazione od altro affetto mi venisse a strappar dalla penna, non registrerò oramai più fra le mie già troppe rime. Non cosi aveva io avuto la forza di resistere nel settembre dell'anno avanti ad un nuovo (o per dir meglio) ad un rinno- vato impulso naturale fortissimo, che mi si fece sentire per più giorni, e finalmente, non lo potendo cacciare, cedei. E ideai in iscritto sei commedie, si può dire ad un parto solo. Sempre avea avuto in animo di provarmi in quest'ultimo arringo; ed avea fissato di farne dodici, ma 1 contrattempi, le angustie d' animo, e più d'ogni cosa lo studio prosciugante continuo di una sì im- mensamente vasta lingua, qual è la greca, mi aveano sviato e smunto il cervello, e credeva oramai impossibile ch'io conce- pissi più nulla, né ci pensava neppure. Ma, non saprei dir come nel più triste momento di schiavitù, e senza quasi probabilità, né speranza di uscirne, né d'aver tempo io più, né mezzi per eseguire, mi si sollevò ad un tratto lo spirito, e mi riaccese fa- lle creatrici. Le prime quattro commedie' adunque, che sono iasi una divisa in quattro, perché tendenti ad uno scopo solo, n per mezzi diversi, mi vennero ideate insieme in una passeg- iata. e tornando ne feci l'abbozzo al solito mio. Poi il giorno ipo fantasticandovi, e volendo pur vedere se anche in altro genere ne potrei fare, almeno una per saggio, ne ideai altre due*, tli cui la prima fosse di un genere anche nuovo per l'Italia, ma diverso dalle quattro, e la sesta poi fosse la commedia mera ita- liana dei costumi d'Italia quali sono adesso; per non avertacela !i non saperli descrivere. Ma appunto perché i costumi variano, li vuol che le commedie restino, deve pigliar a deridere, ed emendare l'uomo; ma non l'uomo d'Italia, più che di Francia "', L'antidoto. Le tre prime commedie sono ri- 5 ila monarchia, della oligarchia e della dcmo- '■' . ;.• in quakoi* che ha della monarchia costittizio» .:e » «ipo inglese. > Im finestrtna e // div^rtlo: allegorica la prima, morale la s. con la. 298 Vittorio Alfieri o di Persia ; non quello del 1800, più che quello del 1500, o del 2000, se no perisce con quegli uomini e quei costumi, il sale della commedia e l'autore. Così dunque in sei commedie io ho creduto, o tentato di dare tre generi diversi di commedie. Le quattro prime adattabili ad ogni tempo, luogo, e costume; la quinta fantastica, poetica, ed anche di largo confine; la sesta nell'andamento moderno di tutte le commedie che si vanno fa- cendo, e delle quali se ne può far a dozzina imbrattando il pen- nello nello sterco che si ha giornalmente sotto gli occhi: ma la trivialità d'esse è molta; poco, a parer mio, il diletto, e nessu- nissimo utile. Questo mio secolo, scarsetto anzi che no d' inven- zioni, ha voluto pescar la tragedia dalla commedia, praticando il dramma urbano \ che è come chi direbbe l'epopea delle Rane. Io all' incontro che non mi piego mai se non al vero, ho voluto cavare (con maggiore verisimiglianza mi credo) dalla tragedia la commedia ; il che mi pare più utile, più divertente, e più nel vero; poiché dei grandi e potenti che ci fan ridere si vedono spesso; ma dei mezzani, cioè banchieri, avvocati, o simili, che si facciano ammirare non ne vediamo mai; ed il coturno assai male si adatta ai piedi fangosi. Comunque sia l'ho tentato; il tempo, ed io stesso rivedendole, giudicherò poi se debbano stare, o bruciarsi. » O tragedia borghese, avente personaggi non storici e di condizione non elevata. La vita 299 APPENDICE Amico carissimo. Firenze li 6 Marzo 1801. Ho ricevuto per mezzo di D ' Albarey le due vostre, di cui l' ultima de' 25 Febbraio mi ha molto angustiato per la notizia che mi vi date di esser io stato nominato non so da chi per essere aggregato a codesta adu- nanza letteraria. Veramente io mi lusingava che la vostra amicizia per me, e la pienissima conoscenza che avete del mio carattere indipendente, ritroso, orgoglioso, ed intero, vi avrebbero impegnato a distornare da me codesta nomina; il che era facilissimo prima, se voi aveste pregato i nominanti di sospenderla finche me ne aveste prevenuto ; ovvero se con quella schiet- tezza e libertà che si può sempre adoprare quando si parla per altri, voi a%'este addotto il mio modo invariabile di sentire e pensare come un osta- colo assoluto ad una tale aggregazione del mio individuo. Comunque sia, già che non lo avete fatto prima, vi prego caldissimamente di farlo dopo, e di liberarmene ad ogni costo; e voi lo potete far meglio di me, stante la dolcezza del vostro aureo carattere. Sicché, restiamo così ; che io non avendo finora ricevuto lettera nessuna di avviso, caso mai la ricevessi, la dissimulerò come non ricevuta, finché voi abbiate risposto a questa mia, ed annunziatomi il disimpegno accettato. E questo vi sarà facile, perché io consento volentieri, che i Nominanti e i Proponenti per conservare il loro decoro si ritrattino dell'avermi aggregato, e mi disnominino per così dire con la stessa plenipotenza con cui mi hanno creato ; e dicano o che fu sbaglio, o che a pensier maturato non me ne reputan degno, lo non ci metto vanità nessuna nel rifiuto, ma metto importanza moltissima nel non v'essere in nessuna maniera inscritto, e se già lo sono stato ad esseme assolutamente cassato. Io non cerco come ben sapete gli onori, né veri, né falsi ; ma io per certo non mi lascierò addossare mai vergogna nessuna. E questa per me sarebbe massima, non già per il ritrovarmi io in com- pagnia di tanti rispettabili soggetti come avete fra voi, ma per l'esservi in tali circostanze, in tal modo ; ed in somma non soffrirei mai di essere in- tmso in una Società Letteraria, dalla quale sono espulse delle persone come il conte BaltH), e il cardinal Oerdil. Sicché le tante altre e validissime ragioni che avrei, e che voi conoscete e sentite quanto me, reputandole inutili, a voi non le scrivo; ma mi troverei poi costretto a metterle in tutta la loro evidenza e pubblicità, quando per mezzo vostro non ottenessi il mio intento. Se dunque voi mi cavate di questo impiccio, e se siete in tempo a rispar- tniarmi la lettera d'avviso, sarà il meglio. Se poi la riceverò, e sarò costretto a dame discarico con risposta diretta, mi spiacerà di dovermene cavar fuori io stesso con mezzi o parole spiacenti non meno che inutili, quando se ne potea f In seguito ai trattati di Lunéville, Firenze ed Aniiens. 302 Vittorio Alfieri che aveva donato alla sorella, in mano di estranei. Che eredi saranno della mia sorella, e cognato, tre figlie, che le riman- gono, tutte tre accasate ; una come dissi col Colli d'Alessandria, l'altra con un Ferreri di Genova, e l'altra con il Conte di Cal- lanoi d'Aosta. Quella vanitaduzza, che si può far tacere, ma non si sradica mai dal cuore di chi è nato distinto, di desiderare una continuità del nome, o almeno della famiglia, non mi s'era nep- pure totalmente sradicata in me, e me ne rammaricai più che non avrei creduto ; tanto è vero, che per ben conoscer se stessi, bisogna la viva esperienza, e ritrovarsi nei dati casi, per poter dire quel che si è. Questa orfanità di nipote maschio, mi indusse poi a sistemare amichevolmente con mia sorella altri mezzi per l'assicurazione della mia pensione in Piemonte, caso mai (che noi credo) ch'io dovessi sopravvivere a lei, per non ritrovarmi all'arbitrio di codeste nipoti, e dei loro mariti, che non conosco. Ma intanto quella quantunque pessima pace avea pure ricon- dotto una mezza tranquillità in Italia, e dal despotismo francese essendosi annullate le cedole monetate sì in Piemonte, che in Roma, tornati dalla carta all'oro si la signora che io, ella di Roma^, io di Piemonte cavando, ci ritrovammo ad un tratto fuori quasi dell'angustia, che avevamo provato negli interessi da più di cinque anni, scapitando ogni giorno più dell'avere. Perciò sul finire del sudetto 801 ricomprammo cavalli, ma non più che quattro, di cui solo uno da sella per me, che da Parigi in poi non avea mai più avuto cavallo, né altra carrozza che una pes- sima d' affitto. Ma gli anni, le disgrazie pubbliche, tanti esempi di sorte peggior della nostra, mi aveano reso moderato e discreto; onde i quattro cavalli furono oramai anche troppi, per chi per molti anni appena si era contentato di dieci, e di quindici. Del rimanente poi bastantemente sazio e disingannato delle cose del mondo, sobrio di vitto, vestendo sempre di nero, nulla spendendo che in libri, mi trovo ricchissimo, e mi pregio assai di morire di una buona metà più povero, che non son nato. Perciò non attesi alle offerte che il mio nipote Colli mi fece dare dalla sorella di adoprarsi in Parigi, dove egli andava a fissarsi, presso quei suoi amici, ch'egli senza vergogna mi annovera e nomina nella sua seconda lettera che ho pure trascritta, di ado- ' Challant. « Dal cognato cardinale, duca di York. La vita 303 prarsi, dico, presso coloro per farmi rendere il mio confiscatomi in Francia, l'entrate, ed i libri, ed il rimanente. Dai ladri non ripeto mai nulla; e da una risibil tirannide, in cui l'ottener giu- stizia è un? grazia, non voglio né l'una né l'altra. Onde non ho altrimenti neppure fatto rispondere al Colli nulla su di ciò; come neppure nulla avea replicato alla di lui seconda lettera, in cui egli dissimula di aver ricevuta la mia risposta alla prima; ed in fatti permanendo egli general francese, dovea dissimular la mia sola risposta. Così io permanendo libero e puro uomo italiano, dovea dissimular ogni sua ulteriore lettera, e offerta, che per qualunque mezzo pervenir mi facesse. Venuto appena l'estate dell' 802 (che l'estate, come le cicale io canto), subito mi posi a verseggiare le stese commedie, e ciò con lo stesso ardore e furore, con cui già le avea stese e ideate. E quest'anno pure risentii, ma in altra maniera, i funesti effetti del soverchio lavoro, perchè, come dissi, tutte queste composizioni erano in ore prese su la passeggiata, o su altro, non volendo mai toccare alle tre credi studio ebdomadario di svegliata'. Sicché quest'anno, dopo averne verseggiate due e mezza, nell'ardor del- l' agosto fui assalito dal solito riscaldamento di capo, e più da un diluvio di fignoli- qua e là per tutto il corpo; dei quali mi sarei fatto beffe, se uno, il re di tutti, non mi si fosse venuto ad inne- stare nel piede manco, fra la noce esterna dello stinco ed il ten- dine, che mi tenne a letto più di 15 giorni con dolori spasmodici, e risipola di rimbalzo, che il maggior patimento non l'ho avuto mai a' mici gliomi. Bisognò dunque smettere anche quest'anno le commedie, e soffrire in letto. E doppiamente soffersi, perchè •i combinò in quel settembre, che il caro Caluso che da molti anni ci prometteva una visita in Toscana, potè finalmente capi- tarci quest' anno, e non ci si poteva trattenere più di un mesetto, perchè ci veniva per ripigliare il suo fratello primogenito, che da circa due anni si era ritirato a Pisa, per isfuggire la schiavitù di Torino celtLz2ato. Ma in quell'anno una legge di quella solita liberti costringeva tutti i Piemontesi a rientrare in gabbia per il di tanti settembre, a pena al solito di confiscazione, e espulsione dai felicissimi Suti di quella incredibil repubblica \ Sicché il buon > Appciu sveglio. « Foruncoli. » Ugge del IO messidoro anno X (M giugno 1802) allt qu«le si sot- traste l'A. con giuramento prestato, in vece sua, dalla sorella Giulia, di 304 Vittorio Alfieri abate, venuto così a Firenze, e trovatomi per fatalità In letto, come mi CI avea lasciato 15 anni prima in Alsazia, che non c'eramo piìi visti, mi fu dolce, ed amarissimo il rivederlo essendo impedito e non mi potendo né alzare, né muovere, né occupare di nulla Oh diedi però a leggere le mie traduzioni dal greco, le Satire ed 11 Terenzio, e il Virgilio, ed in somma ogni cosa mia, fuorché le commedie, che a persona vivente non ho ancora né lette né nominate, finché non le vedo a buon termine. L'amico si mostrò sul totale contento dei miei lavori, mi diede in voce, e mi pose anche per iscritto dei fratellevoli e luminosi avvisi su le tradu- zioni dal greco, di cui ho fatto mio prò, e sempre più lo farò nel dare loro l'ultima mano. iMa intanto sparitomi qual lampo dagli occhi l'amico dopo soli 27 giorni di permanenza, ne rimasi dolente, e male l'avrei sopportata, se la mìa incomparabile com- pagna non mi consolasse di ogni privazione. Guarii nell'ottobre, ripigliai subito a verseggiar le commedie, e prima dei ...» de- cembre, le ebbi terminate, né altro mi resta che a lasciarìe matu- rare e limarle. CAPITOLO TI^QESIMOPRIMO Intenzioni mie su tutta questa seconda mandata di opere inedite. Stanco esaurito, pongo qui fine ad ogni .ifupva impresa; atto più a disfare che a fare, spontaneamente esco dall' Epoca IV virile, ed in età di anni 54 Vo mi do per vecchio, dopo 28 anni di quasi continuo inventare, verseggiare' tradurre, e studiare. Invanito poi bambinescamente dell'avere quasiché spuntata la difficolta del greco, invento l'Ordine d'Omero, e me ne creo àuxoxeìp Cavaliere. Ed eccomi, s' io non erro, al fine oramai di queste lunghe e no- iose ciarle. Ma se io avea fatte o bene o male tutte le surriferite cose, mi conveniva pur dirie. Sicché se io sono stato nimio^ nel raccontare, la cagione n'è stata l'essere stato troppo facondo nel fare. Ora le due anzidette malattie in queste due ultimi estati, mi avvisano ch'egli é tempo di finire e di fare e di raccontare. Onde qui pongo termine all'epoca IV, essendo ben certo che non voglio più, né forse potrei volendo, creare più nulla. Il mio dì- rinunzia . à toute relation avec la maison de Savoie, avec les puissances étrangeres ., e di . fidélité à la Constitution du peuple Francais .. Ctr. t. HtHTANA, Vittorio Alfieri cit., p. 295 sgg. > Nella copia del Tassi: degli otto \T.\. » Troppo minuto, mi sono indugiato troppo (lat. nimis = troppo). La vita 305 segno si è di andare sempre limando e le produzioni, e le tradu- zioni, in questi cinque anni e mesi che mi restano per giungere agli anni 60, se Iddio vuole che ci arrivi. Da quelli in poi, se li passo, mi propongo, e comando a me stesso di non fare più nulla affatto, fuorché continuare (il che farò finché ho vita) i miei studi intrapresi. E se nulia ritornerò su le mie opere, sarà per disfare, o rifare (quanto all' eleganza), ma non mai per aggiungere cosa che fosse. Il solo trattato aureo della vecchiaia di Cicerone*, tradurrò ancora dopo i sessanta anni ; opera adattata all'età, eia dedicherò alla mia indivisibile compagna, con cui tutti i beni o mali di questa vita ho divisi da 25 e più anni, e sempre più dividerò. Quanto poi allo stampare tutte queste cose che mi trovo, o troverò fatte, ai 60 anni, non credo oramai più di farlo; si perchè troppa è la fatica ; e si perché stando come fo in governo non libero, mi toccherebbe a soffrire delle revisioni, e a questo non mi assoggetterei mai. Lascerò dunque dei puliti e corretti mano- scritti, quanto più potrò e saprò, di quell'opere che vorrò la- sciare credendole degne di luce; brucierò l'altre; e così pure farò della vita eh' io scrivo, rìducendola a pulimento, o brucian- dola. Ma per terminare oramai lietamente queste serie filastrocche, e mostrare come già ho fatto il primo passo dell' epoca V di rim- bambinare, non nasconderò al lettore per farlo ridere, una mia ultima debolezza di questo presente anno 1803. Dopo ch'ebbi finito di verseggiare le commedie, credutele in salvo e fatte, mi sono sempre più figurato e tenuto di essere un vero personaggio nella posterità. Dopo poi che continuando con tanta ostinazione nel greco, mi son visto, o creduto vedere, in un certo modo pa- drone di interpretare da per tutto a prima rivista, si Pindaro, che i tragici, e più di tutti il divino Omero, si in traduzione let- terale latina, che in traduzione sensata italiana, son entrato in un certo orgoglio di me di una si fatta vittoria riportata dai 47 ai 54 anni. Onde mi venne in capo, che ogni fatica meritando premio, io me lo dovea dare da me, e questo dovea essere decoro, ed onore, e non lucro. Inventai dunque una collana, col nome inci- lovi di 23 poeti', si antichi che moderni, pendente da essa un ' Il De Seneetute, capolavoro di ri^onatnento, di arguzia e di (pmzia. )|»rc Omero. Le pieJpou Koipavixfjc Tijiifjv i^X^avs 5-eioTépav. Forse inventava Alfieri un Ordin vero Nel farsi egli stesso Cavalier d'Omero. INDICE Prcpazione Poe- * PARTE PRIMA iDtrodnzione /'O?- 3 EPOCA PRIMA. — Puerizia, Capitolo I. Nascita, e parenti Pag. 7 » II. Reminiscenze dell'infanzia > 9 • HI. Primi sintomi di nn carattere appassionato . . > II » IV. Sviluppo dell'indole indicato da varj fattarelB» > M » V. Ultima storiella puerile > 18 EPOCA SECONDA. — Ai>OLC5f:ENZA. Capitolo I. Partenza dalla casa materna, ed ingresso nella Accademia di Torino, e descrizione di essa . Pag. 22 > II. Primi studi, pedantescU, e mal fatti . . . . > 25 ' III. A quali de' parenti in Torino venisse affidata la mia adolescenza » 28 » IV. Continuazione di quei non-stud] > 30 » V. Varie Insulse vicende, su lo stesto andamento del precedente > 34 • VI. Debolezza della mia complessione ; infermiti con- tinue; ed incapaciti d'ogni esercizio, e mas- simamente del ballo, e perchè > 38 > VII. Morte drllo zio paterno. Liberazione mia prima. Ingresso nel primo appartamento dell'Acca- demia » 42 > VIII. Ozio totale. Contrarietl incontrate, e fortemente sopportate > 47 308 ìndici Capìtolo IX. Matrimonio della sorella. Reintegrazione dei mio onore. Primo cavallo Pag. Ai > X. Primo amoruccio. Primo viaggetto. Ingresso nelle truppe • > 50 Capi Capi EPOCA TERZA. — Giovinezza. OLD I. Primo viaggio. Milano, Firenze, Roma . . . Pag. 54 II. Continuazione dei viaggi, liberatomi anche dal- l'ajo III. Proseguimento dei viaggi. Prima mia avarizia . IV. Fine del viaggio d' Italia ; e mio primo arrivo a Parigi V. Primo soggiorno in Parigi VI. Viaggio in Inghilterra e in Olanda. Primo in- toppo amoroso VII. Ripatrìato per un mezz'anno, mi do agli studj filosofici Vili. Secondo viaggio, per la Germania, la Danimarca e la Svezia IX. Proseguimento di viaggi. Rnssia, Prussia di bel nuovo, Spa, Olanda e Inghilterra .... X. Secondo fierissimo intoppo amoroso a Londra. XI. Disinganno orribile XII. Ripreso il viaggio in Olanda, Francia, Spagna, Portogallo, e ritorno in patria XIII. Poco dopo essere rimpatriato, incappo nella terza rete amorosa. Primi tentativi di poesia XIV. Malattia, e ravvedimento XV. Liberazione vera. Primo sonetto EPOCA QUARTA. — Virilità. > I. Ideate, e stese in prosa francese le due prime tragedie il Filippo e il Polinice. Intanto un diluvio di pessime rime Pag. II. Rimessomi sotto il pedagogo a spiegare Orazio. Primo viaggio letterario in Toscana. . . . III. Ostinazione negli sfudj più ingrati IV. Secondo viaggio letterario in Toscana, macchiato di stolida pompa cavallina. Amicizia contratta col Gandellini. Lavori fatti o ideati in Siena V. Degno amore mi allaccia finalmente per sempre VI. Donazione intera di tutto il mio alla sorella. Se- conda avarizia VII. Caldi studj in Firenze Vili. Accidente, per cui di nuovo rivedo Napoli e Roma, dove mi fisso IX. Studj ripresi ardentemente in Roma. Compimento delle quattordici prime tragedie Indice 300 Ìapitolo X. Recita dell' Antigone in Roma. Stampa delle prime quattro tragedie. Separazione doloro- sissima. Viaggio per la Lombardia .... Pag. 202 > XI. Seconda stampa di sei altre tragedie. Varie cen- sure delle quattro stampate prima. Risposta alla lettera del Calsabigi > 213 > XII. Terzo viaggio in Inghilterra, unicamente per comperarvi cavalli > 215 » XIII. Breve soggìorao in Torino. Recita uditavi della Virginia > 221 » XrV. >^aggio in Alsazia. Rivedo la donna mia. Ideate tre nuove tragedie. Morte inaspettata del- l'amico Oori in Siena > 226 » XV. Soggiorno In Pisa. Scrittovi il Paiugiricu a Tra- jano, ed altre cose > 230 » XVI. Secondo viaggio in Alsazia, dove mi fisso. Idea- tivi, e stesi i due Bruti, e VAbelt. Stndj cal- damente ripigliati > 234 » XVII. Viaggio a Parigi. Ritomo in Alsazia, dopo aver fissato col Didot in Parigi la stampa di tutte le diciannove tragedie. Malattìa fierissima in Alsazia, dove l'amico Caluso era venuto per passare l'estate con noi » 237 » XVIII. Soggiorno di tre e più anni in Parigi. Stampa di tutte le tragedie. Stampa nel tempo stesso di molte altre opere in Kehl » 245 » XIX. Princìpio dei tumulti in Francia, i quali stur- bandomi in più maniere, di autore mi tras- formano in ciarlatore. Opinione mia sulle cose presenti e future di questo regno .... » 248 PARTE SECONDA Continuazione della QUARTA EPOCA. Proemi 256 • XXI. Quarto viaggio in Inghilterra e In Olanda. Ri- tomo a Parigi dove d fissiamo davvero, co- strettivi dalle dure circostanze » 257 » XXII. Fuga di Parigi, donde per le Fiandre e tutta la Oermania tornati in Italia ci fissiamo in Fi- renze 261 310 Indice Capit. XXIII. a poco a poco mi vo rimeitendo allo studio. Finisco le traduzioni. Ricomincio a scrìvere qualche cosarella di mio. Trovo casa piacen- tissima in Firenze, e mi do al recitare. . . Pag. » XXIV. La curiosità e la vergogna mi spingono a leg- gere Omero, ed i tragici greci nelle tradu- zioni letterali. Proseguimento tepido delle sa- tire, ed altre cosarelle > » XXV. Per qual ragione, in qual modo, e con quale scopo mi risolvessi finalmente a studiare da radice seriamente da me stesso la lingua greca > » XXVI. Frutto da non aspettarsi dallo studio serotino della lingua greca; io scrivo (spergiuro per l'ultima volta ad Apollo) VAlceste Seconda . » » XXVII. Misogallo finito. Rime chiuse colla Teleutodta, L'Abele ridotto ; così le due Alcesti, e VAm- monìmento. Dbtribuzìone ebdomadaria di studj. Preparato così, e munito delle lapidi sepolcrali, aspetto l' invasion de' Francesi, che segue nel Marzo 99 > » XXVIII. Occupazioni in villa. Uscita dei Francesi. Ri- . tomo nostro in Firenze. Lettere del Colli. Dolore mio nell'udire la ristampa prepararsi in Parigi delle mie opere di Kehl, non mai pubblicate » » XXIX. Seconda invasione. Insistenza nojosa del General letterato. Pace tal quale, per cui mi scemano d'alquanto le angustie. Sei commedie ideate ad un parto » » XXX. Stendo, un anno dopo averle ideate, la prosa delle sei Commedie ; ed un altr'anno dopo le verseggio : l'una e l'altra di queste due fatiche con gravissimo scapito della salute. Rivedo l'abate di Caluso in Firenze » > XXXI. Intenzioni mie su -tutta questa seconda mandata di opere inedite. Stanco, esaurito, pongo qui fine ad ogni nuova impresa; atto più a dis- "fare, che a fare, spontaneamente esco dal- l' Epoca IV virile, ed in età di anni 54 V, mi do per vecchio, dopo 28 anni di quasi con- tinuo inventare, verseggiare, tradurre, e stu- diare. Invanito poi bambinescamente dell'avere quasi che spuntata la difficoltà del greco, invento l'ordine d'Omero, e me ne creo i.\i\oytj6l(i Cavaliero > 3 PQ Alfieri, Vittorio i^681 La vita A2 1921 PLEASE DO NOT REMOVE CARDS OR SLIPS FROM THIS POCKET UNIVERSITY OF TORONTO LIBRARY